Massimo Roccella
Salari: tutte le ragioni per non firmare
Il modello contrattuale doveva essere riformato per affrontare una situazione che, ormai da più parti, veniva definita in termini di “emergenza salariale”, ma evidentemente l’obiettivo, strada facendo, dev’essere stato perso di vista o, forse, i firmatari dell’accordo hanno ritenuto opportuno mutarlo senza, peraltro, darsi la pena di avvertire esplicitamente del cambiamento di rotta. Alla fine, tuttavia, non si può dire che essi non siano stati sinceri, se è vero che l’accordo quadro siglato giovedì sera a Palazzo Chigi sancisce, nero su bianco, che “obiettivo dell’intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l’aumento della produttività”, senza aggiungere neanche un cenno, sia pure pro-forma, all’esigenza di difendere almeno (non diciamo di incrementare) il valore reale dei salari. Vero è che sviluppo economico e crescita occupazionale dovrebbero essere sostenuti da un’ “efficiente dinamica retributiva”: che però è concetto ambiguo, sicuramente non omologabile a quello di difesa del potere d’acquisto dei salari. Dal punto di vista delle imprese, ad esempio, la dinamica retributiva potrebbe apparire efficiente quanto più contribuisca a mantenere basso il costo del lavoro; altri potrebbe aggiungere che la compressione salariale è una necessità ineludibile se si vuol sperare in un incremento dell’occupazione.
Andiamo al merito. Al contratto collettivo nazionale si attribuisce la “funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore”. Non si dice però quale sia il livello del trattamento certo o, per meglio dire, non si esplicita con la dovuta chiarezza (perché cose del genere non si possono scrivere in un accordo sindacale) che d’ora in avanti si firmeranno contratti nazionali che non garantiranno neppure l’obiettivo minimo della salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni. I salari, anzi, a livello nazionale andranno incontro ad un sicuro processo di (ulteriore) erosione, perché dovranno essere negoziati sulla base di un parametro previsionale (elaborato da un fantomatico soggetto terzo, che l’accordo neppure si è preoccupato di individuare) depurato della cosiddetta inflazione importata, legata alle variazioni dei prezzi dei beni energetici, e dunque a priori, a prescindere dall’accuratezza della previsione, non coincidente con il tasso d’inflazione effettiva; perché l’indice previsionale sarà applicato non sull’intera retribuzione, ma su un valore convenzionale da individuarsi, a quanto pare, nei singoli settori, con evidente possibilità che, per questa via, si consegua il risultato di una più accentuata svalorizzazione della retribuzione globale (quanto previsto per il pubblico impiego, con buona pace del modello unico di contrattazione, rende più evidente il problema, essendosi in questo caso precisato che l’indice previsionale sarà applicato “ad una base di calcolo costituita dalle voci di carattere stipendiale”, con effetti dirompenti se l’indicazione dovesse essere riferita ai soli minimi tabellari); e infine perché è stata prevista un’inedita possibilità che il ccnl subisca deroghe peggiorative ad opera della contrattazione territoriale o aziendale: possibilità che potrà essere sfruttata ad ampio raggio, dal momento che non riguarda soltanto situazioni di crisi, ma dovrebbe essere funzionale anche a “favorire lo sviluppo economico ed occupazionale”. Il che rende evidente che la garanzia di “certezza” dei trattamenti assicurati dal contratto nazionale è stata scritta con inchiostro simpatico.
Quanto alla contrattazione di secondo livello, tutti coloro, la Cisl in primis, che in questi anni hanno sostenuto la necessità di garantirne l’effettività e una più ampia diffusione, non si sono mai preoccupati di chiarire come l’obiettivo avrebbe potuto essere conseguito. I commentatori del Sole-24Ore continuano ad enfatizzare la funzione di incentivo che dovrebbe essere svolto dall’ “elemento di garanzia retributiva”, che era stato pensato per assicurare, direttamente attraverso il ccnl, un incremento salariale aggiuntivo ai lavoratori (notoriamente la stragrande maggioranza) dipendenti da imprese dove la contrattazione aziendale non viene praticata: accettando di negoziare sui salari in sede aziendale - era questa l’idea - le imprese non sarebbero state tenute ad erogare quella voce salariale aggiuntiva. Fatto è che, giunti all’approdo finale, la novità è svaporata: ben lungi dal rappresentare un impegno generale e giuridicamente vincolante, risulta adesso degradata a mera eventualità, la cui traduzione operativa resta affidata a scelte discrezionali dei singoli ccnl. L’unico impulso alla contrattazione di secondo livello, in definitiva, continuerà a riposare sul consistente sconto fiscale graziosamente elargito da Tremonti, col decreto legge del novembre scorso, alle imprese che concordino aumenti retributivi legati alla “produttività”. Si può scommettere che d’ora innanzi non ci sarà incremento retributivo aziendale che non venga rubricato sotto la voce “salario di produttività”: come dire che le imprese, che sino a ieri erano disposte a concedere ai propri dipendenti 10 euro netti di aumento in busta paga, continueranno anche domani a corrispondere la stessa cifra, ma risparmieranno sull’incremento lordo (ovvero sul costo del lavoro) a spese del bilancio pubblico. Se poi, per effetto di questa dissennata politica di tagli fiscali, sarà necessario ridurre la spesa pubblica sociale, con tutte le ovvie conseguenze sul reddito dei lavoratori, che importa? Preoccupazioni del genere non toccano la sensibilità dei negoziatori dell’accordo del 22 gennaio. C’è comunque una terza possibilità: le imprese che lo vorranno potrebbero anche decidere di erogare unilateralmente “salario di produttività”, dal momento che il beneficio fiscale prescinde dal carattere, negoziato o meno, dello stesso: in questo modo il cerchio si chiuderebbe e la tanto sbandierata effettività della contrattazione di secondo livello rivelerebbe appieno il suo carattere puramente declamatorio.
A fronte della crescita delle disuguaglianze, che verosimilmente discenderà dall’applicazione dell’accordo, ha fatto bene la CGIL a dissociarsi, così come giustamente reclama adesso che l’intesa raggiunta a Palazzo Chigi sia almeno sottoposta a referendum. E’ assai improbabile che sia ascoltata, né c’è da aspettarsi che a Corso d’Italia giungano convinti attestati di solidarietà dall’opposizione parlamentare: un cartello di comitati elettorali, travestito da partito, come il PD manifestamente non è in grado di assumere una posizione netta su nessuna delle questioni rilevanti che agitano la società italiana. Qui, forse, si tocca proprio la radice ultima di quanto sta accadendo. Un accordo sulle regole senza l’adesione della maggiore organizzazione sindacale si è potuto concludere evidentemente perché Confindustria e governo hanno ritenuto il momento propizio per isolare la CGIL. La solitudine dei lavoratori e l’isolamento della CGIL rappresentano, in fondo, le due facce della stessa medaglia: l’una e l’altro si spiegano bene in un contesto in cui è venuta meno la rappresentanza politica del lavoro. Il sostegno più convinto alla CGIL è ovviamente, per parte nostra, fuori discussione: ma se non si riuscirà a sciogliere in termini credibili quel nodo, se non si saprà colmare il fossato fra rappresentanza sociale e rappresentanza politica, sarà davvero difficile risalire la china.
*Docente di diritto del lavoro all'Università di Torino, della Direzione di Sd
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