sabato 24 gennaio 2009

Ricolfi: Federalismo, rischi di flop

Da la Stampa

22/1/2009

Federalismo rischi di flop





LUCA RICOLFI

Ieri al Senato Tremonti ha illustrato piuttosto ampiamente le intenzioni del governo in materia di federalismo fiscale.

Il nocciolo dell’intervento del ministro dell’Economia mi sembra questo. Cari amici, il governo si rende perfettamente conto che introdurre il federalismo fiscale in un momento come questo, con una grave crisi alle porte, può essere rischioso, ma state tranquilli perché i decreti attuativi non saranno varati prima di avere valutato molto attentamente il loro impatto e le loro interazioni reciproche, nonché gli eventuali aggiustamenti suggeriti dall’evoluzione dell’economia.

Quanto alla pretesa di determinare ora, ex ante, gli effetti macro-economici di questa riforma, ci sono almeno due buoni motivi per respingerla. Primo: il disegno di legge sul federalismo ha un impianto estremamente complesso, fatto di 12 tributi, 5 soggetti della riscossione, 2 fondi di sussidiarietà, 11 principi e criteri generali, 8 tipi di procedure attuative, varie commissioni e livelli decisionali, per cui le variabili di cui si dovrebbe tenere conto in un eventuale calcolo sono «un numero elevatissimo». Secondo: non esiste ancora una base di dati omogenei e condivisi, e «avere dei dati ma non omogenei e non condivisi è come non avere dei dati». Quest’ultimo argomento, naturalmente, taglia la testa al toro: se non ci sono ancora dati decenti non si può prevedere nulla, quindi l’opposizione - che vuol vederci chiaro - sta chiedendo la luna. E tuttavia forse qualche osservazione critica si può fare lo stesso.

Intanto trovo stupefacente che, dopo quasi dieci anni di prove di federalismo fiscale, con due cambiamenti della Costituzione già attuati (di cui uno tuttora vigente), né il centro-destra né il centro-sinistra si siano ancora preoccupati di predisporre la base di dati che occorre. So che è un compito molto complesso (perché io stesso me ne sto occupando da anni), ma mi sembra che il non averlo ancora completato introduca un preoccupante elemento di incertezza sia nel discorso politico sia nel cammino del federalismo. Detto fuori dei denti: perché tanta fretta di approvare un disegno di legge se non si è ancora in grado di valutarne l’impatto? Probabilmente perché i politici pensano che i dati siano innanzitutto qualcosa su cui occorre mettersi d’accordo (dati «condivisi»), anziché qualcosa che occorre predisporre al riparo da ogni negoziato politico (dati «omogenei»).

Ma il punto decisivo non è di tempi, bensì di sostanza. A me pare che il fatto di non avere ancora messo dei «numeri» nel progetto federalista, e di rimandare tutti i dettagli a una serie di futuri decreti attuativi, non sarebbe inquietante solo se il disegno di legge contenesse già in sé un sistema di anticorpi capaci di impedire la futura degenerazione del federalismo stesso in una mostruosa macchina per: a) aumentare la spesa; b) aumentare la pressione fiscale; c) paralizzare la pubblica amministrazione. In assenza di una esplicita e rigorosa previsione di tali anticorpi, i timori di chi vede il federalismo come una ghiotta occasione per tutta la classe politica locale di incrementare il proprio potere appaiono purtroppo giustificati.

Ma quali potrebbero essere gli anticorpi che nel disegno di legge attuale non si vedono? Essenzialmente due. Il primo è un vincolo macroeconomico di riduzione parallela della spesa e della pressione fiscale, senza il quale il federalismo tradisce la sua missione-chiave: ridare ossigeno a famiglie e imprese (meno tasse), e migliorare i servizi pubblici (più efficienza). Il secondo anticorpo è un principio chiaro di responsabilità territoriale, per cui la perequazione, o riequilibrio, che le zone forti del Paese sono tenute a compiere a favore di quelle deboli sia volta a compensare le differenze di reddito percepito, ma sia indifferente alle differenze di evasione fiscale e di efficienza della macchina pubblica. Detto in altre parole, al federalismo non è giusto richiedere di coprire le enormi differenze di gettito dovute ad evasione fiscale, e tanto meno le enormi differenze di servizi dovute a spreco di risorse pubbliche. In concreto questo significa che ai territori che devono «rientrare» perché evadono troppo, o perché sprecano le risorse che ricevono, non si possono attribuire nuovi compiti o nuove risorse finché non hanno iniziato a ridurre evasione fiscale e sprechi. Altrimenti il rischio è che si ripeta quel che è già accaduto trent’anni fa con l’istituzione delle Regioni: lo spostamento di compiti dal centro alla periferia ha ampliato i divari territoriali anziché contribuire a ridurli.

Vedremo, alla fine del voto parlamentare, che tipo di legge uscirà. Ma se, come è verosimile, di tali anticorpi nel testo definitivo non vi sarà traccia, allora il rischio di un flop potrebbe diventare davvero molto serio. Alla fine della fiera, ossia a fine legislatura, potremmo trovarci con più tasse, più spesa, più debito pubblico, più conflitti dentro la Pubblica Amministrazione: l’esatto contrario di ciò per cui i fautori del federalismo affermano di battersi.

Nessun commento: