domenica 26 agosto 2018

Franco Astengo: Identità

IDENTITA’ di Franco Astengo 27 agosto 1978, quarant’anni fa. In quel giorno l’Espresso pubblica il saggio firmato da Craxi su Proudhon (in realtà scritto da Luciano Pellicani) dal titolo “Il Vangelo socialista”: un testo che viene ritenuto come una vera e propria sfida all’egemonia culturale del PCI anzi si potrebbe dire rivolta all’intellettuale organico gramsciano. Riprendo dall’articolo dell’Espresso, a firma di Marco Damilano, che ricorda oggi quella vicenda una definizione molto precisa: “Quel testo rappresentava una sorta di carta d’identità”. Si potrebbe affermare, allora, come si fosse realizzata quasi una “ControLivorno” (per dirla con un riferimento, quello del ’21, ancora molto caro a molti compagni socialisti come simbolo di una rottura insanabile): ovverosia di una cesura questa volta davvero irrecuperabile perchè posta sul piano delle idee. Un saggio quello di Pellicani firmato da Craxi da considerare quasi un Manifesto della “libertà possibile” nel “socialismo possibile” una sorta di “Controutopia”, nel richiamo – oggettivo –a Bernstein citando – appunto – Proudhon, il teorico della “Proprietà è un furto”. Ma in quel saggio è citata anche Rosa Luxemburg, forte contestatrice di Lenin sul tema del partito, poi trucidata dal governo socialdemocratico per aver tentato di esportare in Germania la rivoluzione d’Ottobre. Tornando alle valutazioni possibili di quel testo alla luce delle dure repliche della storia, lo si può considerare (almeno sul piano delle dinamiche politiche in allora innestasi nel sistema italiano) come l’espressione di un’ambizione di rappresentare il punto di riferimento (e di saldatura) della linea autonomista (della quale Craxi era stato, per la verità, sempre fedele interprete) così spiccatamente portata avanti dal Midas in avanti e anche la suffragazione della divisione fermezza /alternativa palesatasi durante i 55 giorni di Moro. Ecco: sul confronto fermezza / alternativa forse ci sarebbe da indagare più a fondo rispetto al peso che quella contrapposizione ebbe sul resto della fase politica traguardando gli anni’80 e quindi forme e modi attraverso le quali (ricordando anche l’esito elettorale dell’83) si arrivò alla presidenza socialista. Il traguardo della Presidenza socialista fu tagliato senza il PCI, in completa disarmonia rispetto a come De Martino aveva provocato la crisi del capodanno ’76: molta acqua in quei sette anni era per davvero passata sotto i ponti. Contraddizioni, come sempre, a sinistra e questa volta in forma assai anomala rispetto a quelle espresse nel passato. Il mio maggiore interesse però riguarda un punto che mi permetto di ritenere essenziale: quello del determinarsi e degli effetti provocati, da quel momento e per il decennio successivo, di un grado di vera e propria incomunicabilità a sinistra. Una rottura, quasi priva di canali di comunicazione (il camper di Veltroni e D’Alema? Qualche giunta sempre più vacillante?) derivante proprio dalla lotte delle idee apertasi in quella fine estate ’78, piuttosto che – come sarebbe apparso in seguito – dagli atti del governo a prima presidenza socialista, dai fischi di Verona, dal fraintendimento di Frattocchie ’83, dalla vicenda della scala mobile. Una separatezza che non sarà colmata neppure al momento della liquidazione del PCI, quando l’idea della “socialdemocratizzazione migliorista” aveva ceduto il passo, nel dibattito tra il XIX e il XX congresso comunista, all’indeterminatezza di un “democratico” legato come solo aggancio all’idea dello “sblocco del sistema politico”. La liquidazione del Pci avvenne così in un impasto vagamente liberaldemocratico con ambigue aspirazioni kennedyane supportate da ampie zone grigie di burocratismo amministrativo e di gestione della “praxis” del potere. Intanto la scissione di “Rifondazione Comunista” non è mai apparsa mai in grado di muovere un passo proprio sul piano della rivisitazione teorica finendo preda del mix movimentismo – governativismo fino ai limiti dell’irrilevanza politica. Nello stesso tempo, e in parallelo, il PSI esauriva la sua storia sotto il peso di Tangentopoli, senza che l’identità acquisita nella tumultuosa stagione a cavallo dei ’70 e degli ’80 potesse salvaguardarne l’esistenza. O almeno così decretarono i suoi dirigenti pro – tempore. Si può dire che il testo sul “Vangelo socialista” abbia posto in competizione le idee, lasciando al PCI il massimalismo e provocando una radicale rottura politica che poi il governo a guida socialista avrebbe reso insanabile, quasi come lascito tragico dell’improvvisa scomparsa di Berlinguer? La scomparsa di Berlinguer ha rappresentato un altro tornante non superato soprattutto perché rimase incompiuta un’elaborazione possibile, anche sul piano teorico, della riflessione che il segretario del Pci aveva avviato sulla crisi del sistema dei partiti. Una riflessione in seguito interpretata semplicisticamente (o maliziosamente) come frutto di un improvviso afflato moralistico. Forse sì possiamo affermare che dal “Vangelo socialista” la rottura fu insanabile anche per il mutamento di natura dei due partiti. Proviamo quindi ad affermare questa insanabilità della rottura, anche se non disponiamo – ovviamente – di alcuna controindicazione salvo quelle che ci vengono fornite dalle analisi sulle fasi di rispettivo scioglimento dei due partiti. Quel che è certo che – al di là delle responsabilità reciproche – quella stagione di ricerca di una “identità del moderno” (Saggio su Proudhon versus Svolta della Bolognina) si è conclusa, come scrive ancora l’Espresso in una sintesi efficace di cui mi approprio indebitamente: “La modernità politica è diventata, invece, vincere, senza dire chi sei”.

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