martedì 23 aprile 2019

Sanzioni USA sul greggio iraniano

SANZIONI USA SUL GREGGIO IRANIANO: COLPO A TEHERAN O ALL'ECONOMIA MONDIALE? Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha annunciato ieri che gli Stati Uniti non rinnoveranno le esenzioni sull’acquisto di petrolio iraniano che erano state concesse lo scorso novembre a otto paesi, tra cui l’Italia. L’obiettivo dichiarato dall’amministrazione di Donald Trump è quello di ridurre a zero le esportazioni di petrolio iraniano, costringendo dunque Teheran a tornare al tavolo negoziale per la discussione di un nuovo accordo che tenga in considerazione altri aspetti oltre a quello nucleare. Nonostante le garanzie fornite da Pompeo circa il fatto che Usa, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) compenseranno il vuoto di produzione iraniano, impedendo dunque l’impennata dei prezzi, sorgono numerosi dubbi circa il fatto che questo sia realmente possibile. La decisione di Trump rischia infatti di avere pesanti conseguenze tanto economiche quanto politiche. VERSO UN NUOVO RIALZO DEI PREZZI? Nell’annunciare la decisione di non rinnovare le esenzioni, il segretario di Stato Pompeo ha rassicurato la comunità internazionale circa lo scenario di un aumento dei prezzi del petrolio dovuto alla diminuzione della quantità di greggio immesso sul mercato. Pompeo ha infatti annunciato che Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti aumenteranno la propria produzione in modo da compensare l’uscita iraniana dal mercato e scongiurare così l’aumento dei prezzi. Le cose però potrebbero non essere così semplici. In primo luogo, Stati Uniti e Arabia Saudita/EAU hanno obiettivi di prezzo diversi: se per gli Usa è prioritario mantenere prezzi bassi, soprattutto con l’arrivo della stagione estiva, per i paesi produttori del Golfo un rialzo dei prezzi garantirebbe maggiore respiro alle casse statali: nella scelta tra aumentare la produzione per tenere basso il prezzo, e mantenere invariata la produzione garantendosi dunque maggiori entrate, la scelta razionale sembrerebbe la seconda. Fonti vicine alla casa reale saudita avrebbero dichiarato che Riyadh è pronta a compensare per le quote di greggio mancante, ma solo dopo aver valutato gli effetti del mancato rinnovo delle esenzioni sul mercato. Inoltre, Arabia Saudita ed Emirati, così come gli altri paesi produttori, sono soggetti ai tagli di produzione concordati in sede OPEC+ lo scorso dicembre, destinati a durare fino a giugno. Anche l’Iraq – secondo produttore OPEC – ha ribadito il proprio impegno a rispettare la politica dei tagli decisa in sede OPEC, affermando che eventuali decisioni circa la sospensione dei tagli debbano essere prese in maniera collettiva. Nel breve periodo, dunque, anche considerando il prolungarsi delle crisi in Venezuela e in Libia, le possibilità di un aumento del prezzo del petrolio sembrano sempre più concrete. LA REAZIONE DELL'IRAN Dopo aver designato come entità terroristica il corpo dei guardiani della rivoluzione iraniana – ovvero i Pasdaran – la decisione di non rinnovare le esenzioni sull’acquisto di petrolio iraniano rappresenta un altro tassello nella strategia Usa di “massima pressione” verso Teheran. Se l’obiettivo americano rimane quello di costringere l’Iran a tornare al tavolo negoziale per discutere un nuovo accordo dai termini maggiormente favorevoli per Washington, la realizzazione di questo obiettivo rimane al momento assai lontana. L’Iran ha infatti una lunga storia di “resistenza” a politiche percepite come aggressive e arroganti, e cedere di fronte a questo tipo di politiche non rientra nel novero delle opzioni del governo. Occorre anche considerare gli effetti della politica Usa di massima pressione sulla popolazione iraniana: se ufficialmente Washington dichiara che le proprie politiche sono destinate a colpire la classe dirigente, nella realtà dei fatti le sanzioni non hanno avuto finora altro effetto che quello di causare una gravissima crisi economica, con la riduzione delle possibilità di acquisto e l’innalzamento del costo della vita. Se ciò appare mirato a porre la popolazione iraniana contro la propria classe dirigente, in realtà ciò che sta accadendo è un effetto “rally around the flag”, ovvero un compattamento degli iraniani attorno alla propria bandiera. Sul piano pratico, la reazione iraniana consisterà con ogni probabilità nel continuo esercizio della “pazienza strategica”: in vista delle presidenziali del novembre 2020, a Teheran si spera che Trump e i suoi consiglieri lasceranno la Casa Bianca. Nel frattempo, si cercherà di mantenere un flusso accettabile di esportazioni verso i paesi asiatici, e si continuerà a investire nella creazione di meccanismi di scambio alternativi al sistema tradizionale imperniato sull’egemonia del dollaro. È lecito attendersi un inasprimento della retorica, come nel caso della minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz, uno dei principali chokepoint da cui transita circa il 35% del petrolio commerciato via mare a livello globale. Difficile però che Teheran dia realmente attuazione alla minaccia: il mantenimento della libertà di navigazione nelle acque del Golfo Persico è per gli Usa una priorità di sicurezza nazionale, in quanto collegata alla garanzia dei rifornimenti energetici. L’Iran è conscio che chiudere Hormuz sarebbe la premessa a un’escalation anche militare con gli Usa, un’escalation alla quale Teheran non sembra voler arrivare. TO WATCH: COSA FARANNO I PAESI ASIATICI La vera incognita per i prossimi mesi, da cui dipenderà la capacità iraniana di mantenere un flusso accettabile di esportazioni, è rappresentata dalle azioni che intraprenderanno Cina, Turchia e India, i tre maggiori acquirenti di petrolio iraniano, che sono stati colti di sorpresa dalla decisione di Trump di ridurre a zero le esportazioni di greggio di Teheran in maniera così repentina. Se infatti i due europei – Italia e Grecia – non hanno mai fatto uso delle esenzioni concesse da Trump e hanno fin da novembre azzerato i loro ordini di petrolio iraniano, così non è stato per i paesi asiatici, che hanno continuato ad acquistare il greggio iraniano, assicurando a Teheran esportazioni per circa 1,5 milioni di barili al giorno. Tanto la Cina quanto la Turchia hanno reagito all’annuncio di Pompeo dichiarando la propria opposizione alle sanzioni unilaterali statunitensi. All’atto pratico, però, occorrerà aspettare le mosse di questi paesi nei prossimi mesi. La Cina è impegnata con gli Usa in un più ampio negoziato sul commercio internazionale, e la rinuncia all’acquisto di petrolio iraniano, in ottemperanza alle richieste di Washington, potrebbe essere un gesto di “buone intenzioni” per non compromettere l’accordo sulle altre questioni aperte tra i due attori. Rimane però l’urgenza per Pechino di compensare i propri acquisti di greggio iraniano con acquisti da altri fornitori, con l’incognita della effettiva capacità degli altri paesi produttori di assecondare la fame energetica di Pechino. Anche la Turchia proverà a bypassare le sanzioni statunitensi. Teheran e Ankara hanno annunciato negli scorsi giorni la creazione di uno speciale canale per le transazioni che utilizzerebbe rial iraniano e lira turca, evitando dunque le transazioni in dollari. Anche nel caso di Ankara, però, lo stato burrascoso delle relazioni con Washington potrebbe paradossalmente rappresentare un ostacolo al mantenimento delle relazioni con l’Iran: considerate le tensioni, Ankara potrebbe non voler provocare Washington, oppure potrebbe essere pronta a “sacrificare” le relazioni con Teheran in cambio del via libera statunitense su questioni ritenute di maggiore urgenza, come il placet a una presenza turca duratura nel nord della Siria a perenne presidio anti-curdo. Più pragmatica per ora la reazione dell’India, che ha dichiarato di avere la situazione sotto controllo e di essere pronta a fare fronte alla decisione Usa, che considera “non definitiva”. L’India è il secondo maggior acquirente di petrolio iraniano dopo la Cina, e il terzo maggior consumatore di petrolio al mondo. Teheran è per Nuova Delhi il terzo fornitore, dopo Iraq e Arabia Saudita. Lo scorso novembre il governo indiano aveva acconsentito a ridurre le proprie importazioni di greggio da Teheran dai 452.000 barili al giorno dell’anno finanziario 2017-2018 agli attuali 300.000 barili al giorno. E infine la situazione di Corea del Sud e Giappone, gli altri due paesi asiatici a cui erano state concesse le esenzioni e che rientrano nel novero degli alleati Usa. Seoul, che è il quarto maggior acquirente di petrolio iraniano, è stata impegnata nelle ultime settimane in un complesso negoziato con Washington per ottenere il rinnovo delle esenzioni; per l’industria petrolchimica sudcoreana sarebbe infatti fondamentale la continuità del rifornimento di petrolio super leggero iraniano. Il Giappone invece ha già ampiamente ridotto le importazioni di greggio iraniano, che oggi conta solo per il 3% delle importazioni giapponesi. In conclusione, il nuovo tassello della politica Usa di “massima pressione”, volta a punire Teheran e ridurne sensibilmente le entrate monetarie, rischia di avere ripercussioni ben più ampie sui mercati energetici mondiali, sugli alleati di Washington e sugli stessi Stati Uniti.

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