giovedì 25 febbraio 2016

Franco Astengo: Partiti

Care compagne e cari compagni del Circolo Rosselli, La discussione su “canguro, regole, coerenza” sviluppata con grande articolazione di posizioni da parte di molti frequentatori del blog sta toccando i nervi scoperti della struttura del nostro sistema politico. Siamo così arrivati, discutendo delle cosiddette “primarie”,al tema dei partiti oggi, partiti che rimangono nonostante tutto, i soli soggetti possibili per l'articolazione della democrazia politica. Riflettiamo, allora, sulla base delle considerazioni precedenti, sulla realtà dei partiti oggi: di ciò che, in effetti, sono, all'interno del sistema politico italiano, i partiti eredi della storia della sinistra. Occupandoci dei partiti intendiamo, semplicemente entrare nel cuore della necessaria “pars costruens” di difesa e sviluppo della nostra democrazia repubblicana, oggi messa in crisi dalle deformazioni costituzionali ancora in discussione in Parlamento e dall’Italikum. Gli elementi costitutivi di quello che potrebbe essere definito come un “grande partito” (al di là dei numeri disponibili in partenza) debbono essere rappresentati dalla capacità di darsi una forte identità che distingua il partito dagli altri partiti, rendendolo così ben riconoscibile. E, ancora, un partito deve essere distinto e riconosciuto, attraverso la capacità di elaborare un programma di governo dell'intera società, sul fondamento di una selezione di interessi e valori prevalenti rispetto a quelli delle parti politiche e sociali portatrici di differenti interessi e valori. Un partito che, infatti, pretendesse di tutto inglobare e rappresentare cesserebbe di essere una organizzazione dai tratti distinti, di competere liberamente e propriamente nel confronto con gli altri partiti, sia alleati, sia decisamente avversari. Un tale partito, con l'ambizione di presentarsi “aperto” finirebbe con l'appesantire la sua barca, di avere troppi timonieri, di non riuscire a tenere la rotta, di non compiere le scelte capaci di compattarlo. Un tale partito dai tratti indistinti, rischierebbe di rendersi poco riconoscibile, di andare incontro a gravi difficoltà, se non addirittura alla paralisi al momento di assumere le necessarie decisioni. Su di un partito gravano tre pericoli: l'essere troppo chiuso, troppo aperto o , al tempo stesso, l'una e l'altra cosa. Un partito è troppo chiuso quando il suo gruppo dirigente non ha un sufficiente tasso di rinnovamento e tende ad una solitaria chiusura oligarchica. Un partito è troppo aperto, quando la sua base di riferimento è indeterminata e non risulta chiaro il rapporto tra gli iscritti, che hanno compiuto una scelta di impegno in prima persona e un corpo indefinito, mobilitato in consultazioni attinenti a questioni decisive quali la direzione del partito, alle quali viene attribuita la fisionomia di elezioni generali, ad opera di cittadini alcuni dei quali simpatizzanti e altri, al limite infiltrati, aventi finalità negative. Un partito è, insieme, troppo chiuso o troppo aperto, quando la sostanza oligarchica si combina con la mobilitazione indistinta dei cittadini con l’idea di un dialogo diretto tra questa massa indistinta e un Capo assolutisticamente decisionista. Dove sta, allora, la risposta a quale tipo e quale forma di soggettività politica è necessario guardare oggi, nella crisi del neoliberismo e della torsione negativo subito, appunto, dalle strutture politiche esistenti? Per rispondere a questa domanda non ci aiuta la debolezza della nostra concezione della democrazia, di una visione negativa e minimalista della democrazia. Abbiamo bisogno di recuperare, da un lato, la forza etica della dignità della persona e della partecipazione politica e, dall'altro canto, riscattare la politica dall'imperio tirannico del privatismo individualistico. Abbiamo bisogno di recuperare i due valori fondanti della democrazia: la cittadinanza e l'eguaglianza. Abbiamo bisogno della cittadinanza perché l'erosione delle istituzioni politiche e del ruolo della partecipazione è facilmente strumentalizzabile da chi ha più presenza politica e più strumenti per formare il consenso. Abbiamo bisogno dell'eguaglianza perché appare sotto gli occhi di tutti l'attacco sistematico cui il concetto di eguaglianza è sottoposto, con l'indebolimento dei diritti sociali, della scuola pubblica, della stessa idea di redistribuzione come volano di solidarietà. Sia la cittadinanza, sia l'eguaglianza meritano la nostra attenzione oggi, non per ridimensionare la cultura dei diritti, ma per rafforzarla reinterpretandola all'interno di una cornice politica, non soltanto morale e giuridica, per l'appunto individualista. Ci si deve domandare, infatti, quale sia la forma di partito, non soltanto più efficiente, ma anche la più democratica. Ad esempio: è necessario che il gruppo dirigente sia eletto secondo procedure certe e con un grado “alto” di possibilità di controllo: nomina e controllo che non siano l'espressione di un “popolo” indeterminato,ma affidate a chi abbia titoli certi di legittimità, quali l'iscrizione al partito e la presenza di una rappresentanza operativa degli iscritti. Questi elementi rappresentano i presupposti inderogabili perché si possano elaborare idee e programmi, istruire un dibattito permanente, un controllo nell'operato dei vertici, una selezione adatta ad assicurare un ricambio dei quadri. Se si ritiene, invece, di far irrompere direttamente nella vita di un partito, e anzitutto nella formazione della sua leadership, componenti indistinte della cosiddetta “società civile” l'effetto inevitabile sarà quello, non già di alzare il tasso di democraticità delle procedure, ma di abbassarlo, inducendo i leader a ricorrere ad un consenso di stampo plebiscitario, che finirebbe con il mortificare il significato e la funzione del partito stesso. L'effetto, alla fine, sarebbe quello di aprire gli argini al cosiddetto “partito – liquido”: non propriamente un partito, ma un contenitore di forze dai confini sfuggenti, e quindi tale da provocare spinte e controspinte difficilmente governabili, come dimostra l’esperienza delle “primarie all’italiana” e l’uso arrogante della cosiddetta vocazione maggioritaria. Occorre riprendere il ragionamento sul partito, cercando di comprendere, prima di tutto, che la pretesa di un partito di essere lo specchio ed il contenitore di tutti gli interessi e di tutti i valori importanti e significativi presenti nella società (come nel caso del cosiddetto “Partito della Nazione”) è sintomo non di forza, ma di debolezza; dell'incapacità di comprendere che un partito è un raggruppamento di volontà determinate e specifiche; uno strumento di scelte di campo; di quelle cose, di quei fattori che nel loro convergere costituiscono un programma, matrice dei “sì” e dei “no”, che animano e danno senso alla competizione tra partiti e loro programmi. Un partito non è un ente che debba ambire ad inglobare la società, ma un ente che si pone di fronte a questa e indica, in modi diversi, ma anche alternativi, di governarla. Un partito che intenda “pacificare” nel suo seno le varie opzioni esistenti nella società abdica per ciò stesso al proprio ruolo e si assegna uno scopo non perseguibile. In questo senso, dopo l'azzeramento delle scelte compiute a cavallo della “transizione italiana” avviata agli inizi degli anni'90 del secolo scorso, l'opera da compiere è enorme. Essa abbraccia quattro materie, bisognose di analisi distinte, ma egualmente indispensabili a una formazione politica duratura: 1) Ideologia, che non vuol dire ritratti di nonni e di padri appesi alle pareti, bensì principi resistenti al mutare delle circostanze per istituzioni, democrazia, giustizia,laicità,economia,socialità, Europa, relazioni con il mondo; 2) Organizzazione: tesseramento, militanza, democrazia interna, finanziamenti; 3) Linea politica: alleanze, programmi, proposte per affrontare le grandi questioni come la situazione finanziaria; 4) Leadership: chi deve guidare il partito, con quali criteri fare questa scelta. Queste materie vanno plasmate in modo nuovo, chiaro, convincente, recuperando il ruolo che i partiti (come ricorda Duverger) ebbero nella tenuta contro i fascismi in Francia e in Gran Bretagna o nella riscossa contro i fascismi al potere come in Italia. Abbiamo citato il punto della storia più alto, maggiormente nobilitante per i partiti nell'occidente europeo: un riferimento che vogliamo mantenere e che deve, necessariamente, orientarci per il futuro. Resta fondamentale, concludendo proprio su questo punto, il rapporto tra il partito e la cultura, il partito e gli intellettuali. La sinistra italiana disponeva di un formidabile background sotto questo aspetto e, al di là del discorso sull'organicità gramsciana e dell'idea di “egemonia” che in essa si collocava, il discorso sulla tradizione va ripreso attorno a due punti: a) l'idea di una ripresa culturale, che faccia parte della vita del partito come “ponte” verso l'esterno, senza chiusure immotivate, ma anche come sede di una battaglia da combattere (quella della vita culturale vera e propria, nel senso dell'impresa culturale: riviste, case editrici, utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa, ecc.); una battaglia da combattere attraverso quelle che un tempo si definivano “armi della critica”, ponendoci un primo obiettivo, quello di aprire un ciclo di studi seri e meditati, con ricerche pazienti per arrivare ad una approfondita rielaborazione della storia del nostro Paese, in ambito e con respiro europeo, almeno per gli ultimi 40 anni: sta qui,infatti, nell'assenza di una ricostruzione storica concreta dei passaggi che abbiamo vissuto, il nocciolo della distruzione di memoria, di identità e, quindi, di capacità politica che stiamo vivendo. La ricostruzione della storia è la sola strada possibile per un recupero di egemonia; b) ricostruire la storia per ricostruire l'identità non può risultare un esercizio fine a sé stesso ma necessario, invece, per far sì che si dispieghino liberamente le contraddizioni sociali dell'oggi, offrendo loro una sintesi: una sintesi di proposta politica di trasformazione della società. In conclusione: una idea, quella di una soggettività politica per la trasformazione che oggi può apparire balzana, irrealistica, addirittura utopica, ma senza il cui riferimento, pratico ed ideale, non solo non avrebbe senso una discussione come questa che stiamo affrontando, ma anche qualsiasi azione politica conseguente. Franco Astengo

2 commenti:

claudio ha detto...

troppa grazia... Ci sono secondo me due considerazioni legali- organizzative prima di passare a descrivere il partito dei propri sogni:

il minimo comun denominatore è che il partito abbai uno statuto da pubblicare e depositare in cui vengono fissate delle regole di democrazia interna, senza le quali il l partito può esistere ma non può ricevere contributi pubblici. Se a uno gli va di aderire a un partito monocratico guidato dalle olgettine del capo, è liberissimo, lo statuto lo deve pubblicare per presentarsi alle elezioni ma siccome non ha struttura democratica non può avere alcun contributo pubblico.
Attenzione, su questo tema delineato in costituzione, i sindacati han già fatto una tale resistenza che non han depositato un bel niente

Il minimo comun denominatore per essere considerati democratici sta invece nelle regole interne, facilmente manovrabili, per cui ci vuole un’autorità terza a decidere sui ricorsi degli iscritti.Faccio un esempio basilare, come funziona l’elezione dei delegati al congresso e quella dei membri dell’organo di prima istanza che esce dal congresso, locale , provinciale, regionale , nazionale (direttivo o come si chiama). Se l’elezione si basa su liste già predisposte in cui in base ai voti della lista si è eletti in base all’ordine già segretamente predeterminato, non siamo in democrazia. Eppure funziona così, nei partiti come nei sindacati. La conseguenza, dicono alcuni malvagi sociologi, è la regola del fesso crescente: chi ha il potere di formare queste liste, bada bene a metterci solo chi è più fesso di lui, e così si procede nel tempo, da fesso a più fesso finchè l’ultimo è così fesso che non si accorge che sta designando uno più in gamba di lui....


roel ha detto...

A proposito di "fessaggine", io, che sono diventato un astensionista convinto dopo tangentopoli, per ovviare in parte agli inconvenienti del "fesso crescente" e per ridimensionare le manipolazioni dei maneggioni e dei furbastri, allora,, con qualche articolo di stampa e con qualche intervento, proposi un radicale correttivo di cui ancora oggi sono convinto assertore:
introduzione di un parziale sorteggio (20-30%) nell'assegnazione dei seggi a qualsiasi livello. Senza trascurare la necessità che proprio nello Statuto vengano rigorosamente stabiliti i requisiti per l'esercizio dell'elettorato passivo. Si potrebbe iniziare dal basso : comuni, regioni,altre istanze elettive periferiche,....(Potrebbe risultare utile anche un sistema di liste aperte?)
.Il tema del sorteggio è stato più recentemente ripreso da qualche autorevole politologo ed è stato anche oggetto di una Ricerca universitaria che ha visto la luce con la pubblicazione in volume.
Ovviamente l'introduzione di un tale strumento eviterebbe in gran parte anche i mali attuali delle rappresentanze istituzionali.
Ma......., gli oppositori più tetragoni si trovano tra quanti continuano ad utilizzare le clientele e i metodi del "fesso crescente", non tenendo in alcuna considerazione l'opportunità di allargamento alla partecipazione e il maggiore impegno di quanti valuterebbero
l'occasione offerta dal sorteggio, tanto più consistente quanto più alto sarebbe il numero dei seggi conquistati dal partito
.Con ciò significando che l'interesse personale troverebbe possibilità di successo solo ed esclusivamente nel maggior successo del partito.
Personalmente ritengo che una tale innovazione potrebbe risollevare le sorti del Socialismo italiano e richiamare l'attenzione di molti astensionisti e di tanti giovani sfiduciati, ponendo fine alla "sudditanza"delle "mosche cocchiere" Un saluto, Roel..