domenica 25 gennaio 2009

Aldo Borghesi: Cosa dobbiamo a Jan Palach

dal sito del circolo GL di Sassari

All'orizzonte del cielo di Praga: cosa dobbiamo a Ian Palach


Praga 1968 in una foto di Henry Cartier Bresson

Non ce ne siamo dimenticati, anche se l'anniversario era un paio di giorni fa. Ma noi non facciamo i giornalisti, e di "bucare" l'avvenimento possiamo anche elegantemente infischiarcene. Le idee e le persone che le incarnano, grazie al cielo non hanno calendario.

Il giorno che Ian Palach, 20 anni, studente universitario, si diede fuoco a Praga, piazza San Venceslao, frequentavo la prima media e di anni ne avevo 11. Erano da poco compiuti nell'estate precedente quando, in uno degli ultimi giorni di vacanza passati dai nonni in Toscana, vidi scorrere sul televisore le immagini dei carri armati sovietici in quella stessa piazza. Ricordo ancora la cappa di costernazione scesa nella mia famiglia: una famiglia non politicizzata, anzi diffidente nei confronti della politica, in quegli anni turbolenti; ma nella quale era anche radicata la ferma convinzione che la libertà - e la democrazia, che di essa è la forma politica - fossero valori fondanti del vivere civile, da non barattare con niente; e che non fosse possibile eguaglianza sociale o coesione nazionale senza di essa. E' questa la versione in cui, bambino degli anni Sessanta, ho imparato la triade liberté-égalité-fraternité.

Merito senz'altro dei miei genitori, ambedue educati sotto il fascismo e fuorusciti infine da quell'educazione, l'una sotto le bombe di Cagliari nel 1943, l'altro nella tragedia del passaggio del fronte in Toscana nell'estate 1944: una coppia normale, di un ceto medio italiano cresciuto nelle ristrettezze e che finalmente aveva potuto tirare il fiato negli anni del miracolo economico. E in questo senso soddisfatto; ma anche ben consapevole - se non altro perchè geograficamente dislocato in una periferia disgraziata quale, soprattutto allora, era la Sardegna - dei profondi limiti del cosiddetto miracolo: limiti materiali e più ancora culturali.

Soprattutto poco disposti a riconoscersi nella Repubblica democristiana, lontana mille miglia da quel che loro potevano ritenere sana concezione di equità, legalità, senso dello Stato; alieni, pur senza porsi grandi questioni teoriche, da quella cultura politica, da quel concetto dei rapporti sociali, in definitiva da quella (non) etica civile; mentre rifiutavano invece, la cultura della raccomandazione, dell'intrallazzo, dell'ossequio al potere, affermando un'alternativa fatta di senso della responsabilità personale e collettiva, di culto del lavoro - e del lavoro ben fatto - di promozione del merito e non dell'appartenenza; affermandola, intendo, con i comportamenti, che sono l'unica cosa che conta nella vita di un uomo e di una donna; ed affermandola per tutto l'arco della propria vita, in miniera l'uno, a scuola l'altra, a casa tutti e due.

Chiaramente alieni, quindi, dal riconoscersi nell'indirizzo della conduzione democristiana dello Stato, anche se per nulla disposti a sostenere un'eventuale alternativa egemonizzata dal PCI. Pieni di speranze, semmai, per i possibili esiti di una decisa politica di riforme, e insoddisfatta per il man mano sempre più evidente fallimento di essa, nella versione zoppa che ne offriva il centrosinistra. Insomma, alcuni dei tanti italiani alla ricerca di un'espressione politica ed elettorale dei valori che sostenevano e praticavano; progressivamente delusi invece dallo sparire, dal defilarsi, dal tradire di quei soggetti che avrebbero dovuto svolgere questo ruolo e preferivano invece entrare nel comodo andazzo del sistema dc: i partiti della sinistra laica e socialista in primo luogo. Ed è questa una piccola storia attraverso la quale si può apprezzare in tutta la sua catastrofica grandezza il fallimento di speranze e aspettative di cui la nostra parte politica si è resa responsabile nella storia d'Italia.


In questo contesto, ragazzino che cresceva in un paesetto del Nuorese, preoccupato soprattutto della scuola e del crescere, ma anche - da figlio del proprio tempo - con le orecchie già rizzate al pericoloso fascino della lotta politica, mi sono trovato di fronte alla fine di Ian Palach. Sapevo che in quegli anni si uccidevano nello stesso modo i monaci buddisti che protestavano contro la guerra in Vietnam, che apriva crepe man mano più profonde nel sostanziale filoamericanismo in cui ero cresciuto. E vent'anni, ai miei unidici di allora, sembravano tantissimi, mi sembrava che chi avesse fatto una cosa del genere, malgrado la faccia da ragazzo che mostrava nella foto sui giornali, dovesse essere già un uomo, un adulto, padrone delle sue azioni al punto da compiere un'azione estrema di tale portata, affrontare il fuoco - su 'ocu, come quello de su ponteddu de Sant'Antoniu di quei giorni dell'anno -, il dolore fisico, la morte: come i martiri del Risorgimento; come i partigiani. Non lo sapevo allora che vent'anni sono pochi pochi pochi per morire: la mia generazione l'ha poi imparato ben presto e sulla propria pelle, l'ho già raccontato altrove nel vecchio blog del Circolo GL .

Con i miei familiari avevo tifato da lontano per la primavera di Praga e per Alexander Dubcek; il 21 agosto era stato un giorno di grande lutto, al punto che ancora oggi a quella data me ne ricordo, magari nel mezzo di vacanze spostamenti mare e di quel che la mia vita mi porta a fare in quella stagione ancora estiva. Ian Palach lo sentivo già da allora uno della mia parte: come i martiri del Risorgimento; come Matteotti, come i Rosselli, come i repubblicani spagnoli, come i partigiani. Tale è rimasto per sempre: è senz'altro anche a lui che sono debitore se qualche anno dopo - cresciuto quel tanto che bastava, in anni in cui si cresceva a pane e politica, a cercarmi la mia strada - ho compiuto una scelta a sinistra fuori dal partito comunista e fuori da quelle organizzazioni a sinistra del Pci che attiravano tanto: perchè erano sanamente radicali, perchè sembravano scatenare invincibili energie di liberazione, e soprattutto perchè c'era tanta gente, tanti miei coetanei; contrariamente alla Federazione Giovanile Repubblicana, dove eravamo sicuramente buoni, ma altrettanto severamente pochi.

All'epoca non lo sapevo ancora quali abissi di contraddizione la vicenda di Praga avesse aperto nel PCI e quanto essi avrebbero contribuito a innescare al suo interno un processo di allontanamento dalle vecchie appartenenze internazionali, che indipendentemente dagli esiti considero un elemento di progresso per tutta la sinistra italiana, oltre che - naturalmente - un grande successo morale per la parte di essa nella quale mi riconoscevo e riconosco. Nella mia biblioteca c'è ancora la raccolta dei discorsi di Longo, Sui fatti di Praga, comprata nel 1972 o 1973, uno dei primi libri politici che ho letto nell'imminenza della "scelta". Mi era sembrato uno sgradevole esercizio di dire e non dire; fra me e una possibile appartenenza al PCI, o a un'organizzazione politica che si definisca comunista, da allora c'è sempre stato questo libro. La scelta di starne al di qua l'ho pagata con una vita di minoranza; mi sembra di solare evidenza, oggi, quanto fosse una scelta fondata, e in definitiva giusta.

Ian Palach me lo sono visto diverse volte, nel tempo, omaggiato di manifesti e intitolazioni da parte delle organizzazioni di destra, e di destra estrema. Conosco per averla studiata la tendenza delle organizzazioni politiche, non solo di quella parte, ad appropriarsi avvoltoiescamente di quelle memorie che risultano a loro comode: l'esempio della monarchia e del fascismo con Mazzini e Garibaldi è in tal senso esemplare (ma anche Veltroni che discetta di Rosselli non scherza). Non sono mai stato anticomunista, perchè ho sempre riconosciuto e guardato con rispetto la sconfinata ansia di liberazione che nel mio paese, e anche fuori di esso, è stata proiettata su quell'appartenenza, su quel nome, su quel simbolo, su quella storia. Perchè non dimenticherò mai la grande pagina in cui Primo Levi ricorda i krasnoarmeets che tornavano a casa nel 1945 dopo aver sconfitto il nazismo; e non intendo dimenticare che anche sul loro berretto c'erano la stella rossa e la falce e martello. Ma ho creduto e credo che un sistema che pretende di realizzare l'eguaglianza sociale sulla negazione della libertà politica sia profondamente errato, e non abbia nulla a che fare con la vera natura dell'essere a sinistra. La sinistra, o è antiautoritaria, o non è. Ho imparato nel tempo che molti uomini hanno detto e scritto questo, e l'hanno pagato: alcuni con l'isolamento, altri con la vita. Noi l'abbiamo scritto nella pagina iniziale del sito del nostro Circolo GL, e vi crediamo sino in fondo: "all'infuori della democrazia non vi è socialismo, ma terrore permanente".

Molto prima di sapere che lo aveva detto Emilio Lussu, l'ho imparato da Ian Palach. Che oggi, se fosse vivo, non vedrei più separato da una distanza siderale di età, come lo era allora: avrebbe l'età dei miei colleghi più anziani, con cui ho diviso una vita di battaglie nel posto di lavoro e fuori, con cui mi sono cordialmente accapigliato e ancora mi accapiglio sulle nostre rispettive memorie, sui loro segni, sulle loro ragioni e i loro torti, in un quotidiano confronto giocato al fioretto di quell'ironia che è genius loci della città dove viviamo. Quasi da pari, ormai, anche se in quel 1969 loro erano tra liceo e università, e io in prima media. E, soprattutto, con una vita alle spalle che testimonia ormai per noi, nel bene e nel male, in ciò che è stato valido, in ciò che non abbiamo potuto evitare, in ciò che francamente avremmo fatto bene a non fare. Quella vita che per lui è finita a vent'anni, in piazza San Venceslao.


Ci sono passato, infine, da Praga, qualche anno fa: andavo ad Auschwitz con una classe di corso serale di una scuola superiore di Nuoro e con la loro insegnante, collega di lavoro e di appartenenze culturali; è stato il mio viaggio alla Mecca, quello che da laico mi sentivo tenuto a compiere almeno una volta nella vita; e la mia vita ha un prima e dopo quel viaggio. Praga di marzo, con pochi turisti di cui troppi italiani, era piena di lapidi di pietra nera, scritte in una lingua indecifrabile ma tutte con una data perfettamente comprensibile, intorno al 9 maggio 1945. Le lapidi ai partigiani caduti nell'insurrezione finale contro i nazisti; le stesse, familiarissime, che costellano Torino e tutte le altre città europee che ho visitato. A vedere dove è morto Ian Palach ci sono andato da solo, a sera tarda, attraversando una piazza San Venceslao piena di locali che è benevolo definire equivoci. Non ho trovato molto, a parte un rigonfiamento del selciato che ha sconnesso i sampietrini di porfido; neanche il nome, ho pensato che i praghesi e i cechi non ne avessero bisogno: su Wikipedia vedo che è riportata l'immagine di una stele, io allora non l'ho vista. Mi sono fermato qualche minuto, ho pensato alcune delle cose che ho scritto qui. Ho sentito infine quanto fossero vicine e legate fra loro le lapidi nere e quel selciato sconnesso. A un certo punto mi è passato di fianco uno sciame di studenti romani in transumanza verso una qualche discoteca, guidato da un prof che aveva la mia stessa faccia di cinquantenne barbuto. Non si sono nemmeno accorti che ci fosse qualcosa da guardare.

Leggo che esistono circoli e associazioni intitolate a Ian Palach. Io ne conosco una: sta a Cagliari, questo è il sito web, ed è un'associazione di studenti universitari, fondata un paio d'anni dopo la caduta del Muro e piuttost o attiva. Più o meno un mese fa ha organizzato alla Casa dello Studente di Sa Duchessa (si chiamerà ancora così ?) l'affollata presentazione di un bel saggio biografico su Sandro Pertini, edito da Lacaita. L'autore è un giovane studioso cagliaritano, Gianluca Scroccu, bravo come grazie al cielo i giovani studiosi bravi continuano a essere da una generazione all'altra. Ha fatto uno splendido lavoro sul Presidente, con cura rigore ed un evidente amore che traspare a ogni pagina; e quella sera ha parlato di Rosselli, di Gobetti, di Salvemini. Senza liquidarli spocchiosamente come poveri "borghesi" che non avevano capito niente della Poderosa Avanzata del Proletariato Organizzato; ma come i punti di riferimento da cui ripartire per ripensare l'analisi della storia d'Italia. Ed anche per immaginarsi un'azione politica i cui termini e soggetti sono ancora tutti da costruire ma passano senz'altro da lì, da quei nomi, da quelle idee. Le stesse cose che diciamo noi in questo blog e nel nostro sito. Forse se Ian Palach sessantenne si fosse trovato a passare di lì, sarebbe stato contento che tutto questo si facesse e dicesse in suo nome.

Aldo Borghesi

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