martedì 3 marzo 2009

Massimo Roccella: lo sciopero e la Costituzione

Dal sito di SD

Lo sciopero e la costituzione
di Massimo Roccella
Mar, 03/03/2009 - 00:04
Due argomenti, entrambi fuorvianti, sono stati ampiamente utilizzati in quest giorni a sostegno della stretta preannunciata dal governo sugli scioperi. Non potevamancare, come di consueto, l’argomento «europeo»: regole più o meno restrittive per gli scioperi nei servizi pubblici esistono dappertutto negli altri paesi, dunque - si è detto - perché il nostro dovrebbe fare eccezione? Nessuno però si è preoccupato di ricordare che le regole in parola sono notevolmente diverse e tali non potrebbero non essere.
Le regole sono diverse dal momento che la disciplina giuridica del conflitto collettivo è profondamente intrecciata con le specificità storiche, sociali e culturali di ciascun paese: tant’è vero che il diritto comunitario, pur avendo ormai acquisito competenza a intervenire quasi sull’intero ambito del diritto del lavoro, non può farlo (perché espressamente lo vieta il Trattato istitutivo della Comunità europea) su diversi aspetti del diritto sindacale e, in primo luogo, proprio in materia di sciopero.
Il secondo argomento, quello «costituzionale», è, se possibile, ancora più debole del primo: preso sul serio, anzi, dovrebbe condurre a conclusioni diametralmente opposte a quelle che si vorrebbero spacciare come pacifiche ed evidenti. L’art. 40 della costituzione riconosce il diritto di sciopero, ma aggiunge che esso «si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano»: dunque, dicono i nostri paladini del dettato costituzionale, che male c’è a dar seguito alle indicazioni della Carta? Nulla di male, naturalmente, purché ci si intenda su quel che il legislatore ordinario può, o non può, fare in sede di attuazione della costituzione. Che il legislatore possa intervenire in tema di sciopero è assolutamente inconfutabile: notoriamente lo ha già fatto proprio nell’ambito dei servizi essenziali con la legge 146 del 1990, poi riformata dieci anni dopo, alla luce dell’esperienza applicativa, e resa più rigorosa e restrittiva in particolare proprio per colpire quell’effetto annuncio di cui tanto si parla oggi.
Ciò non vuol dire che, in tema di sciopero, il legislatore possa fare quel che vuole: qualsiasi intervento in materia, anzi, per potersi considerare costituzionalmente legittimo deve essere conformato in maniera tale da non incidere sul diritto di sciopero nel suo nucleo essenziale. Quale sia il nucleo in parola risulta da una consolidata tradizione interpretativa formatasi attorno all’art. 40 cost., per la quale lo sciopero va visto come un diritto assoluto della persona e in secondo luogo come un diritto individuale, sia pure a esercizio necessariamente collettivo. Generazioni di giuslavoristi democratici si sono formate nel solco di questa tradizione costituzionale. Per dirla con le parole di un maestro come Gino Giugni, deve escludersi che «la titolarità spetti alle organizzazioni sindacali dei lavoratori. E infatti, lo sciopero può essere praticato anche da gruppi di lavoratori non organizzati in sindacato - eventualmente in polemica con questo - e sarebbe del tutto arbitrario escludere tale ipotesi dalla tutela predisposta dall’art. 40 cost.». La legge 146 fu scritta, a suo tempo, con la consapevolezza dei limiti costituzionali esistenti in materia e la volontà di non oltrepassarli. Il disegno di legge delega appena approvato dal governo sembra viceversa prescinderne almeno per due aspetti.
Il progetto governativo, innanzi tutto, condiziona la legittimità dello sciopero (nel settore dei trasporti per ilmomento,ma l’effetto imitativo potrebbe risultare irresistibile) alla proclamazione da parte di un sindacato o di una coalizione di organizzazioni sindacali che godano di un consenso maggioritario nel settore di riferimento (inteso come maggioranza assoluta: più del 50%); in alternativa potrebbero proclamare scioperi legittimi anche sindacati con una consistenza rappresentativa pari almeno al 20% a condizione però di aver ottenuto, attraverso un referendum, il consenso alla proclamazione di almeno il 30% dei lavoratori interessati. Una volta destreggiatisi
in questa piccola selva di soglie di sbarramento, una cosa in ogni caso emerge con nettezza: il progetto governativo consegna ai sindacati (meglio: ad alcuni sindacati) la titolarità del diritto di sciopero, cancellando come se nulla fosse proprio quel nucleo fondamentale del diritto, che dovrebbe invece restare intangibile per il legislatore ordinario. Nella discussione di questi giorni si dimentica con troppa disinvoltura il carattere fondativo che il diritto di sciopero riveste per la nostra democrazia costituzionale. Le vicende della storia nazionale contano molto per affrontare seriamente problemi del genere. Non si può non ricordare, allora, che i costituenti vollero riconoscere lo sciopero non come mera libertà (come tuttora accade in paesi come la Gran Bretagna), ma come vero e proprio diritto soggettivo, perché attraverso la consacrazione della libertà sindacale e del diritto di sciopero si volle tracciare uno spartiacque, anche sul piano simbolico, rispetto ai caratteri dello Stato totalitario fascista. Gli eredi della cultura politica del ventennio, che oggi sono tornati in coabitazione a guidare il governo del paese, avrebbero molti motivi per mostrare cautela nel manomettere il diritto di sciopero: altrimenti si dovrebbe proprio dare ragione a chi ha sempre sostenuto che non basta un tuffo nelle acque di Fiuggi per maturare una compiuta coscienza democratica.
L’altro aspetto del progetto governativo che intacca il diritto di sciopero nel suo nucleo essenziale, e perciò appare di assai dubbia costituzionalità, riguarda il cosiddetto sciopero virtuale. Lo sciopero virtuale è una vecchia idea sindacale (soprattutto di area Uil), non a caso rimasta senza alcun seguito attuativo. Qualsiasi cosa se ne voglia pensare, due cose appaiono certe. Lo sciopero virtuale non è uno sciopero: semmai è un’altra forma di lotta sindacale diversa dallo sciopero, come ce ne sono tante. Proprio per questo, un conto è se esso è frutto di autonoma e libera scelta da parte di lavoratori e sindacati; altra e ben diversa cosa sarebbe se lo sciopero virtuale fosse imposto dal legislatore. Nel secondo caso si impedirebbe a determinate categorie di lavoratori di scioperare, incidendo su un diritto costituzionalmente garantitomolto al di là di quanto sarebbe necessario, se davvero si volesse perseguire l’obiettivo di bilanciare il diritto di sciopero con altri diritti (nella specie quello alla mobilità) di rilevanza costituzionale.
Le obiezioni giuridiche, d’altra parte, non possono far dimenticare che il progetto governativo si presta anche ad una chiave di lettura più squisitamente politica. È altamente probabile, infatti, che al governo non importi assolutamente nulla della titolarità individuale del diritto di sciopero (ovvero di frenare le proteste di gruppi o coalizioni minori) e che ciò che si vuole colpire è proprio il conflitto sociale come tale. A parte il tentativo, abbastanza evidente, di rendere impervia la strada della proclamazione di scioperi da parte della sola Cgil, colpisce che fra le agitazioni sindacali potenzialmente lesive del diritto alla mobilità si siano volute includere anche quelle (occupazione di strade, binari ecc.) che talvolta si accompagnano al classico conflitto industriale.
A fronte della crisi economica, forme di lotta del genere potrebbero presentarsi ripetutamente e, dunque, forse si è voluto mettere le mani avanti. È inquietante si possa pensare di fronteggiare il disagio sociale crescente con strumenti più o meno repressivi: non vorremmo avesse ragione Massimo Riva, al quale sembra di cominciare a respirare una brutta aria da anni venti del secolo scorso

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