da La Stampa, 8 gennaio 2009
7/1/2009
La pace da ritrovare
ARRIGO LEVI
A questo punto, è ancora possibile immaginare un futuro di pace per Israele e il Medio Oriente? L’intervento militare israeliano a Gaza potrà raggiungere l’obiettivo dichiarato di indebolire drasticamente Hamas?
Potrà indebolire Hamas quale ostacolo da rimuovere per rilanciare negoziati che conducano a una pace permanente fra Israele, uno Stato palestinese, e tutto il mondo arabo e islamico?
Non è difficile trovare argomenti credibili per rispondere con un no all’uno e all’altro interrogativo. Osservatori attenti e informati (Lucio Caracciolo su la Repubblica) sostengono che la questione palestinese è «un problema insolubile»; che il processo di pace è stato ed è solo un’illusione; e che quella in corso non è una vera guerra ma soltanto un’azione di polizia d’Israele (che probabilmente fallirà), per «tenere sotto controllo i palestinesi», oltre che un episodio dello scontro fra Gerusalemme e Teheran, essendo quella iraniana la sola vera minaccia all’esistenza d’Israele. La conclusione desolata a cui conduce una tale sofferta analisi è che se questi sono gli obiettivi strategici d’Israele, essi rimangono irraggiungibili, e con essi il sogno della pace: «la guerra continua, e non finirà con la fine di Piombo Fuso».
Sul futuro di questa guerra infinita non si fanno previsioni. Forse perché dalle premesse può derivare soltanto la più fosca delle profezie sul futuro d’Israele. Prima ancora di diventare primo ministro di Gerusalemme (in un saggio del 1977), Yitzhak Rabin aveva scritto che la guerra non avrebbe mai permesso a Israele di raggiungere «il suo vero obiettivo, quello di vivere in pace con i Paesi arabi». Israele non avrebbe mai potuto imporre agli arabi la pace con una «vittoria militare decisiva». Per il «consolidamento dello Stato d’Israele» era quindi necessario cogliere ogni occasione di pace. Ed è quello che Rabin fece, firmando con re Hussein di Giordania «la pace dei soldati e la pace degli amici». E poi promuovendo con Shimon Peres un processo negoziale con l’Olp di Arafat, che di fatto, pur fra tante traversie, non si è più interrotto
Da allora è passato molto tempo, e la pace non c’è ancora. Ma oggi gli israeliani accettano senza riserve che nasca uno Stato palestinese; e anche la maggioranza dei palestinesi, e tutto il mondo arabo-islamico con l’iniziativa di pace saudita, hanno finito per accettare l’idea dell’esistenza di uno Stato d’Israele «in terra islamica». L’accettano i governi, e non sembra in verità che la rifiutino i popoli arabi e islamici, dal Marocco all’Indonesia. Non l’accetta soltanto il vecchio e nuovo fondamentalismo islamico, che comprende oggi, oltre al Qaeda, l’Iran, i libanesi di Hezbollah, ed anche Hamas, come sezione dei «Fratelli Musulmani» nati in Egitto nel 1928, ancora potenti e nemici giurati del governo di Mubarak. Sappiamo bene che questo è un formidabile ostacolo sulla via della pace. Ma se si accetta quella che era la convinzione di Rabin, e cioè che senza la pace il futuro d’Israele è in pericolo, l’opzione della pace, e di un negoziato che conduca alla pace, non può essere abbandonata.
Molto semplicemente, non possiamo accettare l’idea di una guerra che non avrà mai fine. Dobbiamo confidare (aiutandolo con una politica articolata e impegnativa), che il mondo arabo e islamico riesca presto o tardi a sconfiggere, come conclusione del conflitto interno estremamente pericoloso che oggi è in corso, i fondamentalisti. Re Hussein di Giordania, discendente del Profeta, li definiva «coloro che vivono nell’oscurità». Parlava di loro (e fra loro anche quei fondamentalisti religiosi israeliani che avevano ispirato l’assassinio di Rabin), come dei «nemici della pace; la pace che per la nostra fede e religione è il nostro campo».
La pace fra israeliani e palestinesi rimane (e con una guerra in corso questo ci appare oggi più che mai evidente), un passaggio essenziale e necessario per eliminare il pericolo di una guerra totale e infinita fra l’Islam e il mondo. Gli amici d’Israele non possono quindi cessare di lavorare per la pace, sostenendo, anzitutto, quelle forze politiche israeliane che condividono la convinzione che la nascita di uno Stato palestinese è un obiettivo vitale per Israele, ed è anche il contributo più importante che Israele può dare, nell’interesse non solo dell’Occidente ma della pace nel mondo, alla sconfitta di quel fatale anacronismo storico che è il risorto fondamentalismo estremista islamico.
Ma Israele deve decidere una «exit strategy», che ponga fine alle stragi di civili e alla «totale crisi umanitaria» di Gaza denunciata dalla Croce rossa italiana. E occorrerà, come nel Libano, una presenza militare internazionale che garantisca la cessazione dei lanci di razzi su Israele, causa prima e deliberata del conflitto. Proporre tregue non è bastato: l’Unione Europea e l’Onu debbono saper approvare in fretta, col consenso americano, un progetto d’intervento concreto da mettere sul tavolo. Quanto ad Hamas, la tragedia della popolazione civile sta indebolendo anche la sua immagine, non solo Israele. Dopo tanti inutili lutti, una forte pressione araba deve spingere Hamas a riconoscere Israele. Bastano poche parole: seppe pronunziarle Arafat. Le incognite sono tante. Il nostro obiettivo - che è la pace - non può cambiare.
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