venerdì 19 settembre 2025

Roberto Biscardini: Milano, la questione urbanistica

MILANO, LA QUESTIONE URBANISTICA Ridateci Fanfani e i sindaci socialisti di Roberto Biscardini Ridateci Fanfani, Ministro del Lavoro del Governo De Gasperi nel 1949, ed i sindaci socialisti che hanno governato per decenni a Milano con lungimiranza e buon senso. Riusciremo così a dare una casa popolare a chi non ce l’ha e a chi non ha i soldi per comprarsene una. Riusciremo a ridare a Milano, non un modello per soli ricchi, ma quell’anima che fece Milano unica non solo in Italia, ma anche in Europa: una città per tutti aperta ed accogliente, una città delle opportunità, che consentiva a chi veniva qui di trovare lavoro e di avere un reddito con il quale poteva sperare di acquistare una propria abitazione, mettere su famiglia, ma soprattutto usufruire di servizi pubblici efficienti e di qualità; trasporti, sanità, istruzione e cultura. Una città ricca per tutti, non ricca per i soli ricchi. Come è stata trasformata negli ultimi decenni secondo un modello costruito concretamente, e nell’immaginario collettivo, nella comunicazione, per non essere più la città inclusiva di un tempo, ma semplicemente una città ricca. La città che attraeva più capitali finanziari che persone, con l’ambizione di essere la città più ricca di Europa. La patria del “Bengodi”. E così è stato. Le ultime giunte (a trazione PD) ed in particolare le giunte Sala, hanno costruito questa immagine e questa drammatica realtà. Una città non più attrattiva e delle opportunità. Non più attrattiva nemmeno per gli studenti, per i quali studiare qui è molto più costoso che farlo a Londra, a Monaco o a Berlino. E non è più giusta nemmeno nei confronti dei tanti abitanti dei comuni dell’hinterland, e dell’area urbana lombarda che avevano in Milano, come ha scritto più volte l’architetto Giorgio Goggi “un patto sociale che si è rotto”. “Un patto sociale tra la città e i suoi cittadini, non solo milanesi, ma anche e soprattutto con gli abitanti di tutta la regione urbana milanese-lombarda, che non sono mai stati solamente city-users, ma partecipanti a pieno titolo di questa cittadinanza allargata. Il patto consentiva, e consente ancora, ma con maggiori limiti, agli abitanti della città metropolitana di operare con le stesse prerogative della città centrale (accesso al lavoro a tutta l’area, trasporti pubblici ed infrastrutture, accesso alla cittadinanza politica nei loro comuni di residenza); chi non disponeva del reddito per risiedere al centro poteva, con le stesse prerogative, salvo il tempo di pendolarismo, partecipare al benessere milanese.” Il patto si è rotto. E la città ha iniziato ad espellere le famiglie più povere e meno abbienti. Negli ultimi dieci anni, 40.000 cittadini milanesi all’anno hanno lasciato la città, sostituiti con 600.000 nuovi arrivi. Un’operazione scientificamente voluta in nome di una città per soli ricchi. In questo quadro fortemente modificato il “modello Milano” si è trasformato nel modello del mattone, o del vetro-cemento, il modello del “grattacielificio” e dell’architettura ridotta a pura oggettistica, le architetture delle archistar, che hanno trasformato il progetto in immagine e che con la storia del paesaggio urbano di Milano e della città europee non c’entrano nulla. Tutto al semplice e puro servizio della rendita e del profitto. Della speculazione immobiliare, negli interessi del capitale finanziario e delle banche amiche. Ma veniamo al punto. Dietro ai fatti di cronaca, anche giudiziaria, che hanno coinvolto Milano negli ultimi mesi, al centro c’è il tema della città e la grande questione sociale di cui nessuno sembra più occuparsene. A Milano, per fare solo un esempio, la grande questione sociale è la questione della casa, per chi non ce l’ha e da anni aspetta nelle liste di attesa del comune di Milano. Per questo “ridateci Fanfani e i vecchi sindaci socialisti che le case le costruivano e sapevano assegnarle a chi ne aveva bisogno” e che, insieme ad uno sviluppo ordinato della città, sapevano con lungimiranza programmare gli investimenti infrastrutturali per garantire a tutti l’accessibilità a Milano dal resto della Lombardia. È il caso del Primo passante ferroviario realizzato negli anni ’80 e del progettato Secondo passante, poi cancellato dalle giunte della seconda Repubblica. Era questa la politica della casa come servizio sociale, che nulla ha a che fare con l’annunciato Piano casa né della Meloni, né di Sala. La bufala del housing sociale proposto oggi a livello nazionale, e dal comune di Milano nel bel mezzo del bailamme della vicenda urbanistica più recente. Case a prezzi cosiddetti concordati, che fanno un’altra volta gola ai soliti costruttori (sempre gli stessi) e alle banche che una volta esaurita la grande abbuffata dell’iniziativa privata già realizzata, con la complicità e l’assenso del Comune, fuori dalle regole urbanistiche più elementari, adesso trovano un'altra fascia di mercato e nuove agevolazioni su cui buttarsi. Come era assolutamente prevedibile, bastava alzare lo sguardo al cielo, il grande imbroglio di Milano non poteva reggere. E il castello di carte è crollato al suolo. Non ha retto l’imbroglio di costruire in deroga alla legislazione nazionale corrente, in modo irregolare o illegale, per poi pensare di ottenere dal parlamento, con il consenso di tutto l’arco costituzionale da destra a sinistra, la grande sanatoria. È questa la storia del “Salva Milano”. Una proposta di legge pensata da Sala, fatta passare come un provvedimento circoscritto a Milano, interpretativo della legislazione vigente, transitorio, quando la sua vera pericolosità se non il suo vero obiettivo, stava invece nel tentativo di far credere ai senatori (che questa volta non ci sono cascati) che la decisione di Milano di realizzare grandi interventi, senza approvare piani attuativi, sostituendo cascine o capannoni industriali con dei grattacieli, non rispondeva solo agli interessi dei costruttori di aumentare le volumetrie esistenti, cambiando contemporaneamente a basso costo la destinazione d’uso dei fabbricati, ma era il frutto di una precisa scelta politica adottata dalla amministrazione comunale (quella di favorire lo sviluppo verticale degli edifici in nome di una falsa minore cementificazione del territorio), che avrebbe potuto essere fatta propria da tutti gli altri comuni italiani. Tesi sostenuta dal secondo imbroglio, per il quale dopo l’approvazione del “Salva Milano” si sarebbe dovuto approvare a breve una riforma organica della legislazione urbanistica. Altra bufala gigante! Che solo l’arroganza del sindaco Sala poteva far credere al Parlamento: approvare a breve, in quatto e quattr’otto, una riforma organica della disciplina urbanistica. Questione aperta e non risolta dal 1963 quando, già allora, la DC impallinò la riforma Sullo per sposare gli interessi della rendita fondiaria. Il tentativo maldestro del “Salva Milano” e le recenti vicende dimostrano che il cosiddetto “modello Sala” non poteva reggere. Ma questo, fuori dai facili slogan, mette al centro il tema della città, in un momento di forte regressione politica e culturale. In un momento in cui l’urbanistica sembra non esistere più come strumento infradisciplinare per migliorare le condizioni di vita dei cittadini, anche alla grande scala, e le loro relazioni economiche e sociali. E in un momento in cui si è persa la consapevolezza che almeno le scelte localizzative delle grandi funzioni urbane in rapporto al sistema della mobilità, competono esclusivamente alla politica. Per evitare che la pianificazione la facciano direttamente i fondi di investimento e i grandi promotori immobiliari. Ridateci i Sindaci socialisti che mai avrebbero pensato di svendere lo stadio di San Siro per fare un favore ai fondi proprietari delle società di calcio, consentendo loro di abbattere uno stadio di proprietà comunale, per costruirne un altro. Il cavallo di Troia di una delle più grandi operazioni immobiliari con la pura finalità di consentire alle squadre di fare business e ripianare i propri debiti sulle spalle della collettività. Infine ridateci Fanfani perché non si fanno le nozze con i fichi secchi. Un grande piano casa per l’Italia ha bisogno di risorse, almeno pari a quelle che il paese ha avuto a disposizione fino all’arrivo della Seconda repubblica, quando furono annullati i finanziamenti biennali che consentivano la riqualificazione dell’edilizia economica e popolare esistente e la costruzione di nuove abitazioni. Consentivano l’applicazione della legge 167 che nemmeno le giunte di sinistra come quella di Milano da anni vogliono più applicare, nonostante la legge sia vigente e nessuno l’abbia mai abrogata. Una legge figlia di tante battaglie socialiste culminate con l’approvazione della Legge sulla Casa del 1971. Basterebbe ripartire da qui!

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