enzo marzo
«Berlusconi c’è ma il berlusconismo è morto»
W. Veltroni, luglio 2008
Gli studi sul fascismo sono stati copiosi in Italia e nel mondo. E non solo dopo la sua caduta. Gli stessi suoi oppositori – fascismo trionfante – analizzarono il fenomeno per cercare di comprenderlo e di contrastarlo. Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Togliatti e alcuni altri tentarono fin da subito di darne un’interpretazione, di rintracciarne le ascendenze e le cause; seppero distinguerlo dallo stesso mussolinismo e dalla politica quotidiana del duce. Il berlusconismo ha già quindici anni di vita. Il caso è stagionato come il suo anziano leader e nulla lascia prevedere che la sua fine sia alle porte. Anzi. Tuttavia ancora non abbiamo potuto leggere analisi approfondite. Eppure, né il fascismo né il berlusconismo possono essere liquidati come due lunghe parentesi estranee, in fondo, alla storia del nostro paese. Sono diversi, ma li accomuna – perlomeno – la disgrazia di essere riusciti entrambi a modificare radicalmente, dell’Italia, la politica, le istituzioni e la cultura. Che il fascismo avesse radici più solide (basti pensare al futurismo e a Gentile) e il berlusconismo percorra invece altri sentieri vuol dire poco. La cultura di massa degli anni ’30 del secolo scorso e quella del 2000 è assai diversa, ma sono entrambe di “massa”. Mussolini usava la radio, il manganello e la censura, Berlusconi sta usando il monopolio televisivo, il clericalismo e l’imbecillità degli avversari. Il risultato è equivalente: un’egemonia contro cui non s’intravedono strumenti efficaci, né politici né culturali.
Ma perché il berlusconismo non è studiato, anzi non è preso in considerazione neppure come categoria politica? Qui sta la prima differenza col fascismo. L’antifascismo accompagnò come un’ombra (ora pallida ora più consistente) tutta la durata del fascismo. Il berlusconismo è più forte del fascismo perché, con la complicità attiva di tutto il mondo variegato del post-comunismo e dei cosiddetti liberali della cattedra, ha esorcizzato l’antiberlusconismo, lo ha criminalizzato, lo ha ridicolizzato come fenomeno di pochi “fissati” che si ostinano ad annoiare la gente criticando le solite malefatte degli accoliti di Arcore. Se per il Veltroni dell’esergo il berlusconismo non esiste neppure, è ovvio che per lui, come per tutto il suo variegato partito mai nato, l’antiberlusconismo è una materia astratta che si contrappone all’inesistente. Roba per cacciatori di nuvole. Solo a tratti su qualche giornale qualcuno apre un dibattito sull’argomento. Rispondono i soliti, poi la discussione – come un sasso nel bitume – sprofonda nel silenzio senza lasciare tracce nella politica attiva. Perché? Ma è semplice: la “politica”, quella di destra, è ovvio, e quella di sinistra, meno ovvio, è fuori da ogni binario. Il personale politico, al colmo del suo discredito, ha la convenienza di spartirsi il potere (anche se in modo assai diseguale) riconoscendosi ruoli diversi e legittimandosi a vicenda. In troppi luoghi della periferia la spartizione passa ormai direttamente attraverso comitati d’affari trasversali. Naturalmente questa assenza della conflittualità politica è coperta periodicamente da urla scomposte, e allora volano parole grosse che lasciano il tempo che trovano, perché gli stessi politici che le hanno gridate non ci pensano proprio a trarre le conseguenze nelle proprie politiche. Spesso tutto si ricompone tra i velluti dello studio di Gianni Letta, magari davanti a una fetta di crostata. Così il capo del governo può essere apostrofato come “eversivo”, “sudamericano”, “cannibale” ecc., ecc., ecc., ma poco dopo il capo dell’opposizione lo cerca per concordare assieme il nome del presidente della commissione che dovrebbe essere di garanzia nei confronti proprio del capo del governo. Le parole quindi non pesano nulla.
Qual è il risultato? Il berlusconismo è un regime in senso stretto? È totalitario? Non vogliamo perderci nella paludosa diatriba accademica delle definizioni collaudate ed esaustive per un fenomeno che ha larghi tratti di novità. Né ci facciamo catturare dalla serie infinita di grigi. Di una sola cosa siamo sicuri: l’Italia di oggi non è una democrazia, è una non-democrazia. Non lo è perché la sua vita pubblica non risponde ai criteri che i politologi da decenni individuano come essenziali affinché una democrazia sia tale. Come il pluralismo informativo, e come l’esistenza di una vera opinione pubblica e di una dialettica politica non finta. In questi anni il berlusconismo, in sostanza, ha rimpiazzato la costituzione formale vigente con una costituzione materiale che la contraddice nei fatti. Ha sostituito la sana “ipocrisia democratica” con la “faccia tosta spudorata”. Mi spiego meglio. Lo stato di diritto, ultima spiaggia della convivenza civile, è stato annichilito non solo dai conflitti che hanno contrapposto i poteri dello Stato o dal disprezzo di cui è stato investito il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle legge, ma anche dalla legittimazione massificata che è stata fornita a questo discredito. Pure nella Prima Repubblica non mancavano le violazioni delle regole. Ma queste venivano sanzionate dalla legge e dall’opinione pubblica. Ipocrisia? Forse. Ma il tessuto civile reggeva. Il salto di qualità del berlusconismo non è nelle violazioni, ma nello sfacciato disconoscimento delle regole liberali, additate spesso a pubblico ludibrio. La differenza è gigantesca. È completamente annullata la stessa esistenza di quel supplemento di dovere per l’uomo politico, che prendeva il nome di probità pubblica. D’altronde, il presidente del consiglio è un miracolato dalle “prescrizioni”. E il Parlamento è sporcato dai vari Cuffaro e Dell’Utri, imposti all’elettorato senza che questo abbia avuto possibilità di scelta. Nelle democrazie occidentali un politico potrà anche rubare ma sa che, scoperto, ben prima della condanna penale la sua carriera si chiude definitivamente. Oggi invece nell’era del berlusconismo il delitto è depenalizzato per vaste categorie di cittadini. Dalla penalizzazione del “così fan tutti” di Craxi si è passati – senza soluzione di continuità – al “fatelo, lo fa anche il vostro capo del governo”.
È stato Asor Rosa a giudicare la corruzione il segno distintivo del berlusconismo. È vero. Ma non soltanto. La corruzione, nel significato più esteso di disgregazione delle regole scritte e non scritte, non spiega che metà del fenomeno. Ma resta da illuminare l’altra metà. Può un uomo solo, per quanto coadiuvato da un sodale compromesso con la mafia e da un corruttore di giudici, per quanto ricco e spregiudicato, per quanto in sintonia col ventre oscuro della gente, per quanto puntellato dalle gerarchie della Chiesa cattolica, per quanto monopolista dell’informazione, un uomo solo può riuscire a impadronirsi di un paese, farlo sprofondare in un degrado raccapricciante, abbrutirlo e trasformarlo – come ha scritto Urbinati – in «una caserma, docile, assuefatta, mansueta»? Ci vogliono dei complici molto attivi e molto servizievoli. La fortuna di Berlusconi e il contagio dell’Italia dipende anche nell’aver trovato degli untori tanto sciocchi quanto servi.
Vediamoli da vicino. Sono di due tipi. Ci sono i “terzisti”. Son quelli per cui affermare che non è bello che il capo del governo abbia a che fare con la magistratura e affoghi in un conflitto d’interessi sconfinato è soltanto esercizio di vuoto moralismo, non una critica politica. E si è avuto persino l’ardire di degradare la prima pagina del più grosso giornale italiano scrivendo che dello stesso tipo di moralismo era afflitto chi si oppose al fascismo e lottò finché non fu assassinato. Son quelli che da tempo si dedicano a una vasta ed efficace revisione, sovente faziosissima, della storia patria, dove lo scopo trasparente non è la ricerca storica, ma la volontà di tagliare ogni radice, ancorché gracile, di demolire ogni identità nazionale, ogni legame civile. Poi come ci si può lamentare se la porta resta aperta al secessionismo, al razzismo leghista, alla svalutazione dei valori costituzionali, al Borghezio a passeggio col suo maiale, all’ampolla di Bossi, all’ingiuria «cloaca» contro il Csm formulata da Gasparri? Sono profondamente convinto che i “terzisti” in gran parte non abbiamo soltanto una “opinione diversa”, offenderemmo la loro intelligenza se non li considerassimo in malafede. Non credo possano essere in buonafede coloro che si sono assunti il compito nobile, da liberali autoreferenziali, di spaccare in quattro tutte le pagliuzze – più o meno consistenti – della sinistra e non hanno speso e non spendano una parola che sia una in tanti anni contro la trave che ha fatto stramazzare la democrazia italiana. Il brodo di cultura (non è un refuso) in cui si è cotto il berlusconismo è proprio quello cucinato dal terzismo, che è stato sempre patente fiancheggiamento esterno e mai equidistanza. Non a caso il firmatari del controappello contro la cultura liberale e azionista che additava i pericoli connessi al berlusconismo fu firmato quasi esclusivamente da terzisti. E – roba da ridere – su un organo di stampa di proprietà di casa Arcore. Affinché non ci fossero equivoci. Il terzismo non è stato che trasformismo e – mi piace chiamarlo cosi – “furbacchiottismo”.
Il secondo tipo di “untore” ha senza dubbio responsabilità più gravi. Durante la Prima Repubblica i comunisti, stando all’opposizione, hanno potuto compiere pochi danni. Certo, non possiamo dimenticare né l’articolo 7 votato in Costituente, né il tentativo – peraltro riuscito – di egemonizzare e far identificare, anche con modi assai bruschi, la sinistra esclusivamente con il Pci, né la faziosa e miope opposizione togliattiana al primo centrosinistra, né la coltivazione intensiva d’una cultura organicista assai corriva coi vizi atavici del paese; ma i comunisti hanno acquisito anche dei meriti arginando il monopolio di potere democristiano. Paradossalmente il vero danno alla democrazia i comunisti lo hanno compiuto da ex-comunisti. In questa lunga fase berlusconiana un gruppo di potere distribuito in vari partiti, ma perlopiù raccolto in rinnovate “Cose” dai nomi sempre nuovi e sostanze sempre vecchie, ha demonizzato ogni forma di antiberlusconismo, ha picconato tutti i tentativi di creare una cultura d’opposizione e una autentica pratica riformatrice. Il suo antiprodismo è stato costante e purtroppo efficace: D’Alema la mente, Bertinotti il braccio armato – Veltroni il mandante, Mastella il killer. Così gli ex-pci si sono fatti clericali e moderati, nella peggiore lezione che si può dare al termine. Nello sforzo di acquisire posizioni di potere, si sono fatti contagiare dall’avversario mutuandone usi e costumi, al centro e in periferia. Da Gramsci son passati a Consorte e a Colaninno. E, perché no?, a Fazio. Nell’ultima fase hanno rinunciato apertamente a contrapporsi a Berlusconi e si sono posti come obiettivo la distruzione dei loro potenziali alleati. Con la loro retorica hanno fatto strage d’ogni valore di “riforma”, banalizzandolo, distorcendolo, svuotandolo, contraddicendolo coi fatti. Sono arrivati persino a fornire al monopolista personale qualificato (vedi Annunziata e Petruccioli, presidenti-quisling della Rai, e gli svariati editorialisti sui giornali del Padrone). E qui tralasciamo coloro per i quali, rotti gli argini, la corsa a destra pateticamente non si ferma mai. La loro ambizione è così smodata che alcuni di loro hanno davvero esagerato avallando le peggiori porcherie politiche e culturali. Sono arrivati a indossare, una sull’altra, la tonaca nera e la camicia azzurra arconiana. E per amor di completezza dedichiamo solo un cenno, non meritano di più, agli altri ex-pci, quelli della sinistra troglodita, che, rimasti abbarbicati alle ingloriose memorie del comunismo, non riescono proprio a capire le differenze tra il berlusconismo e altre forme di governo “borghese”, e bloccano consistenti forze giovanili sui miti totalitari di Chávez e di Castro. Ma tutto ciò è quasi nulla di fronte a un sempiterno, ondeggiante, zero assoluto degli ex-pci asserragliati dentro al Pd. Di loro, non si è mai riusciti a scoprire il loro pensiero sul federalismo, sulla giustizia, sulla sicurezza, sul lavoro, sull’Europa, sull’immigrazione, sulle riforme istituzionali, sulle leggi elettorali, sui rapporti Stato-Chiesa, sui temi “etici”, sullo stato di diritto. Su questi ed altri argomenti hanno sostenuto tutte le posizioni possibili e contraddittorie. Uniche costanti rimangono (oltre a una predisposizione alla sconfitta) la volontà egemonica sugli altri e la ferrea determinazione di difendere il loro piccolo potere di ceto politico. A ogni costo. Anche quello di regalare per molti anni il paese a questa destra, anche quello di fare solo macerie attorno a sé. Ancora oggi, dopo molti mesi di ritardo e con alcuni mesi di anticipo, il loro leader si è dimesso alludendo a chissà quale sogno e dimenticando di discutere le ragioni politiche della disfatta. Come se questa fosse dipesa non da una politica sbagliata, ma da piccole baruffe intestine. Invece, l’elettorato non ha fatto che dare il suo voto di astensione seguendo l’esempio di un partito che in Parlamento ha fatto dell’astensione la sua linea costante.
Con questi fiancheggiatori e questi “avversari” il berlusconismo non poteva che dilagare. Il contagio ora appare inarrestabile, nonostante il malgoverno imperante, l’ufficializzazione che senza leggi ad hoc B. sarebbe alla sbarra, il dilettantismo volgarotto che infanga quotidianamente l’immagine dell’Italia all’estero.
Queste prime note intendono soltanto avviare un tema che continueremo nei prossimi numeri. Cercheremo anche di riprendere un dibattito che sembrava sepolto nelle biblioteche e che ora ritorna di grande attualità. Mi riferisco alle differenze teoriche tra liberalismo, democrazia e le sue degenerazioni populistiche e demagogiche. Già, forse qualcuno lo avrà indovinato: secondo noi il berlusconismo e l’arrendevolezza della sinistra post-comunista nascono dal caparbio rifiuto della grandissima parte del paese, della sua borghesia e della sua classe politica, di destra e di sinistra, di uscire da una modernità zoppa per accogliere e farsi portatrice, come nel resto d’Europa, di un liberalismo avanzato, delle sue regole, dei suoi costumi, del suo rispetto della volontà personale, delle sue organizzazioni politiche. O forse credete davvero che sia un caso che il nostro sia l’unico paese europeo a non avere né un partito conservatore né un partito socialista né un partito liberale, ma soltanto – da una parte – un coacervo di razzisti, ex fascisti e fondamentalisti cattolici al servizio di un Padrone, e – dall’altra – un guazzabuglio di clericali e di profughi di un comunismo a pezzi?
DA CRITICA LIBERALE N. 159
08/03/2009 enzo marzo
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