sabato 17 gennaio 2009

Benedetto Vecchi: Un lavoro senza confini

Un lavoro senza confini
Data di pubblicazione: 16.01.2009

Autore: Vecchi, Benedetto

“Il legame tra globalizzazione e movimento operaio”. Una riflessione a partire da un regente saggio della sociologa Beverly Silver. Il manifesto, 16 gennaio 2009



Un'analisi preziosa quella di Beverly Silver. Frutto di un lavoro più che ventennale di raccolta dati e di comparazione tra realtà nazionali, questa studiosa statunitense giunge alla conclusione che la vulgata sulla scomparsa della classe operaia è una cortina fumogena per occultare la realtà di sfruttamento che caratterizza l'economia mondiale. Allo stesso tempo, Beverly Silver sostiene che anche negli Stati Uniti e in Europa non è scomparso il conflitto operaio, semmai mutano le figure produttive che ne sono le protagoniste. Al posto degli operai delle imprese automobilistiche o dei minatori possiamo intravedere, a Varsavia come a Parigi, a San Diego come a New York, a Roma come a Madrid, la silhouette dei lavoratori dei servizi, della formazione, dei trasporti, delle pulizie.

Il pregio del saggio Le forze del lavoro (Bruno Mondadori, pp. 292, euro 29) sta quindi nel contestare i luoghi comuni che hanno recentemente marchiato lo studio del movimento operaio, facendo discendere dalla perdita di potere del sindacato la legge aura sulla residualità della lotta di classe nel capitalismo contemporaneo. Con l'aggiunta che la comprensione della globalizzazione economica passa attraverso la costruzione di una mappa dei conflitti della forza-lavoro.

Ascesa del made in Usa

La tesi della studiosa statunitense è presto riassunta riassunta. La spinta propulsiva del capitalismo non va cercata nella sua capacità di organizzare al meglio la produzione, bensì nel conflitto operaio che costringe le imprese a innovare continuamente il processo lavorativo, sia dal punto di vista del sistema di macchine che del flusso del processo produttivo stesso. Lo spostamento di baricentro dell'economia mondiale dall'Inghilterra agli Stati Uniti è stato dovuto soprattutto al fatto che le imprese made in Usa hanno fatto proprio l'insegnamento derivante dall'aspro conflitto di classe al di là dell'Oceano e innovato le forme di relazione con la classe operaia, giungendo a quella organizzazione scientifica del lavoro che doveva preservare la società statunitense dal conflitto operaio. Per fortuna che la storia non ha seguito il corso ipotizzato dai manager di Chicago: i primi vent'anni del Novecento sono infatti costellati da forti conflitti operai nelle imprese statunitensi, senza per questo sminuire cosa accadeva nel vecchio continente tra Berlino, Torino, Manchester e Mosca. Da qui al nesso evidente tra le trasformazioni nell'economia-mondo e conflitto operaio.

Il capitalismo globale muta infatti al ritmo del conflitto di classe. Detto in termini più che sintetici, le imprese statunitensi, negli anni Sessanta e Settanta, cominciano a indirizzare i propri investimenti diretti all'estero verso quei paesi dove è assente un movimento operaio organizzato. Lo stesso faranno, da lì a poco, le «sorelle» europee. E questo per due motivi: da una parte il basso costo della forza-lavoro nei paesi «ospiti»; dall'altra la preventiva disponibilità di quei governi «amici» a reprimere ogni tentativo di organizzare un movimento sindacale degno di questo nome.

Declino del Sol levante

L'economia capitalista è tuttavia innervata anche di competizione. E può quindi accadere che imprese giapponesi, coreane, thailandesi, malaysiane, filippine crescono perché fortemente insediate in paesi con una forte tradizione autoritaria e antioperaia. Il successo del made in Japan e, attualmente, della Cina e dell'India vanno cercati proprio in questa disponibilità del potere politico a stabilire le condizioni necessarie e sufficienti allo sviluppo di imprese che non contemplino la presenza di una classe operaia organizzata.

Il conflitto operaio può certo essere sconfitto, ma è però come l'araba fenice: risorge sempre, anche dove meno te lo aspetti. Da questo punto di vista i dati forniti da Beverly Silver sono impressionanti. Con puntigliosità ha infatti raccolto, assieme a altri, i dati della presenza di conflitti operai nei paesi capitalistici. Ne emerge un affresco di un'economia mondiale costellata da scioperi, rivolte e insurrezioni operaie, tanto nel Nord che nel Sud del pianeta, in Europa come negli Stati Uniti, in Asia come nei paesi dell'ex-socialismo reale.

Un altro elemento significativo dell'opera di Beverly Silver è il rifiuto di individuare un settore specifico della forza-lavoro come elemento trainante del conflitto di classe. Con realismo, infatti, la studiosa afferma che il conflitto può coinvolgere operai delle fonderie, minatori, delle imprese automobilistiche, ma anche dei trasporti e dell'istruzione, a seconda della centralità o meno di ognuno di questi ultimi settori nel «regime di accumulazione capitalistico» globale o nazionale. Un'innovazione da valorizzare rispetto a quanti continuano a sostenere che si può parlare di classe operaia solo se i suoi «componenti» indossano o meno una tuta blu.

Se il saggio di Beverly Silver fosse però solo come una ricostruzione storica dei conflitti operai dal 1870 perderebbe il contenuto problematico rispetto al presente. Le parti più «incompiute» sono quelle più interessanti, in particolare quelle in cui la studiosa analizza le possibilità di autorganizzazione di una forza-lavoro dispersa e frammenta. Interessanti, e propedeutici a futuri sviluppi analitici, sono le parti in cui Beverly Silver parla degli scioperi che hanno coinvolto gli insegnanti e i lavoratori dei servizi tanto negli Stati Uniti, che in Europa che in Asia. Forza-lavoro fortemente diffusa nel territorio, sfuggente, all'interno della quale svolge un ruolo importante la «linea del colore», come per i lavoratori dei servizi, o di un contenuto «intellettuale», come per gli insegnanti. E dunque forza-lavoro paradigmatica di quelle difficoltà nell'organizzare il conflitto sociale e di classe nel capitalismo contemporaneo. Uno dei limiti del libro è da rintracciare semmai nella sottovalutazione che hanno i cosiddetti «knowledge workers» nei timidi conflitti che hanno contraddistinto il capitalismo statunitense nell'ultimo decennio. Una lacuna da colmare proprio in questa fase di recessione economica, dato il carattere rilevante della produzione hig-tech nel capitalismo contemporaneo.

La talpa che scava

Nel saggio ci sono comunque importanti accenni alla necessità di «sindacati metropolitani», ma sono solo brevi note per un necessario lavoro di ulteriore inchiesta. Frammenti di analisi che tuttavia illustrano bene la posta in gioco. La dimensione dispersa, eterogena, multinazionale della forza-lavoro costituiscono tanto una ricchezza che un nodo da sciogliere. Una ricchezza perché sottolinea l'impossibilità di una ricomposizione «dall'alto» della forza-lavoro, evidenziando così la sua irriducibilità ai dispositivi di controllo messi in atto tanto dalle imprese che dal potere politico nazionale; ma anche come effetto miserabile di quegli stessi dispositivi di controllo.

Un nodo da sciogliere perché finora le rivolte e i conflitti di una forza-lavoro frammentata non riescono a modificare in profondità i rapporti di forza nella società. L'indicazione di un «sindacato metropolitano» è da considerare quindi solo come un forma organizzativa transitoria a un «altro» ancora difficile da definire. Sapendo però che nel frattempo la talpa continua a scavare con metodo e pazienza.

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