Da La Stampa
27/1/2009
La Repubblica diseguale
MICHELE AINIS
Negli ultimi anni la produttività del lavoro in Italia è cresciuta 40 volte meno che in Estonia. Non sappiamo correre, fatichiamo persino a camminare. Ma è difficile tenersi in equilibrio quando hai una gamba zoppa e l’altra troppo muscolosa. Quando giorno dopo giorno si divarica la distanza fra i primi e gli ultimi della scala sociale, fra giovani e vecchi, precari e garantiti, meridionali e settentrionali, stranieri e cittadini. La disuguaglianza, ecco la più grande questione nazionale. Ma il nostro sguardo collettivo non la vede, la nostra voce pubblica rimane silenziosa. Con l’eccezione di qualche personalità fuori dal sistema dei partiti: Ciampi e Montezemolo, in questi ultimi tempi. Con l’ulteriore eccezione di Veltroni, le cui denunce vengono tuttavia ignorate dai suoi stessi compagni del Pd. E con l’indifferenza di un po’ tutti i partiti, assorbiti da faccende più serie, più pressanti: la presidenza della Vigilanza Rai, il figlio dell’onorevole Di Pietro, la poltrona di sindaco a Napoli o a Bologna.
Nel frattempo siamo sempre più divisi. Perché crescono i poveri, come accade un po’ dovunque in tempi di crisi economica globale; però nella Penisola crescono più che altrove. Tanto che il Rapporto Euristat 2005 ne contava 11 milioni, il 15% dell’intera Europa; mentre nel 2008 la Caritas li ha misurati in 15 milioni. Perché in secondo luogo in Italia le retribuzioni medie sono più basse del 20% rispetto agli altri Paesi industrializzati, secondo una stima Ocse diffusa nel luglio scorso. Perché in terzo luogo c’è una faglia sotterranea a dividere l’Italia, dal momento che il Pil di Milano è 3 volte quello di Crotone. Ma soprattutto perché la forbice tra gli uni e gli altri s’allarga fin dagli Anni 80, quando già l’1% della popolazione possedeva il 10,6% del patrimonio nazionale (oggi ne possiede il 17,2%). Col risultato che dopo Usa e Regno Unito la società italiana è la più ineguale di tutto l’Occidente, secondo l’Human Development Report 2006. Un dato ribadito dal Rapporto Growing Inequal? del 2008, dove s’attesta che in Italia la disuguaglianza tra le classi sociali è cresciuta del 33% dopo gli Anni 80, contro una media generale del 12%.
Questa frattura non nuoce unicamente all’efficienza del sistema. Non si limita a offendere il nostro senso di giustizia, o almeno quel po’ che ne rimane. Reca altresì un effetto disgregante, arma i diseredati contro lorsignori, mina l’unità del popolo italiano. Infine tradisce la promessa più solenne conservata nella Carta del 1947: quella che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli «ostacoli di fatto» verso l’eguaglianza. Ma la Repubblica è a sua volta sbilanciata, a sua volta disuguale. O meglio lo è diventata dopo gli Anni 80, e non è affatto un caso questa coincidenza temporale fra disuguaglianza sociale e istituzionale. Al sistema di pesi e contrappesi, alla separazione dei poteri disegnata 60 anni fa dai padri fondatori è via via subentrata la concentrazione del potere, il suo esercizio solitario. Le assemblee parlamentari hanno perso la capacità di rappresentare gli elettori; e infatti 15.546.289 italiani (il 33% dell’elettorato) non sono rappresentati da questo Parlamento, per una scelta astensionista o a causa della soglia di sbarramento. Ma in realtà sono rimasti orfani pure gli altri 30 milioni, dato che con la nostra legge elettorale i rappresentanti più che eletti devono ritenersi nominati. Un Parlamento debole è preda del governo: da qui l’abuso dei decreti, i maxiemendamenti, la raffica dei voti di fiducia. Un esproprio istituzionale, ma altresì una distorsione che penalizza soprattutto gli ultimi, gli esclusi. Perché ogni società disuguale è frastagliata per definizione, e perché nelle stanze del governo - quale che sia - risuona un’unica voce, quella della sua maggioranza. Insomma l’eclissi delle Camere ha oscurato l’eguaglianza, e insieme ad essa la coesione e l'efficienza del Paese.
michele.ainis@uniroma3.it
Nessun commento:
Posta un commento