La memoria oggi
Quel che appare essenziale oggi, parlando di memoria, è sottrarre questo aspetto della vita umana, della storia, della cultura alla monumentalizzazione ed ai rituali. La memoria come cosa viva, fonte di riflessioni e di insegnamento, riserva cui attingere per ogni amore del presente e per ogni progetto sul futuro.
Memoria vuol dire avere in ogni istante la consapevolezza bruciante che le vittime sono nostre, appartengono alla nostra storia. Che gli esiliati, i deportati, gli offesi, gli uccisi di ieri e di oggi fanno parte del nostro continente, perché nessun uomo è un’isola, dice il poeta Memoria significa aver cura di ognuno, di ogni singola storia, di ogni storia collettiva, rifiutando la banalizzazione, la assimilazione, le equiparazioni volgari ed i paragoni antistorici, gridati e un po’ beceri. Rifiutando chi sostiene che le ragioni di tutti, in realtà, erano sullo stesso piano. Cito una frase di Enrico Deaglio: “[oggi] … hanno corso versioni «cordiali» del fascismo. Nuove maledizioni a sinistra del sionismo. Gravi tentativi istituzionali di parificare il «servizio» di repubblichini e resistenti. E continue ripulse del fondamento antifascista della Repubblica”.
Penso ad alcune storie, scelte tra le mille possibili. Quella di Boris Pahor, autore di “Necropoli”, un libro straordinario sulla sua esperienza di deportato nel Lager di Natzweiler-Struthof, sui Vosgi. Il triestino Pahor, resistente antifascista, torna a visitare il campo e osserva un operaio che cambia alcune assi marcite di una baracca dei prigionieri. “Il mio animo si ribellava a quelle toppe bianche frammiste alle assi annerite, dilavate e consunte; non tanto per il colore, perché sapevo che quell’operaio avrebbe ridipinto le nuove assi rendendole uguali alle vecchie; semplicemente non potevo sopportare la presenza di quei pezzi di legno grezzo piallato di recente. Era come se qualcuno cercasse di inoculare cellule fresche e viventi in un putridume morto … Ero per l’intangibilità della dannazione. Ebbene, ora non riesco più a distinguere i pezzi aggiunti; il male ha fagocitato le nuove cellule impregnandole col suo putrido succo”.
Vivere a contatto con il male, con le cattive idee, con le parole dell’odio, con le azioni di chi isola, di chi emargina, di chi offende e violenta - impregna di sé tutto. Se si accetta di convivere con questo male, senza la forza della ribellione, senza rifiutare paura e conformismo, tralasciando la riflessione, l’assunzione di responsabilità, il Selbstdenken di Hannah Arendt – il pensare da sé, prendersi la responsabilità di pensare da sé – si rimane esposti alla fagocitazione del male. Senza ancorarsi nella responsabilità, l’uomo comune, il bravo padre di famiglia giunge al crimine inaudito.
Il crimine che distrugge corpi e civiltà. Selma Meerbaum-Eisinger fu una poeta, morta a 18 anni di stenti e di tifo nel campo di Michailowka. Era nata a. Czernovitz, in Bucovina: città che ospitò molti poeti e pensatori di lingua tedesca tra cui Rose Ausländer, Paul Celan, e la stessa Selma. Un luogo di incrocio di etnie , lingua, culture diverse. “Eine kleine Wien”, una piccola Vienna, diranno i pochi superstiti. Un panorama culturale ricco e vario, che fu distrutto dalla furia nazista e mai ricostituito. L’annientamento delle persone fu un annientamento di civiltà, che mai potrà essere restituita. Per questo si parla di offesa immedicabile. Risuonano le parole di Simone Weil, quando narrava la distruzione della civiltà occitanica: l’impero della forza è grande.
Nel febbraio del 1941 – la Germania nazista sembrava invincibile – Selma, che aveva 17 anni, scrive un’ode alla gioia. Scrive della primavera: una gazza canta, il sole risplende, il ghiaccio si rompe .. . e tutto, dice Selma, è consumato dalla gioia. Di lì a poco, la deportazione e la morte.
Per lei, e per tutti coloro che sono stati annientati, risuonino le parole della preghiera: “che le loro anime si leghino ai vivi”.
Paola Meneganti
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