flc fondazione critica liberale
LIBRO BLU
SULLO STATO DELLA LIBERTÀ
DEI MEDIA
°°°
I
Proposte Per Una Politica Riformatrice
a cura di enzo marzo
prima bozza provvisoria e riservata
19 gennaio 2009
PROPOSTE PER UNA POLITICA RIFORMATRICE
INDICE:
1 ESSERE CONSAPEVOLI CHE I MEDIA NON SONO LIBERI
2 NON C’E’ DEMOCRAZIA SENZA INFORMAZIONE INDIPENEDENTE
3 OPINIONE PUBBLICA E PROPAGANDA
4 LA RILEVANZA E LA RIVOLUZIONE DEI NUOVI MEDIA
5 CITTADINI, LETTORI, CONSUMATORI
6 LA PALUDE CONFORMISTA
7 CINQUE CRITERI PER LA RIFORMA DEI MEDIA
8 DAI TRE POTERI DELLO STATO AI TRE POTERI DELLA “SFERA PUBBLICA”: UN NUOVO SEPARATISMO
9 I COMPITI DI GARANZIA DI UNO STATO NEUTRALE
10 UN MODELLO PER LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE. PREMESSA
11 LA RILEVANZA PUBBLICA DELL’INFORMAZIONE
12 LE DIFFICOLTA’ CHE INCONTRA IL MODELLO, POSSIBILI SOLUZIONI
13 LA SOLUZIONE B. IL MOTU PROPRIO
14 I DIRITTI DEI LETTORI E LA CORPORAZIONE DEI GIORNALISTI
15 CONCLUSIONI. LA NASCITA DI ****, COMITATO PER LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE
1 ESSERE CONSAPEVOLI CHE I MEDIA NON SONO LIBERI
La libertà di informazione è garantita da Costituzioni e da Emendamenti. I media che avvolgono il globo con le loro reti si dichiarano liberi ma sono ovunque in catene. I vincoli, beninteso, sono sempre più virtuali, invisibili, legano le menti e le indirizzano. Una lunghissima lotta ha assicurato la libertà formale d’informare: oggi nei paesi industrializzati si può stampare, trasmettere, emettere segnali, suoni, messaggi. Tutto (quasi) liberamente. La libertà dell’impresa mediale è (quasi) assicurata giuridicamente, spesso foraggiata. E così il mondo simbolico s’è adagiato sul mondo reale, coprendolo, rimodellandolo se non sostituendolo.
La nuova èra è sotto il segno dell’informazione. Il cumulo degli strumenti informativi è impressionante. Persino eccessivo, temono alcuni. Però, se ciascuno dei segmenti di questo cumulo è inquinato perché non libero, il Tutto si tramuta in un incubo di conformismo e di illibertà. L’opinione pubblica viene blandita come dominatrice e onnipotente, ma in effetti è manipolata, eterodiretta, svigorita. Gli strumenti del comunicare sono inesorabilmente e progressivamente concentrati. Dappertutto regnano, se non il monopolio, l’oligopolio e strutture elefantiache, costosissime, irraggiungibili dalle minoranze ideologiche. Il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore, che appaiono ovunque protagonisti, in realtà sono ridotti a oggetti inconsapevoli. Non sono titolari di alcun diritto. I risultati della conquistata libertà d’impresa mediatica sono deprimenti. Il pubblico-lettore si difende come può e arretra: abbandona progressivamente gli strumenti più “difficili” e soggiace a quelli più “facili”. Va sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e giace di fronte alla Tv assimilando le improbabili notizie televisive che gli si accavallano nella mente in un guazzabuglio di fiction e di news.
Oggi, in Italia, nell’era berlusconiana la condizione dei media televisivi ha subìto un vero tracollo: si è passati da una situazione oligopolistica a un monopolio quasi perfetto. Il controllo diretto della quasi totalità della Tv privata, quello indiretto della Tv pubblica, la proprietà di produzioni di format, il dominio del mercato pubblicitario, una posizione dominante nell’editoria e tra gli istituti di sondaggio, si aggiungono al potere pubblico, lo puntellano, inquinano la formazione della volontà politica e manomettono i requisiti di base d’ogni democrazia. Al tavolo del gioco politico Berlusconi bara apertamente e, distorcendo la lotta politica in tutte le sue fasi fino al momento elettorale, riduce la democrazia a poco o nulla. Quasi tutti i suoi avversari o hanno una cultura democratica talmente scarsa che non avvertono il pericolo o con la loro ignavia se ne fanno complici.
Il cancro sopravvenuto non può farci dimenticare, però, che ovunque l’informazione – anche in condizioni di cosiddetta “normalità” – rappresenta il primo e più grave problema delle nostre democrazie.
2. NON C’E’ DEMOCRAZIA SENZA INFORMAZIONE INDIPENDENTE
Secondo Robert A. Dahl dei cinque criteri che contraddistinguono una democrazia compiuta ben tre riguardano i media: 1) partecipazione effettiva («prima che una strategia venga adottata […], tutti i membri devono avere pari ed effettive opportunità per comunicare agli altri le loro opinioni a riguardo»); 2) diritto all’informazione («entro ragionevoli limiti di tempo, ciascun membro deve avere pari ed effettive opportunità di conoscere le principali alternative strategiche e le loro probabili conseguenze»); 3) controllo dell’Ordine del giorno. Altri hanno sostenuto che «offrire opportunità di crearsi una conoscenza chiara delle questioni pubbliche non è solo parte della definizione della democrazia, ne è un requisito fondamentale» . Se si intende la democrazia non solo come forma di governo i requisiti minimi sono la “Libertà d’espressione” e la possibilità di “Accesso a fonti alternative d’informazione”).
Certo, prosperano moltissimi stati totalitari, ma le cosiddette democrazie occidentali possono dichiararsi tali senza continuare a perseguire almeno quei requisiti minimi che noi stessi consideriamo necessari? Possiamo ancora dirci democratici se non riprendiamo in mano le analisi e le ricette del liberalismo, e accreditiamo ancora un sistema politico diventato sempre più un guscio vuoto? Siamo ben lontani dalla “democrazia della società civile”. Se le masse non hanno strumenti corretti e plurimi per farsi un’idea appropriata dell’agenda politica corrente, sarà sempre più illusoria la loro trasformazione in “società civile” in grado di svolgere costantemente una verifica e una valutazione dell’operato del governo e delle forze politiche che si candidano alla sua sostituzione.
Viviamo il fallimento della democrazia costituzionale, ovvero della democrazia delle regole. Ora il gioco è visibilmente truccato sia dalla manipolazione dell’opinione pubblica sia dall’esiguità e dalla predeterminazione delle scelte del singolo elettore. L’attuale cittadino-elettore, che sempre più si è convinto che per esprimere con maggiore vigore la propria scelta politica debba non recarsi alle urne, deve rendersi conto che ancor prima di elettore egli è (e deve diventare) un lettore consapevole, con diritti riconosciuti sul controllo e sulla trasparenza, e non un consumatore di media facile preda di propaganda e di manipolazione. Abbiamo tanto combattuto affinché le elezioni politiche fossero libere, bisogna cominciare a lottare – come sostiene Sartori – affinché anche le opinioni siano libere «cioè liberamente formate» .
Ora invece i media si identificano con i loro padroni. E nessuno più crede ai giornali come portavoce dell’opinione pubblica quando ne sono soltanto uno strumento di deformazione.
3. OPINIONE PUBBLICA E PROPAGANDA
Se tutta la Propaganda è Persuasione (in qualche modo forzata), non tutta la Persuasione è Propaganda. Se a queste due affianchiamo la Testimonianza, che è l’unico modus operandi dell’autentico giornalismo, abbiamo tre concetti contigui, spesso con vaste aree in comune, e con la predisposizione a fagocitarsi l’un l’altro. Lo sbaglio più colossale è quello di definire positiva o negativa la Persuasione e la Propaganda dal loro contenuto o dal loro fine. O dalle loro caratteristiche principali come l’intenzionalità manipolatrice del propagandista, o la semplicità, anzi il semplicismo, o la ripetitività.
La propaganda non si distingue dalla persuasione né per il contenuto “veicolato” né per le “intenzioni” del comunicatore, né per le tecniche usate, bensì per la quantità informativa con cui sommerge le menti senza che queste abbiano sufficienti alternative. La Propaganda non ammette d’essere contraddetta. L’unico antidoto è il pluralismo delle fonti. Si ritorna così all’importanza primaria del frazionamento del potere mediatico in un’epoca in cui è persino impossibile avere dati attendibili sul processo di fusione dei media tanto è frenetico il ritmo delle concentrazioni.
Quando l’informazione è nelle mani di un unico soggetto, si arriva alla propaganda perfetta, ma questa posizione monopolistica non è prerogativa esclusiva degli Stati totalitari. Anche gli Stati democratici, in alcuni momenti della loro storia, hanno costruito una loro condizione monopolistica per affermare temi propagandistici che stavano particolarmente a cuore agli esecutivi. Anche in periodi di cosiddetta “normalità” non è necessario che la condizione di monopolio sia stabilita ufficialmente dal governo, ma piuttosto è tutto l’apparato informativo che sovente autonomamente si adegua e si uniforma.
In più c’è anche il diverso “peso” dei differenti vettori informativi: purtroppo non esiste soltanto la tendenza monopolistica all’interno d’ogni vettore, ma anche lo strapotere d’un vettore come la televisione su tutti gli altri, col risultato che l’attenzione dell’individuo è fagocitata pressoché interamente e senza alternative critiche.
4. LA RILEVANZA E LA RIVOLUZIONE DEI NUOVI MEDIA
Il “numerico” fa convergere i tre sistemi di segni che compongono la comunicazione: la parola scritta, il suono e l’immagine. Poiché tutti e tre i segni sono diffusi da un unico mezzo (i bit), è inevitabile la concentrazione tra i vettori. Finora nulla si è fatto per governare questo processo. Contemporaneamente come non notare e non fare i conti con la stessa mutazione del concetto di merce? «Passiamo dai mercati alle reti», scrive Jeremy Rifkin . In quel nuovo tipo di mercato che è la rete si frantumano la proprietà e le merci. Soprattutto i “nuovi padroni” dei media non vendono beni materiali ma principalmente “flussi d’esperienza”. Esperienza di testi, suoni e immagini. Diventando il “bene” immateriale, anche il termine “proprietà” che rimanda a un passaggio fisico da un soggetto a un altro, diventa improvvisamente obsoleto e destinato a regolare soltanto rapporti “residui”.
Ma in questo caso qual è la più efficace politica anti-concentrazione? Ammesso che esista un’autorità in grado di deciderla e di farla rispettare. Forse è anti-storica e anti-scientifica un’attività antitrust che aggredisca l’integrazione di tipo verticale, cioè tendente a separare le varie forme che compongono l’esperienza. E’ impossibile tenere separata la diffusione del suono da quella dell’immagine. E’ impossibile frazionare i “flussi d’esperienza” o anche solo resistere al processo d’integrazione. Tutti gli sforzi dovrebbero essere indirizzati invece verso politiche antitrust di tipo orizzontale, cioè quelle che, pur ammettendo l’unità dell’esperienza informativa, la limitino in termini quantitativi fino a soglie minime e in modo così rigoroso da attivare un processo di moltiplicazione dei soggetti produttori e quindi delle offerte informative. Creando un mercato in cui la concorrenza sia il più possibile effettiva.
Sia la Sinistra sia la Destra, e non solo nel nostro paese, non hanno una politica coerente sulla libertà di comunicazione. Continuano a ragionare con l’antica logica della contrapposizione tra il pubblico e il privato. La Destra confonde la “libertà”con le “mani assolutamente libere”, anche se queste tendono alla concentrazione e all’opacità, e tendono a usare questa particolare “merce” con scopi sfacciatamente non pertinenti. La Destra confonde il mercato con l’assoluta assenza di regole. Incoerentemente con le idee che professa, mira a un basso, o nullo, livello di concorrenza e, insieme, a cospicui finanziamenti pubblici. La Sinistra ancora macina la stravecchia convinzione, smentita dai fatti, che il pluralismo possa essere gestito dal potere pubblico. Come se il potere pubblico fosse neutro e non “soggetto” di scelte, le più diverse, e portatore di interessi propri. Come se potesse esistere l’obiettività dell’informazione. Come se il problema fosse quello d’assicurare questa obiettività. Come se bastasse svincolare i media dal “privato” per innalzarli a esclusivi portavoce di chissà quale Verità altrimenti distorta da interessi e scelte di parte. Come se la notizia non fosse di “parte” sempre. La Sinistra di origine comunista non sa dare risposte a queste domande e alla fine si riduce a intendere per “pubblico” la grossolana lottizzazione. Quando arriverà questa Sinistra a comprendere che il compito dello Stato non è quello di fornire notizie spacciate per obiettive, ma di garantire l’effettiva pluralità delle fonti informative? Passare dalla lottizzazione al pluralismo significa cambiare la propria filosofia della storia.
L’idea che tutte le comunicazioni siano nelle mani d’un pugno di oligopolisti (basti pensare che non più di dieci portali gestiscono l’80% delle centinaia di milioni di accessi quotidiani a Internet) fa tremare, ma non è neppure consolante che sia lo Stato (dittatoriale o no) a gestire un potere così enorme. La Rete ora è un gigante produttore di libertà, ma ha i piedi d’argilla. Se lo Stato è debole, le scelte pubbliche sono preda facile del potere economico; se lo Stato assume compiti non propri, le conseguenze sulla libertà dei cittadini sono schiaccianti. Non c’è soluzione decente che non passi per un’acquisizione di effettiva autonomia e limitazione del “politico”. Ora la politica, troppo spesso degradata a semplice strumento operativo di poteri privati, appare sempre più come un arbitro corrotto e compiacente.
Lo Stato non può gestire alcun mezzo d’informazione. Lo Stato deve sottolineare la sua neutralità e garantire l’effettivo pluralismo dell’informazione, come unico garante di un processo democratico non inquinato.
5. CITTADINI, LETTORI, CONSUMATORI
La libertà d’informazione e il “diritto a essere informati” sono due valori differenti ma complementari, guai a metterli in concorrenza. Vanno entrambi garantiti.
Prima, abbiamo inserito il “diritto a essere informati” tra le condizioni indispensabili per una democrazia non finta. Ma la libertà d’informare resta pregiudiziale (perché fondatrice) di questo stesso diritto. Esattamente come la libertà comprende in sé l’uguaglianza, e non viceversa. Essa è un bene assoluto (anche se paradossalmente sono molti giornalisti a sostenere il contrario), non può essere vincolata a determinate funzioni. E poi queste “funzioni” da chi dovrebbero essere decise: dallo Stato? Dal Partito? Dalla Chiesa?
Le tre qualifiche che vanno per la maggiore, “obiettività”, “imparzialità” e “completezza”, infestano la normativa sul giornalismo e i codici deontologici, ma non hanno fatto compiere un passo in avanti alla qualità e alla libertà dell’informazione. Il giornalista non svolge, né deve svolgere, alcun’altra funzione se non quella di testimone della realtà, il suo compito è di “riportarla” come la vede e la percepisce, senza illudersi di liberarsi dal soggettivismo e dalle incertezze proprie d’ogni testimone. Nel passato si sono alimentate tesi tanto velleitarie quanto improduttive sulla missione sociale del giornalista. Anche a scapito della notizia. Mentre, più subdolamente, nella mente del giornalista è rimasta ferma la missione della difesa degli interessi della Proprietà. I cittadini-lettori più avvertiti sanno bene che caricare il giornalista di funzioni aggiuntive apre un contrasto col “diritto/dovere di cronaca” e non migliora la leggibilità e la correttezza dei nostri giornali.
Piuttosto che combattersi in una guerra tra straccioni, “il diritto di cronaca” e “la libertà a essere informati” si devono alleare e prendere coscienza che non c’è l’uno senza l’altra. E soprattutto va fondato pressoché ex novo il “diritto dei lettori”, i quali sono assolutamente senza difese sia in quanto cittadini (non viene garantita loro, dell’informazione, né la pluralità né l’indipendenza), sia in quanto consumatori (non vien neppure preso in considerazione che come compratori di un bene essi sono “consumatori” e quindi dovrebbero acquisire, in fatto di trasparenza, di non commistione di interessi, di non inquinamento della notizia, almeno diritti analoghi a quelli che con fatica hanno gli acquirenti di un qualunque bene di consumo).
6. LA PALUDE CONFORMISTA
L’articolo 21 della nostra Costituzione sulla libertà di stampa è un bell’esempio di liberalismo. Assai rigido, e sulla linea cavourriana, suggerisce che in questo campo meno si legifera e meglio è. Ma purtroppo si è legiferato, e sono molte le leggi ordinarie che contraddicono lo spirito del dettato costituzionale. Alcune di queste ne violano apertamente la lettera (come l’obbligo di registrare le testate giornalistiche presso i Tribunali). Altre costituiscono intralci e pleonasmi. Però c’è anche una “libertà positiva” che va assicurata ma che non viene assicurata. La Costituzione non se l’è dimenticata, e l’art. 3, pur nella sua generalità, risponde bene allo scopo. È quello che sancisce il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana. Da qui nasce sicuramente il dovere del legislatore di operare effettivamente per garantire a tutti la possibilità concreta di esprimersi liberamente.
Il “funzionalismo”, ovvero la teoria che assegna d’ufficio al giornalismo una “funzione” ultronea, perduta la battaglia con l’art. 21, si è voluto rifare nei decenni successivi. La normativa ordinaria risulta influenzata dallo spirito sostanzialmente illiberale dei tempi più che dall’art. 21, e ha raggiunto il suo culmine sia con la famosa sentenza della Corte di Cassazione del 1984 sia con tutta la stagione delle grida deontologiche che, non a caso, inaugura il periodo più buio del giornalismo italiano che dura tuttora. Si è così giunti al momento attuale, il peggiore, dove regnano, ammantati di retorica, gli intrecci perversi tra legislazione rinnegante e legislazione caduta in disuso o mai applicata, tra esaltazione acritica del “servizio pubblico” (dove l’inevitabile condizionamento politico e il corrispondente servilismo sono diventati persino sguaiati) e resa incondizionata al monopolio privato, tra precarietà contrattuale e debolezza sindacale.
I giornalisti affogano nella palude dell’irrilevanza e del conformismo. Ma anche gli editori, soprattutto quelli della “carta stampata”, per inconsapevolezza e per ingordigia, operano per la propria fine. La diminuzione inesorabile delle vendite, una funzione sempre più irrisoria di fronte a più moderni strumenti di comunicazione, un’organizzazione interna feudale, sono davanti agli occhi di tutti, ma nessuno sembra vedere e prenderne coscienza. Ci si accontenta di ridursi a veicolo non più di idee proprie e d’informazioni, ma di libri e cianfrusaglie varie. Risultato? La massiccia distorsione del messaggio informativo, la manifesta commistione – se non addirittura sudditanza – tra il testo redazionale e la pubblicità, l’inconsapevolezza del proprio ruolo. Da qui la caduta verticale dell’autorevolezza dei media e dell’attendibilità dei giornalisti.
7. CINQUE CRITERI PER LA RIFORMA DEI MEDIA
Tra le attuali emergenze democratiche va quindi annoverata anche una vera riforma, legislativa e non, che costruisca le condizioni strutturali sia per garantire la libertà d’informazione sia per fondare i diritti dei lettori-consumatori.
Per essere efficace, essa dovrebbe perseguire cinque criteri:
1 sancire la rilevanza di primario interesse pubblico d’una informazione libera, quale componente necessaria per l’esistenza di una democrazia politica.
2 stabilire che la libertà d’informare non può essere garantita da altro se non da un effettivo pluralismo delle fonti.
3 perseguire la massima separazione possibile tra i poteri della “sfera pubblica”, che va al di là dell’ovvia separazione dei poteri dello Stato.
4 riconoscere al bene “informazione” uno status differente da quello di semplice merce, e quindi costruire per le imprese editoriali una forma di governance con una propria esclusiva tipicità.
5 considerare basilare la presenza del lettore-consumatore tra i protagonisti del processo informativo.
8. DAI TRE POTERI DELLO STATO AI TRE POTERI DELLA “SFERA PUBBLICA”: UN NUOVO SEPARATISMO
Il liberalismo ha inventato un principio che è rivoluzionario, perché si fonda sulla constatazione dell’inevitabilità del potere e della necessità del suo frazionamento; ora si tratta di estendere tale teoria a tutta la “sfera pubblica”, di cui il potere statale non è che una parte e forse la sempre meno rilevante. Solo il potere può frenare gli effetti perversi del potere. Se si considera il potere statuale come un insieme comprendente tutte le funzioni classiche più quelle che si sono aggiunte, come quella amministrativa o quella espressa dalla volontà politica dei partiti, si può immaginare nelle società moderne la complessiva “sfera pubblica“ composta appunto dall’apparato statale, dal potere economico e dal potere mediatico.
In questa accezione la “sfera pubblica“ si identifica piuttosto con la polis, come luogo dove si intrecciano le relazioni e gli scambi dell’agire dei cittadini. Il caso vuole che si riproponga ancora una volta una tripartizione di veri e propri poteri che trovano in se stessi la loro forza. Ma il principio liberale del separatismo perlopiù è stravolto: così più che al legittimo e auspicabile conflitto tra poteri assistiamo al continuo tentativo di ciascun potere di limitare l’altrui autonomia e di sterilizzare la reciproca competitività. La principale caratteristica “viziosa” di questa tripartizione è che tutti e tre i poteri sono fuori dai loro binari.
Le società che amano definirsi democratiche devono finalmente prendere atto di come manchi loro – nella sostanza e nella forma – quella “divisione dei poteri” che un tempo stava alla base d’ogni riflessione liberale. Perciò lo scenario per gli aspetti principali è tornato pre-stato moderno.
Il potere mediatico ha una enorme forza, ma non possiede alcun grado di autonomia, è completamente imbrigliato, e le briglie sono nella mani dell’economia e/o della politica.
Il potere politico ha perduto grosse quote di autonomia, perché incapace di risolvere in maniera drastica il problema della propria autonomia finanziaria e dei condizionamenti connessi. Inoltre, il politico è stretto nella morsa dalla stretta connessione tra potere economico e potere mediatico.
Lo stesso potere economico è fortemente condizionato dalle scelte delle politiche pubbliche.
Le reciproche invasioni di campo sono all’ordine del giorno. Il “politico” sconfina nella comunicazione: saccheggia e asserve reti televisive, si impadronisce di agenzie stampa, fino a qualche tempo fa gestiva – come Stato – persino un quotidiano. Esercita continue pressioni e ricatti sui padroni dei giornali. Da parte loro, gli industriali della comunicazione, da sempre, considerano il ricavo economico un sovrappiù rispetto al guadagno che deriva loro dalla forza di pressione propria dei media usati per ben altro che per informare. Anche i soggetti economici che non possiedono direttamente vettori mediatici controllano e si spartiscono quel “sovrappiù” condizionando i bilanci pubblicitari. Qualche volta lo proclamano sfacciatamente.
Se fosse riconosciuto e perseguito nella pratica politica il principio della separazione di questi tre poteri, il salto di qualità democratica sarebbe enorme. Ma prima bisognerebbe che diventassero consapevolezza di massa i guasti provocati dalla terribile distorsione causata dalla dipendenza delle forze politiche dal finanziamento lecito e illecito dell’apparato economico, i guasti generati dalla informazione eterodiretta, i guasti provocati al mercato dalla burocrazia politica e dai finanziamenti pubblici.
9. I COMPITI DI GARANZIA DI UNO STATO NEUTRALE
Anche il liberista più ossessivo sa che la libertà economica non può essere in contrasto con la libertà tout court, e, qualora lo fosse, dovrebbe farsi da parte.
Se fosse quello dell’informazione solo un diritto sociale, non avrebbe la prevalenza sulla libertà economica. Se, invece, viene messa in discussione la libertà dei cittadini – come nel caso dei media distorti da interessi non propri – è costituzionalmente doveroso liberalizzare uno specifico mercato, spogliandolo di molti aspetti schiettamente economici e disegnando uno statuto che garantisca totalmente, e renda autonomo e ben trasparente, proprio quel suo surplus di potere. L’Informazione deve mettere in parentesi il suo status di merce per potenziare il suo status di bene specifico. Un intervento dell’autorità politica è più che legittimo, perché non va contro né la libertà d’impresa né la libertà d’espressione. La dottrina giuridico-economica prevede la legittimità di “norme proibitive”: «I beni, previsti da norme proibitive, sono resi incommerciabili, e come tali, sottratti al negoziare del mercato. La disciplina può presentare sfumature e gradazioni. […] Qui torna utile d’osservare che la commercialità, cioè la destinazione allo scambio, non è un carattere naturale del bene, ma sempre e soltanto un carattere giuridico» . Tutte queste argomentazioni vogliono dimostrare che è possibile intervenire anche drasticamente con proposte che rimangono ugualmente tutte interne alla logica del privato e del mercato libero. Ci è, infatti, completamente estranea quella logica che individua nello Stato il garante o addirittura il gestore, ridicolo in verità, d’una presunta obiettività o neutralità dell’informazione, secondo una logica antisoggettiva che già tanti danni ha inferto.
10. UN MODELLO PER LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE. PREMESSA
Il nostro modello prevede, per le grandi imprese editoriali, il conflitto concorrenziale tra soggetti privati (non inquinati da alcun rappresentante pubblico) all’interno del mercato. Però “soggetti privati” peculiari e sottoposti a vincoli che perseguono il fine di sottrarli all’influenza di entrambi gli altri due poteri.
Come si può affermare un modello di proprietà-gestione delle imprese di comunicazione che sia radicalmente diverso da quello attuale e che sia tutto ispirato alla separazione tra potere economico e potere mediatico?
Alcuni, sopravvalutando l’insopprimibile carattere industriale ed economico che è parte integrante d’ogni impresa comunicazionale, potrebbero ritenere assolutamente utopistico questo progetto di riforma, anche se, in astratto, concordassero sull’obiettivo di fondo. Eppure qui si indica un’utopia possibile. Nessuno mette in dubbio una componente industriale nei mass media, si pone però l’esigenza di sottolineare le peculiarità dell’industria mediatica e di differenziare i suoi modelli societari da quelli delle altre industrie, perché il fine produttivo e di lucro è comunque assolutamente secondario rispetto alle finalità pubbliche complessive d’un tipo d’impresa che per sua natura è unico. Certo che è difficile. Va a scontrarsi con una concentrazione di interessi che non ha uguali, ma il mondo della politica, se vorrà salvare il suo legittimo potere – legato al suo ruolo – e alla fine una qualche funzione, prima o poi, dovrà comprendere che, invece di scendere di volta in volta a patteggiamenti, ricatti e influenze non trasparenti, ha come unica via d’uscita il perseguimento d’una coerente politica di “separazione”, in grado di mettere ordine liberale in tutta la “sfera pubblica”. Non c’è mercato che non conosca una forte propensione al monopolio, ma i paesi capitalistici dimostrano la loro maggiore o minore capacità di svilupparsi proprio nella maggiore o minore resistenza che sanno opporre alle concentrazioni di potere e nell’affermazione di regole che diano ordine alla democrazia industriale.
Siamo convinti che porre all’ordine del giorno la liberalizzazione dei media incontrerebbe un grande favore presso gli elettori-lettori, al punto che le eventuali perdite economiche (che comunque non ci sarebbero) passerebbero in secondo piano, come avviene solitamente quando si realizzano grandi riforme. Tutti i critici dall’interno del sistema capitalistico non hanno mai smesso di predicare contro le concentrazioni economiche; anzi, più aderiscono a teorie liberiste e più si battono per legislazioni antitrust. Soltanto in Italia vegeta una strana specie di economisti e di politici che si proclama liberista ma si schiera dalla parte del monopolio. Se nella patria del capitalismo più maturo, gli Usa, per esempio, si pose e si cercò di risolvere il problema della separazione tra finanza e industria, vuol dire che il principio separatista liberale settecentesco “funziona” ancora come pietra miliare d’ogni politica che si faccia carico della questione del Potere. Oggi purtroppo non sono molte le voci che si innalzano per gridare allo scandalo contro una concentrazione di potere (somma di potere economico e di potere mediatico) che nel mondo ha portato alla morte ogni libera espressione. Eppure siamo ben oltre allo «sterminato potere» denunciato dal New Deal.
11. LA RILEVANZA PUBBLICA DELL’INFORMAZIONE
La rivoluzione della separazione tra potere economico e potere mediatico può essere garantita solo dalla “pubblicizzazione delle imprese mediatiche”, dove “pubblicizzazione” non sta per “statalizzazione”, ma per riconoscimento della rilevanza (non funzione, mi raccomando) pubblica dell’informazione. Il libero contributo alla formazione dell’opinione pubblica deve essere considerato, non solo sui manuali ma nella realtà, fondamentale e clausola necessaria affinché una democrazia possa definirsi tale.
Un’avvertenza è necessaria: certamente perseguiamo una formazione più libera della pubblica opinione, ma ugualmente temiamo, insieme con Tocqueville, “la tirannia dell’opinione”, non essendoci mai passato per la testa che l’opinione dei molti sia di per sé più valida di quella dei pochi. Il nostro obiettivo è di stampo riformatore. Vorremmo che l’opinione pubblica fosse non mitizzata, ma avesse più strumenti critici e fosse meno vittima e condizionata da interessi alieni. Soltanto questo, ma non è poco.
Basta che si prevedano effettivamente la fuoriuscita dell’impresa mediale dall’unica dimensione dello scambio di merci e la sterilizzazione d’ogni controllo economico. Qui si propone un modello che risponde al principio che la proprietà d’un giornale deve essere di chi ci lavora e dei suoi lettori.
La soluzione, più volte avanzata, della formula della public company è assolutamente la peggiore, proprio perché il suo elemento caratterizzante è la contendibilità del controllo. Un giornale (o qualunque altro vettore mediatico) gettato sul mercato e quotato in borsa soffre di tutti i difetti che comporta il padrone unico, in più subisce quelli della maggiore precarietà e della minore trasparenza della proprietà.
La separazione si realizza con la formazione di “pseudo-public companies”, cioè di società prive di azionisti di riferimento e non scalabili dall’azionariato. La pseudo-public company è definita «un modello in cui, come nella public company, il controllo è esercitato da un soggetto che dispone di una quota limitata o nulla del capitale e la proprietà è diffusa, ma che, a differenza della public company, non prevede la possibilità di ricambio del controllo contro la volontà di chi lo esercita» . L’esempio riportato in proposito dalla letteratura specializzata è quello delle tre Grossbanken tedesche (Deutsche Bank, Dresdner Bank e Commerz Bank), nelle quali il controllo è esercitato dal management. Le qualifica, come abbiamo visto, il carattere non contendibile del loro controllo.
12. LE DIFFICOLTA’ CHE INCONTRA IL MODELLO, POSSIBILI SOLUZIONI
Adottando questo modello di liberalizzazione, la volontà politica riformatrice opererebbe contro soggetti (gli attuali proprietari) fortemente contrari e risoluti a non accettare ciò che avrebbero l’interesse di dipingere come una vera e propria espropriazione. Ma che espropriazione non sarebbe, perché la trasformazione in pseudo- public company dovrebbe essere garantista dell’attuale valore economico del bene. La mano pubblica, interessata a un riequilibrio dei poteri e allo stabilimento d’una vera libertà d’espressione, può influire, porre limiti, condizionare in molti modi. Dovrebbe dare inizio gradualmente a un percorso dichiaratamente tutto indirizzato non all’acquisizione in proprio del bene, bensì alla creazione progressiva di società private sempre più autoreferenziali. Lo strumento principale è una legislazione antitrust.
Il primo provvedimento, il più importante, impone il vincolo alle proprietà attuali in tutto il settore mediale (carta stampata, televisione, altre forme di comunicazione) di possedere un solo vettore in ciascuna area produttiva: un solo quotidiano, una sola rete televisiva, un solo portale in Internet, ecc.. Questa misura ha lo scopo di non deprimere le sinergie che obiettivamente si instaurano tra i diversi campi, ma impedisce all’interno di ogni settore la formazione di posizioni dominanti. L’eccedenza andrebbe ceduta in forme e modi indirizzati dalla normativa.
Il secondo provvedimento introduce l’obbligatorietà della quotazione in Borsa. C’è da domandarsi: come sarebbe l’accoglienza, nel più tipico luogo del mercato, di un bene che certamente è orientato verso obiettivi che esulano dallo scambio economico? La conoscenza del punto d’arrivo (la pseudo-public company) non scoraggerebbe, infatti, né la partecipazione dell’azionariato diffuso né l’intervento degli investitori istituzionali (le compagnie di assicurazione, i fondi comuni d’investimento e i fondi pensioni). Il primo, l’azionariato, pur sapendo di non poter che essere “nominativo” e di non poter incidere sul controllo potrebbe sentirsi persino più attratto da un assetto finale che, rendendo l’azienda editoriale davvero “pura” (o meno “impura”), sarebbe maggiormente garantito rispetto alle intemperie politiche e alle avventure più o meno spregiudicate d’un capitano d’industria. Con conseguente, inevitabile, valorizzazione del bene. Per i secondi, la letteratura specializzata è rassicurante, perché sostiene che la presenza (anche solo in prospettiva) d’un controllo intoccabile e predeterminato non sposta le opzioni degli investitori istituzionali, giacché «il profilo dell’esercizio di voto da parte degli investitori istituzionali è stato spesso ritenuto del tutto secondario, poiché, secondo una diffusa convinzione, questi ultimi (proprio perché interessati unicamente alla massima valorizzazione dei titoli detenuti e caratterizzati da un’elevatissima diversificazione del portafoglio) sarebbero interessati non a intervenire nella gestione delle imprese, ma unicamente a valutare dall’esterno l’andamento della gestione, il corso dei titoli ed eventualmente a disinvestire la propria partecipazione».
Terzo provvedimento: immissione di limiti al possesso azionario. Per la privatizzazione in Italia questa norma è stata decisiva, come lo è per ogni politica a favore delle public companies: «Attraverso la determinazione di una soglia massima nella consistenza delle partecipazioni dei singoli azionisti si punta ad impedire una stabile acquisizione del controllo da parte di un singolo soggetto o di un gruppo di azionisti, legati da patti parasociali o comunque dall’esistenza di rapporti di alleanza imprenditoriale (testimoniati dall’esistenza di un patto in società terze), ciascuno dei quali rimane al di sotto del tetto. L’obiettivo è quello di realizzare una polverizzazione dell’azionariato nel presupposto che l’assenza di azionisti di riferimento costituisca elemento propedeutico per lo sviluppo d’una public company» . Ricordiamo che anche il programma governativo di riordino delle partecipazioni pubbliche del 1992 indicava nella formazione d’un azionariato diffuso uno degli obiettivi principali delle procedure di privatizzazione. Un’altra misura limitativa più audace è la proibizione per gli azionisti d’una società mediale, con una quota consistente, di possedere partecipazioni di rilievo in altre società di qualunque tipo. E, ovviamente, qualunque forma di partecipazione incrociata. Questo passo non si pone l’obiettivo di creare la figura dell’editore “puro”, cioè non impegnato in iniziative industriali in altri campi (figura che consideriamo fasulla e che in ogni caso giudichiamo inutile), ma vuole avere un valore dissuasivo, per favorire la fuoriuscita da tutto il settore mediatico di una concezione padronale.
Dopo questi tre provvedimenti, si passa dalla fase “distruttiva” dell’attuale sistema a quella “costruttiva” del nuovo.
Per riassumere: la nuova società mediale tipo può possedere un solo vettore in ciascun canale della comunicazione; la sua struttura societaria è quella di una pseudo public company; della public company ha alcune caratteristiche come la quotazione in Borsa e l’obiettivo d’un azionariato diffuso; è gestita nella parte industriale dal management e nella parte editoriale dai giornalisti, tuttavia fuoriesce dal modello della public company in quanto la gestione è autoreferenziale (nel senso che risponde esclusivamente agli investitori per gli aspetti patrimoniali e ai lettori per gli aspetti giornalistici), non è contendibile e non fa capo ad azionisti di riferimento. Il modello deve salvaguardare anche, nella fase iniziale d’attuazione, quella che è definita “efficienza della dismissione” e, quindi, bisogna tendere alla “massimizzazione dei profitti dell’alienante”, il quale deve essere ricompensato equamente del progressivo abbandono del bene. Probabilmente l’abbassamento di valore normalmente causato da un grado più o meno alto di forzosità nella vendita verrebbe alleviato dalla gradualità di tutta l’operazione. E, poi, come escludere addirittura un effetto molto positivo scaturito dal clima di novità e dall’impreziosimento del bene provocato dal nuovo assetto, che potrebbe trovare nell’azionariato popolare un incremento d’interesse? Operando su questi margini, si può recuperare la possibilità di distribuire al management e ai professionisti della nuova società liberalizzata una quota di azioni, anche minima, in grado di formare un nucleo stabile non contendibile, né cedibile.
Va da sé che, accanto a questo modello valido per la grandi imprese editoriali, dovrebbero coesistere, per la varietà dei vettori informativi e delle loro dimensioni industriali, formule-quadro differenti, tutte ispirate ai cinque criteri generali prima enunciati.
Come avviene per le public companies tradizionali, la nuova impresa mediale deve rispondere ad alcuni requisiti “quadro” e a uno Statuto d’impresa in grado di garantire, di fronte ai lettori e all’azionariato, efficienza e vera autonomia. Il Consiglio d’amministrazione, espressione del nucleo stabile, rappresentativo dunque del management e delle maestranze da un lato, e dei giornalisti dall’altro, è distinto in due parti: una parte manageriale, con i normali compiti amministrativi, e un Consiglio editoriale.
Si potrebbe obiettare che questo modello è troppo statico. La scarsa dinamicità del vettore costituisce un handicap nemmeno lontanamente paragonabile all’assenza di indipendenza, ma comunque è limitativo dell’efficienza. Con un po’ d’immaginazione, però, si può concepire un management non intoccabile. Ugualmente, si possono escogitare alcune clausole per rendere più mobile il corpo redazionale. Per esempio, il contratto giornalistico individuale potrebbe essere a termine (decennale e rinnovabile) e non più a vita come adesso. Oggi, assai giustamente, i giornalisti rifiutano ogni limitazione temporale e ogni mobilità, perché se cedessero su questi due punti, ora che il mercato è oligopolistico e fermo, darebbero alle attuali Proprietà l’ulteriore definitiva arma di ricatto e di asservimento. Al contrario, in un contesto liberalizzato e con la scomparsa della controparte proprietaria, potrebbe essere accettata una mobilità in grado di rendere molto più fluido l’intero settore. D’altronde l’attuale sistema di garanzie è già completamente in demolizione con l’affermarsi di una pratica massiccia di lavoro nero, precario, a tempo determinato.
13. LA SOLUZIONE B. IL MOTU PROPRIO
Ricordiamo che la storia ci insegna che proposte contro interessi costituiti che apparivano assolutamente indistruttibili si sono fatte avanti e hanno raggiunto i loro obiettivi. Si è disgregato lo stato assoluto. Sono state abolite la schiavitù e la tortura. Uguale destino toccherà alla pena di morte. Hanno conquistato i loro diritti le donne. Si è sciolta persino l’IRI... Quindi non si può escludere che la necessità d’essere liberi di comunicare e d’essere informati, pressante e conculcata com’è, non faccia progredire e portare a compimento progetti come quello fin qui disegnato, progetto che ora può essere giudicato chimerico come lo furono tutti quelli citati sopra. Ma ogni politica riformatrice ha il dovere di presentare sempre una sua Soluzione-B, basta che questa faccia fare passi sulla stessa strada e inveri gli stessi princìpi. L’obiettivo rimane sempre il medesimo: separare la proprietà dei media dalla gestione giornalistica.
La soluzione della pseudo-public company è drastica. Ve ne sono altre più tenui che conserverebbero l’attuale sistema proprietario, ma lo subordinerebbero a regole tassative già previste in altri settori.
Se si parte dal presupposto dell’irragionevolezza e della perversità di una commistione tra poteri diversi, la non separazione tra una parte del potere economico e il mondo dell’informazione mette in atto il più classico e il meno denunciato dei conflitti d’interesse.
Con l’eccezione vistosa dell’Italia, sono state inventate delle regole che in taluni casi rispondono (anche se non perfettamente) alla necessità di tenere distinta la proprietà dalla sua gestione. Ugualmente, una rigida politica anti-trusts potrebbe frantumare i colossi informativi e portarli a dimensioni concorrenziali reprimendo accordi di cartello tra editori o stabilendo soglie alle concentrazioni molte più basse delle attuali.
Gli stessi proprietari, se badassero – come sostengono – solo al ricavato economico, potrebbero avviare essi stessi un percorso riformatore delle loro aziende che ridimensionerebbe il loro potere “secondario” ma aumenterebbe molto i proventi economici, perché la nuova impresa sarebbe molto più apprezzata dagli azionisti e dai consumatori. Non avverrebbe in tal caso l’auspicata demercificazione dei media, ma almeno sarebbero ridotti i danni collaterali. Già Luigi Einaudi sostenne che «gli attuali proprietari [dei giornali] hanno interesse a rinunciare a diritti, di cui sono destinati fatalmente ad essere spogliati, se vogliono salvare quel che più dovrebbe ad essi premere, ossia il frutto economico della loro impresa. Aggiungasi che essi si dovrebbero persuadere della convenienza di siffatta abdicazione» . Sono passati quasi cento anni da quando i proprietari del “Times” e dell’“Economist” di Londra abdicarono spontaneamente al loro potere assoluto di scelta dei direttori ed escogitarono lo strumento di un comitato di fiduciari (Board of trustees). Si domandò Einaudi: «Perché dovrebbero i proprietari dei maggiori giornali italiani vedere in questa restrizione un vincolo dannoso, laddove esso sarebbe invece garanzia sicura di prosperità dell’impresa?» . La risposta è semplice: nel nostro paese la classe imprenditoriale è assai arretrata e mediocre, e non si dedica esclusivamente all’interesse aziendale. Addirittura gli attuali editori sono più antiquati dei loro predecessori di alcune generazioni fa, che con il “direttore-gerente” regalarono al giornalismo italiano una breve fase di grande dignità.
Per attuare la Soluzione-B, data la rilevanza pubblica del pluralismo informativo, le politiche pubbliche dovrebbero:
a) prevedere cospicue provvidenze pubbliche condizionate alla scelta autonoma dei possessori di imprese editoriali a sciogliere il loro conflitto d’interessi attraverso il conferimento a un terzo delle quote detenute nelle stesse, mediante un “negozio fiduciario” non revocabile o con un blind trust. Il dibattito politico in Italia su questi istituti di garanzia e di separazione è fuorviante perché condizionato dall’andamento delle paradossali esperienze contingenti, ma non è legittimo spogliare di valore tutti gli istituti e le regole che la dottrina giuridica ha escogitato o potrà escogitare per raggiungere – anche parzialmente – il fine predetto. Comunque, sarebbe un passo rivoluzionario rispetto alla situazione attuale.
b) applicare una severa legislazione anti-trust comprendente regole già previste per la proposta A: ossia, il vincolo alle proprietà attuali in tutto il settore mediale (carta stampata, televisione, altre forme di comunicazione) di possedere un solo vettore in ciascuna area produttiva; l’obbligatorietà della quotazione in Borsa e nominatività delle azioni; limiti al possesso azionario impedendo il possesso di più di una centesima parte del capitale sociale, fino a raggiungere l’obiettivo di un azionariato diffuso, semmai collegando l’acquisizione di azioni a una politica innovativa verso il lettore-consumatore.
c) pretendere il rispetto integrale dell’attuale legislazione sulla stampa, in parte inapplicata, facendo osservare i diritti già acquisiti dai lettori e incrementandoli con norme sulla trasparenza delle proprietà, dei bilanci e dei processi decisionali, nonché sul diritto di rettifica e di difesa della propria onorabilità e della propria versione dei fatti.
d) ridefinire il rapporto tra pubblicità e prodotto redazionale, sanzionando severamente l’attuale commistione generalizzata, che costituisce nello stesso tempo una grave truffa verso il lettore e una delle cause non secondarie dell’attuale degrado e dell’inattendibilità della comunicazione.
Se perseguissero lo scopo di accrescere l’incidenza, l’autorevolezza e il valore materiale delle loro imprese, i proprietari – senza attendere una legislazione costrittiva – dovrebbero avviare autonomamente una riforma indirizzata alla massima trasparenza e alla responsabilizzazione piena dei diversi e distinti ruoli, attraverso:
a) un nuovo Statuto d’impresa, che preveda una separazione netta tra gestione industriale e gestione giornalistica, affidando quest’ultima a un Consiglio editoriale composto
– da membri permanenti come gli ex Direttori del giornale, i più autorevoli e antichi collaboratori e alcuni garanti cooptati dal Consiglio stesso per l’autorevolezza e l’indipendenza che viene loro riconosciuta;
– da membri temporanei come il Garante dei lettori, i rappresentanti del corpo redazionale e – perché no? – personalità scelte nella società civile per il loro momentaneo ruolo di prestigio (per esempio, il Rettore dell’Università locale, ecc.). Il Direttore della testata è nominato dal Consiglio editoriale, riceve un mandato che dura un numero prefissato di anni, non può essere riconfermato ed è rimosso soltanto se una maggioranza qualificata del Consiglio editoriale riconosce il venire meno di standard quantitativi e qualitativi predefiniti già nello Statuto dell’impresa. Il Direttore, per essere all’altezza di questo compito, deve poter decidere le assunzioni (ora può solo proporle), nonché utilizzare effettivamente tutti i poteri che già gli vengono attribuiti, ma solo formalmente, dall’attuale contratto nazionale di lavoro giornalistico (art. 6), come quelli di «fissare e impartire le direttive politiche e tecnico-professionali del lavoro redazionale, stabilire le mansioni di ogni giornalista». Ogni anno il Direttore, per le spese redazionali, è dotato di un budget preventivo adeguato all’andamento economico aziendale. Naturalmente il potere del Direttore è riequilibrato dai diritti ormai acquisiti dalle redazioni. Oggi la gran parte di questi poteri sono completamente svuotati dagli «accordi tra editore e direttore».
b) la nomina di un “Garante dei lettori”, scelto periodicamente dai lettori (per esempio, dagli abbonati) in una rosa di ex-giornalisti della testata, il quale è slegato da vincoli gerarchici con la struttura del giornale e dotato di uno spazio autonomo e non sindacabile, in cui ogni settimana possa scrivere il proprio parere sull’informazione offerta dalla “testata” e sulle osservazioni del pubblico.
c) l’introduzione nel contratto giornalistico di norme deontologiche riguardanti sia i giornalisti sia l’amministrazione.
14. I DIRITTI DEI LETTORI E LA CORPORAZIONE DEI GIORNALISTI
Nessuno mai ha pensato a garantire i diritti dei lettori. Eppure sono consumatori di una merce ben più delicata di altre, perché condiziona la salute mentale e democratica. Il lettore oggi non ha che pochissime guarentigie sul prodotto che acquista e quelle poche sono disattese. Ugualmente il lettore non viene informato di come si forma nel “suo” giornale il processo informativo, e scarse sono le difese di legge contro le prevaricazioni ch’egli crede di subire. Forse basterebbero poche regole per sanare i guasti più visibili:
a) Abolizione dell’obbligatorietà dell’Ordine dei giornalisti. Quindi, cessazione dei suoi privilegi corporativi. Come scrisse Einaudi, «l’albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero» . Ovviamente a tutti i cittadini dovrebbe essere permesso la fondazione e la direzione di un qualunque organo d’espressione del pensiero, senza alcun bisogno né di particolari qualifiche personali né di registrazione né di autorizzazioni della testata (in qualunque modo sia diffusa). D’altronde, l’attuale Ordine obbligatorio non è in grado neppure di far osservare le minime norme deontologiche e sanzionare adeguatamente le irregolarità più vistose. Se vogliono conservarsi un proprio Ordine, i giornalisti devono saper rinunciare alla sua obbligatorietà e ai privilegi connessi.
b) Obbligo per ogni pubblicazione di un certo rilievo di dotarsi di uno Statuto che detti le regole di comportamento interno. Questo Statuto è reso pubblico e ogni sua violazione può essere sollevata in giudizio da parte del redattore e del lettore.
c) Ugualmente, in permanenza dell’Ordine così com’e oggi, sarebbe un segno deontologicamente significativo la trasformazione dell’attuale bipartizione tra giornalisti professionisti e giornalisti pubblicisti in una tripartizione che comprendesse anche i giornalisti comunicatori.
d) Divieto di assunzione nei giornali di giornalisti che negli ultimi tre anni hanno svolto attività in uffici stampa, agenzie di pubblicità, uffici di consulenza e di relazioni pubbliche. E viceversa, per il principio di reciprocità, divieto di assumere, in detti uffici, giornalisti che abbiano lavorato in una redazione durante gli ultimi tre anni. Di norma, nei giornali dovrebbero essere assunti giornalisti professionisti e negli uffici stampa giornalisti comunicatori, ma oggi la distinzione tra le due carriere non viene tenuta in alcun conto, con grave danno di entrambe le categorie e con una penalizzazione irrimediabile della correttezza dell’informazione.
e) Incompatibilità assoluta tra il lavoro presso la redazione di una testata giornalistica e qualsivoglia altro impegno professionale, anche non formalizzato.
f) Dichiarazione pubblica sottoscritta all’atto dell’assunzione e ripetuta periodicamente, contenente l’elenco delle associazioni politiche, parapolitiche o comunque inerenti alla sfera degli interessi giornalistici, a cui il giornalista aderisce.
g) Effettiva applicazione di tutta la disciplina del sistema dell’informazione, a partire dall’art. 21 della Costituzione (anch’esso non osservato). Torniamo al codice civile e al codice penale. Non c’è nulla di peggio d’una norma non fatta valere e caduta silenziosamente nel dimenticatoio della desuetudine. Analogamente sono inutili tutte le “grida“ deontologiche sprovviste di sanzioni vere.
h) Introduzione di queste regole nel Contratto nazionale di lavoro giornalistico. Si conosce bene l’interesse degli Editori ad avere dei dipendenti “ricattabili” e quindi predisposti al servilismo; per questo è necessaria un’assunzione di responsabilità collettiva sulla deontologia.
i) Eliminazione delle incongruenze più visibili della “normativa rinnegante”. Il caso più grave è la contraddizione limitativa del segreto professionale per i giornalisti: l’art. 200 del codice penale sul segreto professionale con una mano estende questo diritto ai giornalisti e con l’altra glielo toglie..
j) Forte attenuazione delle conseguenze civili e penali della “diffamazione” per mezzo stampa. Dal 1984 la Corte di Cassazione ha separato, in materia, il procedimento penale dal procedimento civile. Da quel momento gli italiani, dato che tengono moltissimo al loro onore, se lo restaurano in sede civile, chiedendo un risarcimento milionario e disinteressandosi di pretendere una condanna in sede penale. Si è reificato l’onore. Spesso le somme reclamate sono enormi e la richiesta ha il solo scopo d’intimidazione.
15. CONCLUSIONI. LA NASCITA DI ****, COMITATO PER LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE
Proponiamo la costituzione di un Comitato permanente per la libertà d’informazione tra coloro che hanno a cuore le sorti di quella che Kant definiva “libertà di penna”, e che intendono discutere ed avanzare progetti di riforma ispirati ai principi e ai criteri esposti in questo “Libro Blu”. Ma il Comitato non si limiterà a un’azione di testimonianza e di analisi, ma sarà impegnato anche in azioni concrete di denuncia contro le violazioni continue, e ormai tollerate da tutti, della legislazione attuale. Il Comitato si ispira alla “Société des Amis de la liberté et de la presse” che sorse in Francia nel novembre del 1817. Vi aderirono personaggi come Benjamin Constant, Achille de Broglie, Paul-Louis Courier, Jean-Baptiste Say, che, con un’attività frenetica fatta di appelli, petizioni, lettere e sottoscrizioni per pagare le multe con cui erano penalizzati i giornali d’opposizione, seppero influenzare la riforma della legislazione sulla stampa. Quell’esperienza fu storicamente importante, perché per la prima volta alcuni cittadini si organizzarono in associazione per battersi sul tema della libertà dell’espressione del pensiero, dimostrando di comprendere che quella era un’epoca – com’è anche l’attuale - in cui assumeva un rilievo strategico. Il Comitato è “partiticamente” non schierato e si rivolge a quanti in tutto l’arco dello schieramento politico e ideale sono preoccupati per le miserevoli condizioni dell’informazione stampata e televisiva. Il Comitato, che si accrescerà per cooptazione e dove la presenza di giornalisti non potrà superare un terzo dei componenti, si doterà di un ufficio legale. Il Comitato raccoglierà anche aderenti.
[Enzo Marzo]
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