Dal Tirreno
Parla, parla anche con i tuoi nemici …se parli e non uccidi non ne cresceranno altri …”.
Una poeta polacca, Wislawa Szymborska, scriveva –era il 1945 – “Il nostro bottino di guerra è la conoscenza del mondo/è così grande da stare fra due mani”.
Adesso pensiamo di conoscere il mondo, e molti danno giudizi, e ne sono certi, o almeno lo dichiarano. È il caso della guerra tra Israele e Palestina. E anche se non mancano le analisi intelligenti ed informate, sembra che corrano poche parole vitali, pensate, libere.
Il mondo è grande e complesso, e di difficile interpretazione. Dire questo non è fare benaltrismo: questa è un’accusa che lancia, ormai in modo ricorrente, chi intende giudicare, tagliare con l’accetta, separare, dividere, alzare muri e barriere.
Adesso noi siamo attoniti davanti alle carni straziate che ancora una volta vediamo in Medioriente. Le bombe, i morti, i feriti, il terrore, l’odio che cresce.
Ho sentito dire: “Israele non può trincerarsi dietro la Shoah per giustificare ogni atto che commette – quindi, la Shoah, l’annientamento programmato di un popolo, di una cultura, di un mondo, ridotto ad un paravento?
E ho sentito: Hamas è un’organizzazione terroristica, va annullata, e cesseranno attacchi e paura. Hamas è stata votata alle elezioni: ne vogliamo tenere conto? Ha una presenza importante nel tessuto sociale di quei luoghi: perché?
Adesso sembra che non ci sia spazio né tempo per parole che non vogliano tagliare ma unire, che non vogliano semplificare ma tentare di leggere la complessità. .E questo non è “benaltrismo”. Questo vuol dire rifiutare la semplificazione dello schieramento, le urla nelle manifestazioni, l’orrore delle bandiere bruciate. Non perché a me importi qualcosa delle bandiere, ma perché è un gesto di violenza, di annullamento simbolico, che sempre precede la furia dell’annullamento concreto.
Anni fa una cara amica, Pupa Garribba, diceva che i popoli, in Israele e in Palestina, erano molto più avanti dei loro governi-. Commerciavano, si parlavano, si incontravano. Sapevano che dovevano vivere lì. Adesso, tutto questo sembra sepolto, scomparso. Chissà quanti legami di amicizia, di attività comuni, forse anche di amore sono stati distrutti.
A Gaza si sta consumando un dramma forse irreparabile. Lo è sicuramente per chi è morto e morirà, e per chi gli ha voluto bene. Ma anche per chi si è macchiato le mani di quel sangue, così come per chi ha versato sangue in precedenza, e ha giocato sulla pelle di poveri e deboli e umili, per affermare le proprie ragioni.
Poche vicende storiche muovono reazioni viscerali come il conflitto tra Israele e Palestina. Perché questa storia ci parla così tanto? Forse da qui potremmo partite. Se ci parla così vuol dire che è tremendamente significativa per le nostre vite e per le nostre coscienze, e allora dovremmo fare forza di interposizione vera, non violenta, corporea, per dire: basta. Cessate il fuoco. Cessate di uccidere i vivi e i morti., cessate di farlo con le bombe, con gli attentati sui bus, con i razzi. Cessate questo ludibrio della violenza, questa vertigine della violenza, questo affondare consapevole nella violenza. E anche noi, nel nostro mondo occidentale, facciamola finita con l’orrida contabilità dei morti il cui segno “più” o “meno” dovrebbe far pendere l’ago della bilancia nel tifo a pro degli uni o degli altri, come se un morto contasse meno di cento … come se il pianto di una madre “valesse” meno che il lamento di cento madri …
E’ un sogno pensare che questi due popoli possano incontrarsi, commerciare, conoscersi al di là dei loro governi?
In molti hanno parlato di proporzioni e sproporzioni, come se si stesse ragionando di un modello architettonico – e non di corpi che in questo momento vengono maciullati, e di corpi che nel passato sono stati maciullati. Raccolti dai religiosi pezzetto per pezzetto, in Israele – pianti nei cortei funebri, in Palestina.
L’unico uso accettabile della forza, là, sarebbe di chi potesse imporre il cessate il fuoco. Di chi potesse dire: basta. Basta razzi, basta bombe. Fermatevi. Dirò di più. Ci vorrebbe chi potesse dire: non meritate l’incontro, voi, ora. Voi che avete nel DNA culture millenarie, forse il meglio della civiltà che ha toccato le sponde di questo mare che ci bagna e che ci feconda, il Mediterraneo. Ora non meritate l’incontro, siete incattiviti, non per colpa vostra, probabilmente, ma per un coacervo di circostanze storico-politico-economiche che sono di difficoltà e pesantezza eccessive. Fermatevi. Restate fermi, per ora. Chi nel mondo ha buona volontà si prenda l’onere di farvi stare fermi. Lì ci dovranno convivere due popoli in due Stati, altra via non c’è. Qualcuno si prenda l’onere di non farvi venire a contatto, finché giudizio e ragione non tornino a parlare. Potrete, dovrete incontrarvi di nuovo. Incontrarvi. La vostra identità, come quella di tutte e tutti noi, è spuria, ibrida, mescolata, le nostre lingue sono debitrici le une alle altre, le nostre usanze, i nostri cibi pure, i nostri lineamenti, i nostri gesti. Che follia fare la guerra. Che follia farci la guerra.
Adesso leggo di cose francamente ignobili, qui in Italia, Paese in cui tutto ormai pare piegato alle logiche miserrime delle varie botteghe. Cose strumentalmente, assurdamente collegate a questa guerra.
Il prossimo 27 gennaio è il Giorno della Memoria, e qualcuno pensa di aiutare la causa palestinese ignorando – quest’anno -la Shoah degli ebrei. Altri hanno promosso una ributtante iniziativa: il boicottaggio dei negozi di ebrei a Roma. Altri, eredi di coloro che fecero le leggi razziali e che ancora ospitano nelle sezioni i busti di Mussolini, si sperticano magari in dichiarazioni solidali verso Israele e contemporaneamente presentano un disegno di legge – ricordiamo questo probabile numero della vergogna: proposta di legge n.1360, “Istituzione dell’Ordine del Tricolore e adeguamento dei trattamenti pensionistici di guerra“ – per equiparare i nostri partigiani, i nostri ragazzi e le nostre ragazze combattenti per la libertà, la giustizia e la democrazia nel nostro Paese, ai militi repubblichini di Salò, fascisti, delatori di ebrei, torturatori e stupratori.
In un fumetto di Stefano Disegni alcuni bambini chiedono ad un pilota, chiamandolo Tsahal – il nome dell’esercito israeliano - di restare a terra. Sono bambini ebrei: “noi siamo aria. Da allora. Dal 1942”, dicono. Gli presentano alcuni piccoli amici palestinesi: anche loro sono aria, sono dappertutto. “Neanche noi sapevamo perché ad un certo punto non c’erano più giochi né mamma né papà”. Non so quanto sia giusto caricare questa guerra, come tutta la storia del conflitto israelo-palestinese, dell’immenso portato simbolico della Shoah. Non so davvero. Però, la visceralità e il dolore che questa vicenda muove ci dice che non possiamo ignorare il di più del suo significato simbolico. I bambini dicono a Tsahal: resta a terra. Parla, parla anche con i tuoi nemici. Tsahal risponde: beata ingenuità .. se le cose fossero facili come dite voi … e sale sul bombardiere.
Possiamo senz’altro immaginare bambini palestinesi che dicano cose simili ai loro combattenti, e che questi rispondano nello stesso modo. Prigionieri della paura, consegnati alla diffidenza, al cinismo, al disincanto. Se vogliamo fare qualcosa di minimamente sensato, dobbiamo adoperarci per dare voce proprio a quelle parole: “Parla, parla anche con i tuoi nemici …se parli e non uccidi non ne cresceranno altri …”.
Paola Meneganti
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