giovedì 13 agosto 2020

Franco Astengo: Referendum, democrazia

Referendum, Democrazia di Franco Astengo E’ proprio il caso di cercare di approfondire i temi della profonda crisi del sistema politico italiano proprio nel momento in cui la banalità del quotidiano sembra dare ancora fiato al qualunquismo di ritorno. Il referendum rappresenterà una prova ardua per la tenuta della democrazia italiana. Non possiamo limitarci a replicare alle labili argomentazioni dei sostenitori della riduzione del numero dei parlamentari. Va colta l’occasione per una discussione nel merito della crisi della democrazia liberale e del sistema politico italiano. La democrazia liberale appare messa in forte discussione prima di tutto dalla crescita, a livello internazionale, di situazioni nelle quali paiono prevalere sistemi assolutamente contrari ai suoi principi fondamentali. Approfondiamo allora alcuni dei termini della questione partendo da un’analisi dello stato delle cose in atto nel sistema politico italiano. Sono evidenti i punti di fallimento fatti registrare dall’intera classe politica negli ultimi 30 anni, dal momento cioè della liquefazione della “repubblica dei partiti” dovuta al combinato disposto fra trattato di Maastricht, Tangentopoli, caduta del muro di Berlino. Proviamo a redigere un elenco sommario: sono falliti i tentativi d’imposizione del modello di “democrazia dissociativa” (bipolarismo se non bipartitismo, sistema elettorale maggioritario, partito personale), sta mostrando la corda il sistema dell’Unione Europea; si è rivelato assolutamente negativo il tentativo di risolvere attraverso il regionalismo il nodo della cessione di sovranità dello “Stato – Nazione”. Proprio Il nodo dell’unità nazionale rimane del resto assai complesso nella fase di accelerazione del processo di cessione di sovranità da parte dello “Stato – Nazione”. Nel corso del tempo in occasione della modifica del titolo V della Costituzione si è verificato un cedimento alle sirene della “devolution” (2001, quando si affermava che la Lega era una “costola della sinistra”) e adesso non si è ancora presa coscienza della mancata democratizzazione di una Unione Europea priva di Costituzione e di Parlamento legislativo e divisa sulla base di schemi di diversa appartenenza, un’evidente questione di rapporto nord – su, addirittura con la presenza all’interno di regimi para-illiberali. Attraverso la modifica del titolo V della Costituzione si sono evidenziati punti estrema negatività sia dal punto di vista della promozione di una voracissima e del tutto impreparata classe politica e dell’estensione senza limiti del deficit pubblico. In più, attraverso l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia e di Regione (legge 81/93 e legge costituzionale 1/2000) si è verificato il fenomeno di una esaltazione incongrua dal basso della personalizzazione della politica. Una personalizzazione della politica mortificante il ruolo dei consessi elettivi periferici che hanno così perduto ruolo e qualità d’intervento, causando un pauroso abbassamento nell’insieme dei rapporti sociali delle istituzioni. Per economia del discorso, in questa occasione, rimangono fuori dall’analisi i guasti gravissimi provocati dal sistema dei “media”, in particolare dal settore televisivo, utilizzato da tutte le leve del potere in forma del tutto strumentale. Inoltre la diffusione di massa delle nuove tecnologie informatiche con l’avvento dei social network non è servita a produrre nuova pedagogia bensì ha contribuito soltanto a costruire un gigantesco veicolo di mistificazione del messaggio . In questo caso la responsabilità diretta è di questa classe politica sorta proprio a seguito della dissoluzione del sistema dei partiti . Sistema dei partiti del quale, al di fuori dell’evidenziarsi di contraddizioni “storiche”, deve essere rimarcato il possesso di due elementi fondativi trasversalmente espressi a suo tempo, nel periodo della ricostruzione del dopoguerra : quello della funzione pedagogica di massa e quello della capacità di selezione dei quadri. L’attuale classe politica ,in buona parte, ha cercato soltanto di coartare e mistificare la propria comunicazione come sta ben dimostrando la “fiera delle vanità” messa in mostra dal presidente del consiglio nelle sue solitarie dirette facebook nel corso delle quali si è evidenziato un vero e proprio “spreco” nell’utilizzo del termine “storico”. Nell’espressione di cultura politica del paese sembrano inoltre venuti a mancare i termini concreti di un’analisi seria del sistema democratico. Diventa allora il caso di riprendere la riflessione sul complesso della qualità della nostra democrazia. Proviamo così a ripassare alcuni passaggi principiando dall’analisi dei diversi tipi di democrazia, individuandone i due modelli principali: 1) modello maggioritario dissociativo (o modello Westminster): Il governo detiene una solida maggioranza; sistema bipartitico; governo centralizzato e unitario; costituzione flessibile; bicameralismo asimmetrico. 2) modello consensuale: governo di coalizione, equilibrio tra potere legislativo ed esecutivo, sistema multi partitico, assetto istituzionale decentrato, Costituzione scritta, bicameralismo simmetrico. Ricordati questi punti, è il caso allora di analizzare nel dettaglio le caratteristiche necessarie al funzionamento di un sistema politico in generale e di quelle peculiari al sistema politico italiano. Caratteristiche peculiari del sistema politico italiano confermatesi evidentemente irriducibili, anche verso un presunto itinerario di “occidentalizzazione” così come alcuni politologi lo avevano individuato negli anni’90 (con relativa stagione referendaria) attraverso l’adozione della formula maggioritaria. Adozione della formula maggioritaria (ci si assestò poi su di un “misto” al 75%) accompagnata dal calo della partecipazione elettorale, dovuto alla frantumazione del sistema dei partiti di massa ma considerato beneficamente fisiologico. Il sistema alla fine si è trovato con una partecipazione ridotta anche nell’espressione di voto e con milioni e milioni di elettrici ed elettori privi di rappresentanza politica. Ed è questo della riduzione complessiva della partecipazione politica che, volenti o nolenti, deve essere considerato il vero punto di crisi sistemica. Una crisi sistematica affermatasi in una fase di vero e proprio “ sfrangiamento sociale”. Un punto di crisi sistemica in cui si sono aperti i varchi per quelle pericolose forme politiche qualunquistiche ben presenti e rappresentate che avevano al centro del loro progetto proprio quel tipo di riduzione della democrazia rappresentativa che sarà sottoposto alla prova referendaria: 1) E’ mancata nel corso di questi anni un progetto di organizzazione e di rappresentanza delle contraddizioni sociali. L’idea di ridurre tutto al melting – pot tra un centrodestra e un centrosinistra omologati e privi di una identità che non fosse quella del partito personale (sulla base del quale “chiamare alle armi” il proprio elettorato ogni volta su elezioni intese come referendum riguardante una persona) è stato un fatto micidiale, che qualcuno vorrebbe addirittura riproporre all’insegna del disgraziato slogan “un minuto dopo la chiusura delle urne si saprà che governa”; 2) L’ assenza di credibili soggetti di riferimento ha determinato una incapacità di realizzare livelli di governo, al centro come in periferia, formati attraverso un articolato sistema di alleanze politico – sociali. In periferia sono così sorte confuse aggregazioni all’insegna di un indistinto “civismo” fornendo così spazio all’avvento di soggetti espressione di un adattamento verso il basso del livello culturale e di preparazione specifica rispetto all’iniziativa politico - amministrativa. 3) Al centro del sistema, inoltre, è mancata completamente la possibilità di scelta da parte delle elettrici e degli elettori. Le liste bloccate, sia pure più volte stigmatizzate dalla Corte Costituzionale ma ostinatamente perseguite da soggetti politici ormai formati soltanto da “cordate” e “gigli magici”, hanno rappresentato il vero punto di saldatura su cui si è realizzato un vero e proprio “fallimento sistemico”. Si è così creato un vuoto che potrebbe essere riempito attraverso la soddisfazione di pulsioni autoritarie sempre presenti nella cultura di un paese che ha storicamente trovato difficoltà a ritrovare un proprio baricentro di riconoscibilità. Appare allora indispensabile riprendere il discorso sulla “democrazia consensuale” costruita in una forma centripeta sulla base di una chiara distinzione e confronto tra le forze politiche. Un recupero di identità da parte delle diverse forze appare come il fattore fondamentale utile per fronteggiare il quadro di difficoltà fin qui sommariamente descritto. Non fu per caso come l’Assemblea Costituente avesse indicato la centralità dei consessi elettivi all’interno della complicata costruzione della democrazia in Italia. La centralità dei consessi elettivi che, come nel caso dei due rami del Parlamento, deve significare ancora soprattutto centralità della loro capacità di incarnare la “significanza politica” (un tema del tutto dimenticato in funzione della decretazione e addirittura dei famigerati dpcm). Sorge a questo punto il tema della formula elettorale. E’ evidente che, l’unica via percorribile in materia di formula elettorale è quella proporzionale. Una formula elettorale proporzionale da intendersi come strumento d’appoggio per recuperare un grado sufficiente di credibilità e di visione consensuale in un sistema democratico fondato su di una seria articolazione delle soggettività politiche. Soggettività politiche richiamate, come si diceva all’inizio, a rappresentare le contraddizioni sociali e non le ambizioni particolari di singoli o di gruppi di cordate formatesi attraverso il localismo e il familismo. Le attuali forze politiche agiscono, infatti, in prevalenza in una pericolosa commistione di ambizioni personali, tentazioni plebiscitarie, imposizioni verticistiche destinate inevitabilmente a cozzare contro una società ormai organizzata orizzontalmente. L’organizzazione sociale ormai si realizza attraverso da una parte l’espressione di lobbie e neo – corporazioni e dall’altra da ampie frange indistinte sul piano della coscienza politica e sociale eternamente in attesa di accedere a uno “scambio politico” di tipo assistenzialista. Per stare dentro a questo tipo di scontro che ha ormai assunto aspetti quasi completamente “impolitici” la sola prospettiva adatta per gli imprenditori del consenso sembra essere diventata quella della teatralità della scena. Si è valorizzato l’agire dell’immediatezza comunicativa in luogo della determinazione strategica . L’esprimersi effimero di una comunicazione esclusivamente propagandistica rappresenta così il solo vero, possibile, punto di contatto con la dimensione “orizzontale” della società, nell’omissione totale di un rapporto tra cultura e informazione. Anche la più stridente contraddizione sociale viene demandata alla “sovrastruttura” e il pubblico considerato oggetto soltanto di un processo di una gigantesca “rivoluzione passiva”. Una “rivoluzione passiva” che avanza nel quadro dell’esercizio di una presunta “democrazia del pubblico” . Una “democrazia del pubblico” (da qualcuno mistificata come democrazia diretta) che viene esercitata in gran parte in agorà virtuali nelle quali si sta proprio imponendo una “egemonia della sovrastruttura” definendo di conseguenza il prevalere dell’estetica e l’estinzione della legge morale. E’ stato anche detto:un’estetica utilizzata da una politica il cui obiettivo è soltanto quello dell’ anestetizzazione del “dolore sociale”(vedi reddito di cittadinanza, bonus, incentivi). Lenire e sopire il “dolore sociale” è così diventato l’imperativo categorico dell’agire politico così da rendere le masse docili e lontane. Il dolore sociale avrebbe invece necessità di essere rielaborato partendo da quella che storicamente abbiamo definito come “contraddizione principale”. La “contraddizione principale” va di nuovo individuata e portata alla ribalta del conflitto intrecciandola con altri due elementi:quello del limite che incontra il dominio umano sulla natura e quello del nuovo tipo di esercizio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, comprensivo anche dell’ulteriore livello dello sfruttamento di genere. In questa fase lo sfruttamento è comunque esercitato socialmente in una dimensione ben più vasta di quello agita a suo tempo poggiando sul “lavoro vivo”. La domanda finale è questa: quello dell’egemonia della sovrastruttura appare ormai il solo orizzonte possibile? Quindi siamo alla fine della capacità di disporre di una “legge morale” che ci consente di distinguere i diversi piani dello sfruttamento in modo da poter proporre la riunificazione di una proposta di alternativa? Ormai la forma esclusiva dell’azione politica si colloca all’interno di una logica dominata dalla ricerca di un definitivo “potere sull’estetica”? Sarebbe necessario essere capaci di esprimere con semplicità un secco “NO” ma la replica appare invece quanto mai difficile e complicata. Per esempio: sembra incontrovertibile il dominio della “tecnica della casualità” intesa come esclusivo strumento di accesso al nodo vitale dell’informazione. Invece, avremmo bisogno di recuperare antiche categorie e inventarne di nuove. Nel frattempo risulterebbe fortemente negativo abdicare da una difesa di ruolo delle istituzioni rappresentative a partire dalla loro capacità di espressione politica e territoriale. Il prossimo 20 settembre non sarà sufficiente l’espressione di un “NO” nel referendum. Bisognerà accompagnare la proposta del “NO” con quella di una riaggregazione politica capace di porre un’alternativa sul piano costituzionale recuperando insieme l’idea di una espressione di legge morale attraverso i cui canoni tornare a essere capaci di distinguere. Vale la pena in conclusione di ricordare Gramsci e lo “spirito di scissione”: Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice al complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica.

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