da La Stampa
/3/2009
Capitalismo immorale
JEAN-PAUL FITOUSSI
Viviamo un’epoca nella quale l’etica sembra aver invaso tutto. La finanza è etica, le imprese adottano codici etici, il commercio è etico. Eppure il capitalismo sembra finito nel pallone. Mai «l’amore per il denaro», come avrebbe detto Keynes, lo avrebbe condotto agli eccessi che conosciamo: retribuzioni stravaganti, rendimenti da sogno, esplosione dell’ineguaglianza e della miseria, degrado dell’ambiente. L’emergenza etica, forse, è una reazione allo spettacolo desolante delle conseguenze di un’economia che non si è mai preoccupata dell’etica. Non si può rifiutare con leggerezza l’ipotesi che l’abbandono della morale abbia portato il sistema alla crisi.
«I vizi specifici dell’economia che viviamo - scriveva Keynes - sono due: il lavoro non è assicurato a tutti e i profitti sono divisi in modo arbitrario e iniquo». L’economia, come la scienza, non è un ambito per eccellenza disgiunto dalla morale? Certo lo scivolamento irrefrenabile dell’economia-politica verso l’economia-scienza si è cristallizzato nel concetto di «economia di mercato», sciolto da preoccupazioni storiche o istituzionali. Eppure il capitalismo è una forma di organizzazione storica, un modo di produzione, diceva Marx, nato con sulle macerie dell’Ancien regime. Dunque il suo destino non è scritto nel marmo.
È l’interdipendenza tra stato di diritto e attività economica che dà al capitalismo la sua unità. L’autonomia dell’economia è un’illusione, come la sua capacità di autoregolarsi. E se siamo arrivati al disastro di oggi è proprio perché la bilancia pendeva un po’ troppo verso questa illusione. Questo sbilanciamento corrisponde a un capovolgimento di valori. Si fa un servizio migliore all’etica - si pensava - regolando di più gli Stati e di meno il mercato. L’ingegnosità dei mercati finanziari ha fatto il resto. Lo scandalo del capitalismo contemporaneo sta nella mondializzazione della povertà, perfino nei Paesi più ricchi. E ancora di più sta nell’aver accettato un circolo di illegalità insostenibile nei Paesi democratici. Perché il sistema vive nella tensione tra due principi: quello del mercato e dell’ineguaglianza da una parte (un euro, una voce) e quello della democrazia e dell’uguaglianza dall’altra (una persona, una voce), obbligati alla ricerca permanente di un compromesso.
Questa tensione permette al sistema di adattarsi e di non rompersi come succede ai sistemi basati su un principio solo, com’è accaduto a quello sovietico. La tesi secondo cui il capitalismo avrebbe vinto come organizzazione economica grazie alla democrazia, piuttosto che a suo scapito, sembrava la più convincente. Oggi ne abbiamo una rappresentazione efficace. Lo spettacolo dei soldi facili cancella gli orizzonti temporali. Rendimenti finanziari troppo alti contribuiscono al disprezzo del futuro, a impazienza nel presente, al disincanto sul lavoro. Non è più necessario citare l’Antico Testamento per capire che a questo punto il rapporto tra denaro ed etica va in crisi. Anche Adam Smith ne aveva parlato nella sua Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza dei Paesi (Gallimard, 1796). Il disprezzo del futuro va in contrasto con l’orizzonte di lungo periodo necessario alla democrazia. Una delle chiavi del compromesso tra il benessere delle generazioni presenti e quelle future è l’arco temporale determinato dal dibattito politico. Un orizzonte limitato, come l’ assenza di giustizia sociale, aggrava il conflitto.
Quando le diseguaglianze sono forti una parte importante della società non può proiettarsi nel futuro nero che l’aspetta. E se si formula l’ipotesi che l’altruismo tra una generazione e l’altra è una forma di sentimento morale spontaneo, come sembrerebbe dire l’attenzione che tutti hanno per il destino dei bambini, si capisce bene che una maggiore equità sociale potrebbe riconciliare il capitalismo con il lungo termine. Per restituire etica al capitalismo, bisogna rompere con la dottrina del passato che ci ha portato alle turbolenze finanziarie di questi mesi. Bisognerebbe «deregolamentare le democrazie», fare più posto alla volontà politica, e regolare meglio i mercati. Bisognerebbe prendere più sul serio le decisioni sulle regole della giustizia e rendere oggetto di una deliberazione dei Parlamenti annuale un calo accettabile della diseguaglianza. La pubblicità di queste discussioni permetterebbe di rompere con la concorrenza sociale e fiscale che spinge le persone verso il basso, dando la speranza di una concorrenza che spinga verso l’alto.
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3 commenti:
Interessante ma c'era davvero qualcuno che pensava che il Capitalismo lasciato libero potesse essere etico? Persino il Protestantesimo potè teorizzare che chi faceva soldi era benedetto da Dio!
Ciao Sergio Tre
Purtroppo, da un paio di un secoli abbiamo un capitalismo non più guidato dall'etica protestante, che pur l'ha fatto sviluppare.
Il Protestantesimo non teorizza la benedizione di Dio per chi fa soldi bensì la condotta parsimoniosa e austera, che insieme alla attività laboriosa produce risorse disponibili all'utilità sociale. Conviene rileggere, bene, Fulvio Papi, di qualche settimana fa [qui sotto].
ciao, L. Ranzani
"Quando si parla di nascita del capitalismo viene subito in mente Max Weber che ha mostrato come il "processo di accumulazione primaria" secondo Marx poteva avere luogo solo in derivazione da un organico modello culturale, quello dell’etica protestante.
Weber mostrava come un evento storico che trasformava il mondo, la nascita l'affermazione e la diffusione del capitalismo non erano concepibili se non in stretta relazione con uno stile di vita improntato a una rigorosa religiosità.
Quivi è dominante la figura dell’asceta mondano. Una figura che in sintesi descrive una società dove sono determinanti valori simbolici come la parsimonia, il risparmio, una rigorosa moralità pubblica, un consumo privato che può arrivare al decoro senza assumere alcuna tratteggiatura edonistica, la convinzione che l'operare contemporaneamente con successo e bene nel campo economico poteva addirittura essere segno della grazia divina. Rispetto all'angosciosa incognita agostiniana sulla grazia, era una misura etica abbastanza rassicurante. Dal punto di vista dell'obiettività economica in una società del genere (adesso non discuto il livello di idealizzazione) la riproduzione del capitale avveniva attraverso regole che non venivano da un potere esterno alla società civile, ma costituivano il patrimonio morale di ogni persona. Proviamo ad immaginare il problema del credito in un ambiente sociale di questo tipo. In questo caso vediamo il risparmio personale come stile di una esistenza che comunque deve considerarsi con una giusta umiltà a fronte di Dio. Poi l'erogazione del credito a chi ha la certezza morale intorno alla propria possibilità (volontà) di onorare il debito, il che, come misura morale, favorisce anche il calcolo economico. In ogni caso la dimensione del credito è assente nella dimensione dei consumi privati quotidiani. Quando si analizza l'individualismo moderno si ha spesso in mente il tema della libertà in Stuart Mill, tuttavia non sarebbe male ricordare che all'origine del capitalismo questa libertà (come del resto nell'Inghilterra del filosofo) trovava il proprio limite in una moralità personale molto rigorosa, e la sua trasgressione in una "volontà di punire" molto forte. E quando storicamente si nota come la cultura puritana sia stata l’ethos che ha accompagnato l'emigrazione dall'Europa e sia divenuta, con il solo sussidio libresco della Bibbia, la radice della tradizione americana, si dice una cosa profondamente esatta. Una nozione, questa, che può spiegare anche quali siano le origini dell'individualismo americano. L'individuo come è solo di fronte a Dio così è solo di fronte alla propria coscienza che giudica il modo in cui egli ha saputo stare nella sua comunità. La democrazia come forma politica nasce da questa relazione "fondante", e questa forma di individualismo è la medesima con cui ognuno appare nel mercato, e quivi cerca di ottenere la propria affermazione. L'individualismo non è solo un valore condiviso, ma un criterio che mette in crisi persino il concetto di ereditarietà, che viene considerato come una forma sociale tipica di una società aristocratica. La proprietà quindi non ha una relazione con la famiglia, può essere solo il risultato di un lavoro individuale, il saper produrre onestamente, secondo la legge di Dio che è l'etica condivisa, la ricchezza.
Caro Gigi, siamo alle solite...
.le persone cattoliche di orgine o di cultura o di fatto , anche se nello spirito socialista, eseguono la stessa equazione : "CAPITALISMO = Calvino/Riforma ".....
Non comprendono lCalvino che disse :" HOMO SINE PECUNIA IMAGO MORTIS EST"......ma lui intendeva per pecunia , la ricchezza SPIRITUALE:......come acutamente ci insegnava il Maestro Prof. Ugo Gastaldi.....
I contributi di Max Weber e Schumpeter , sociologia ed economia nell'etica protestante, sono importanti....tuttavia credo che Tremolada possa ammettere che chi tira in ballo Nostro Signore come artecifice .nel capitalismo liberista , nascente o come quello attuale morente, sia come quel poveretto che dice: " Dio ha mandato il cancro a tizio perchè era un peccatore chè se lo meritava".....
La concezione induista del resto abbina le sorti dell'empio della castaq inferiore con quelle del povero.
Qualcosa del genere succedeva nelle menti delle persone derubate: " Ah , dio mi ha punito, xchè non ho accumulato abbastanza soldi....."
Usura e Medioevo........
persino le barzellette di Moni Ovadia inseriscono , per ridere , tali elementi, ma non c'entra con la Torah o il Magem David....
Questo è nelle menti di chi abbina Capitalismo e Riforma protestante....persino Tremonti se ne guarda bene, quando Opus Dei Vaticano batte cassa.....con Caritas, PD/Franceschini,Compagnia delle Opere///.......
Beh, lascerei stare Nostro Signore Gesu' Cristo...specialmente riferito a noi Riformati /Evagelici....e credo anche ai Frati Minori di San Antonio....
Daniele Ferrato
Valdese e Socio Naga.(www.naga.it)
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