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sabato 18 settembre 2021
Giovanni Scirocco: Il socialismo tra passato e futuro
Dall' Aavanti!
IL SOCIALISMO TRA PASSATO E FUTURO
La storia del socialismo è stata, per certi versi, più la storia degli aggettivi che hanno tentato di definirlo (riformista, rivoluzionario, massimalista, reale, democratico, liberale, ecc.) che del sostantivo. Quella che appare come una debolezza del concetto, lo è anche, nella difficoltà di definirlo, della sua pratica (come testimoniato dai dibattiti degli anni ‘70 sulla mancanza di una concezione marxista dello Stato). In fondo, già Bernstein, il padre del revisionismo marxista, aveva individuato la questione alla fine dell’800, con il suo celebre motto: “Il fine è nulla, il movimento è tutto”.
Nel corso del ‘900, quasi tutte queste endiadi sono venute meno, alcune per fallimento (il “socialismo reale”), altre per una accettazione talmente universale da diventare scontata e quasi stucchevole, come quella dedicata al riformismo come pratica politica e di governo, tanto da non capire neppure più a cosa ci si riferisca con esattezza, come nella notte hegeliana (e spesso senza neppure il volo ispiratore della nottola di Minerva…).
Il nostro Paese ha, tra le sue molte particolarità, quella di essere quasi sempre late comer per ciò che concerne i fenomeni politici e sociali (e quando questa particolarità è stata smentita, ciò è accaduto per eventi non degni di particolare merito, come nel caso del fascismo). Anche nel caso della storia del socialismo, l’approdo pieno al socialismo riformista e democratico si verificò solo tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 quando, per chi li voleva vedere, erano già evidenti, prima ancora del crollo del Muro e della fine del comunismo, i segnali della crisi della socialdemocrazia a livello internazionale, per motivi strutturali, primo tra tutti la fine della classe operaia come classe “generale” (per citare un saggio del 1966 di Luciano Cafagna), la rivoluzione digitale e soprattutto la crisi fiscale dello Stato, che rimetteva in discussione la sostenibilità lo stesso welfare, uno dei pilastri del compromesso socialdemocratico.
Ciò che restava sin da allora “spendibile”, se ci pensiamo bene, sul terreno del dibattito storico e della lotta politica era ed è solo il socialismo liberale (come avevano intuito nel 1978 Craxi e Luciano Pellicani con il Vangelo socialista) che però anch’esso ha avuto una ben strana fortuna. È stato infatti conosciuto (e riconosciuto…) tardi in Italia (la prima edizione di Socialismo liberale di Carlo Rosselli apparve, per Einaudi, solo nel 1973), criticato non solo in ambito comunista (da leggere la risposta che Rosselli diede a Giorgio Amendola nei “Quaderni di GL”, gennaio 1932), ma nello stesso partito socialista e vittima, più recentemente, di un equivoco che però affonda nel tempo le proprie radici.
Gaetano Arfè amava raccontare che nella notte successiva alla conclusione del congresso socialista di Venezia del 1957 (che vide, dopo il XX congresso e l’invasione sovietica dell’Ungheria, la vittoria della svolta autonomistica promossa da Nenni, in minoranza però negli organi dirigenti del partito), Nenni, amareggiato e stanco, si lasciò andare all’onda dei ricordi parlandogli a lungo di Rosselli ed esprimendo il rincrescimento, senza sottacere le proprie responsabilità, che i socialisti avessero lasciato cadere l’eredità rosselliana. Osservava inoltre, continuava Arfè, che tra le cause minori ma non trascurabili di questo fatto c’era anche quella che Rosselli, intitolando al socialismo liberale la sua opera più nota, aveva fatto una scelta poco felice, perché per molti socialisti che non avevano letto il libro, ma ne conoscevano il titolo, quella espressione stava a significare un socialismo ibrido, accomodante, annacquato, il “socialismo che si contenta”, come Salvemini definiva il socialismo di Ivanoe Bonomi.
In realtà, quello di Rosselli è tutt’altro che un socialismo accomodante o annacquato. È certamente un socialismo che non è calato dall’alto, ma che punta sull’individuo e sulla autoeducazione, fortemente volontaristico e non deterministico, ma sempre socialismo è, in cui la “libertà di” (fare, intraprendere, agire) è fondamentale, nella coscienza però di quanto sia utopistico «l’andar cianciando di morale, di autonomia spirituale, di doveri, di adesione e rispetto al metodo democratico, a chi versa nella miseria e riesce a malapena, con un lavoro logorante e abbruttente, a soddisfare i bisogni primari della vita»: la libertà dal bisogno è quindi premessa altrettanto fondamentale, una libertà che può essere conquistata anche attraverso esperimenti cooperativi e di autogestione, nell’ottica di un socialismo moderno, cosciente della crisi in cui versa la socialdemocrazia in Europa. Come lo stesso Rosselli chiariva a Claudio Treves sulla “Libertà” dell 22 gennaio 1931, la tesi centrale di Socialismo liberale «consiste nella piena conciliazione tra socialismo e libertà e nella confutazione delle pseudoposizioni liberali borghesi: pseudo appunto perché esterne allo sforzo di emancipazione della classe lavoratrice».
Il problema che si poneva a Rosselli (e che si pone tuttora a chiunque abbia a cuore le sorti del socialismo) è dunque quella individuato da Norberto Bobbio nella sua prefazione all’edizione einaudiana di Socialismo liberale: come riaffermare le irrinunciabili esigenze dei principi fondamentali del liberalismo e della democrazia senza rinnegare il socialismo come fine? Bobbio così rispondeva, con la sua tradizionale chiarezza: «Il dibattito di questi anni ha confermato la sostanziale differenza tra l'interpretazione rosselliana del socialismo liberale e quella più corrente nel dibattito teorico-politico. Rosselli non si propone di trovare una conciliazione tra due opposte dottrine o due prassi politiche: per lui il socialismo, una volta liberato dall'involucro dottrinale, il marxismo, che sinora lo aveva irrigidito in un sistema filosofico imposto e accettato dogmaticamente, è la continuazione, il perfezionamento, l'ultima fase, del processo di emancipazione dell'uomo, di cui il primo momento è rappresentato dal pensiero liberale e dalla sua attuazione storica nel riconoscimento pubblico dei diritti della persona avvenuto attraverso le rivoluzioni americane e francesi: il liberalismo, per Rosselli, è quindi un metodo, il socialismo un fine».
Il 29 marzo 1932 moriva a Parigi Filippo Turati. Rosselli ne scrisse un Profilo che resta tuttora, a 80 anni di distanza, uno degli scritti più lucidi sul leader del riformismo italiano, da discepolo fedele che ne riconosceva i meriti storici e però ne coglieva anche le incertezze e i limiti dell’opera, prima tra tutti la sconfitta subìta dal fascismo anche per l’incapacità di parlare alle nuove generazioni, con credibilità e parole vive. Il suo Profilo è quindi anche una lezione di metodo, nel mostrare come si possa fare i conti con una tradizione politica, senza però rinnegarla. Temo che sia quello che è mancato in questi 30 anni (dopo la fine del comunismo, Maastricht e la scomparsa dei partiti storici della Prima repubblica) a tutta la sinistra italiana, socialista e comunista. Come Rosselli scriveva in Socialismo liberale, nella parte dedicata a “I miei conti col marxismo”:
xii. Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.
Giovanni Scirocco
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