giovedì 11 febbraio 2016

Franco Astengo: Borse

BORSE IN PERDITA E CALO DEL PREZZO DEL PETROLIO di Franco Astengo Le difficoltà della globalizzazione e l’incertezza dei mercati appaiono rappresentare i punti distintivi nell’attualità del ciclo. La scala del crollo dei prezzi petroliferi, molto più ripida di quanto preventivabile mesi or sono, fa emergere una prospettiva di deflazione. Questo è il primo elemento sul quale appuntare la nostra attenzione. Il secondo è rappresentato da una vera e propria “caduta seriale” delle Borse mondiali causata principalmente dalla pubblicazione degli indici degli ordinativi in Cina e negli Stati Uniti. Gli interrogativi, a questo punto, sono molteplici: reazioni esagerate da parte dei mercati logorati dalla ripresa anemica e dai morsi dei debiti? Oppure segni premonitori di una nuova recessione? Al prezzo di un barile di petrolio di 18 mesi fa, oggi se ne comprano quattro. Le cause del fenomeno sono molteplici: il caos, alimentato dalle grandi potenze, causato dalle guerre per procura e dal fanatismo terrorista in Medio Oriente; il rallentamento della domanda in quelle che furono definite “economie emergenti”; la politica monetaria degli USA che rafforza il dollaro; l’eccesso di offerta petrolifera scaturita prima dalla sfida dell’autosufficienza energetica lanciata dallo shail oil americano ( l’estrazione da scisti ha aggiunto al greggio convenzionale prodotto dagli USA 4,5 milioni di barili il giorno), poi dalla risposta dell’Arabia Saudita in difesa delle sue quote di mercato, infine dal prossimo rientro nel mercato petrolifero da parte dell’Iran, dopo la lunga assenza imposta dalle sanzioni occidentali. Secondo i dati di gennaio dell’OPEC l’offerta globale ha superato, nel corso del 2015, la domanda globale di due milioni di barili il giorno: la domanda è crescita ma l’offerta è cresciuta il doppio. L’agenzia americana dell’energia (EIA) prevede per il 2016 un calo produttivo di 700.000 barili il giorno. La frenata cinese intacca il prezzo del barile in due modi: la domanda petrolifera della Cina è comunque cresciuta nel 2015 tra il 3,5% e il 5% ma i ritmi passati della crescita cinese, combinati con le politiche monetarie espansive, hanno contribuito a creare una sovra capacità produttiva che ora stronca i prezzi. Adesso inizia l’inversione: l’industria petrolifera ha cancellato progetti per circa 400 miliardi di dollari e i tagli degli investimenti cinesi si prevede che nel quinquennio sino al 2020 ammonteranno a 1.800 miliardi di dollari. Complessivamente, sul piano globale, le riserve sono fortemente svalutate e con esse i bilanci patrimoniali delle compagnie energetiche nei paesi produttori: precipitano così le rendite petrolifere, le entrate statali, le valute nazionali. Le Borse rappresentano l’ultimo ingranaggio di questa cinghia di trasmissione ma ne sono anche l’amplificatore, rendendo la realtà del ciclo immediatamente visibile al grande pubblico. I mercati azionari hanno perso nelle prime tre settimane dell’anno 4.000 miliardi di dollari di ricapitalizzazione. Nei movimenti delle Borse si combinano aritmetica finanziaria e scommesse sui valori, sulle dinamiche, sui rischi delle società quotate. Calcolo e azzardo, mercati e bische: tra affari, vanità e inganni nelle Borse s’inscena una parte del processo di centralizzazione dei capitali. Un processo che inizia nelle banche: ogni banca diventa una Borsa, nell’epoca del capitale finanziario. Emblematica, sotto quest’aspetto, diventa la vicenda delle quattro banche della Toscana e delle Marche luoghi di perdizione per i piccoli risparmiatori truffati. E’ stato il settore bancario, accanto all’energia, alle materie prime e alle industrie di base afflitte da un eccesso di capacità, a guidare la caduta delle Borse. Il lungo ciclo del debito e delle esposizioni bancarie in prestiti deteriorati e inesigibili perverrà probabilmente nel 2016 a un momento di vero e proprio riallineamento sistemico. Da una parte l’aumento dei tassi americani rincarando il servizio del debito in dollari finirà con il cozzare con le ex-economie emergenti e porrà forti interrogativi monetari alla Cina. Dall’altro lato si verificherà l’ingresso in vigore, in Europa, delle nuove regole sulle risoluzioni bancarie. L’indebitamento in dollari delle ex-economie emergenti è di 4.000 miliardi di dollari di cui 1.000 in conto alla Cina; le sofferenze delle banche europee, stimate in novembre dalla BCE sono circa 1.000 miliardi di dollari, per un quinto in carico all’Italia; il debito dell’eurozona interessato al fiscal compact è il 35% del PIL ma per l’Italia è il 75%, circa 1.200 miliardi di debiti da smaltire in un ventennio. La farsa anti-austerity di Renzi poggia quindi su di una vera voragine che minaccia di inghiottire l’intera economia del Bel Paese. Durante la crisi il FMI ha abbandonato il rigido rifiuto sul controllo dei capitali, dando copertura ad alcune misure del governo brasiliano, ma adesso sembra riflettere su alcune mosse ulteriori rivolte verso una più sistematica limitazione del liberismo finanziario. Il tema è di assoluta urgenza e importanza come suggeriscono i deflussi di capitali dalla Cina: un fenomeno che necessariamente apre il dibattito tra svalutazione (scelta fin qui perseguita dalla Banca Centrale cinese) stabilizzazione del tasso di cambio e controlli sui capitali. L’ultima opzione richiederebbe un drastico cambio di rotta, sul piano politico, da parte del gruppo dirigente del PCC. I pessimisti prevedono, ragionevolmente, una terza ondata nella crisi del debito: un nuovo tsunami che invaderebbe le economie emergenti dopo aver toccato l’America e l’Europa trovando alimento nelle cadute delle Borse di Shangai, nelle svalutazioni monetarie, nelle recessioni del Brasile e della Russia. Un potenziale contagio che potrebbe riversarsi sull’Occidente. Mentre riemergono i fantasmi della contrapposizione tra blocchi con la ripresa di un ruolo imperiale, sul piano militare, da parte della Russia e le forti pericolose incertezze delle potenze occidentali in particolare sullo scacchiere del Centro Asia e del Medio Oriente incombe sull’economia mondiale una vera e propria “Bolla Cinese” intesa come fenomeno internazionale: la Cina non rappresenta, come ingenuamente qualcuno pensava, una “macchina di crescita perpetua”. Nonostante i massicci investimenti fatti ovunque, dall’Africa alla Thailandia la “Bolla Cinese” potrebbe scoppiare comunque e creare più danni alla politica mondiale di quelli creati dalla crisi del sub prime. L’Europa assiste a questi fatti rannicchiata e sostanzialmente spettatrice assente dal grande gioco, rivelando quanto pesi il nanismo politico. L’ordine mondiale vacilla alle prese con aspri conflitti e una difficile stabilizzazione. A sinistra, denunciata la realtà della crescita delle diseguaglianze come fattore endemico di crisi (dopo Piketty e Atkinson sta uscendo “Frattura” di Stiglitz ) manca completamente la capacità di esprimere una proposta alternativa e anche di indicare almeno il campo reale d’intervento. L’incertezza del futuro non pare smuovere alcun intento di contrasto e di opposizione alternativa sul piano politico, limitandoci a richiami movimentistici come nel caso del tentativo sovranazionale di Varoufakis. Un vero e proprio smarrimento che potrebbe rivelarsi del tutto esiziale: i rischi di una fase di ulteriore divaricazione sul piano globale e di crescita delle prospettive di guerra sono proprio dietro l’angolo.

6 commenti:

claudio ha detto...

molto più semplicemente, il calo del prezzo del petrolio costringe i paesi produttori che compravano il consenso sociale con gli esagerati utili sul petrolio a rendere più liquidi i loro investimenti, passando dall’azionario ai bond. E anche la Cina, che ha un notevole patrimonio investito all’estero, deve smobilitare per far fronte all’imminente crisi del loro sistema bancario, l’unico settore economico ancora gestito direttamente dal partito.

lorenzo ha detto...

Se si vuol dire, in parole povere, che il capitalismo globale, ovvero sistema dominante in tutto il mondo, abbia gravissimi difetti, primo fra tutti quello di aumentare le disuguaglianze, siamo d’accordo. Bisogna anche dire che le disuguaglianze nella seconda metà dello scorso secolo erano state ridotte, quindi non si può affermare che sia nella “natura” del capitalismo accrescerle. E’ ovviamente fondamentale l’azione dei governi, come ad esempio quelli Paesi scandinavi che hanno contenuto questa divaricazione. Se invece si vuol dire marxisticamente, dipingendo un quadro disastroso, che il capitalismo sia avviato alla fine, ho fortissimi dubbi (e non credo di essere il solo) che ciò accada. Cordialmente. Lorenzo Borla


dario ha detto...

Caro Lorenzo il capitalismo è destinato per sua natura stessa ad aumentare le disuguaglianze, poi in che misura riesce ad aumentarle è compito della politica definirlo. Nel secolo scorso prevaleva un modello capitalistico Euro-americano che aveva fatto del Keynesismo il suo tratto distintivo, non perchè fosse un social-capitalismo ma semplicemente perchè la politica keynesiana praticata dagli Stati era utile per il suo sviluppo, era una teoria economica liberale che si basava soprattutto su due gambe importanti ed utili per il capitalismo produttivo: i consumi e i grandi investimenti pubblici. Dagli utili generati da questa politica economica derivò la redistribuzione (quello che fu chiamato il compromesso socialdemocratico) che fu utile per costruire un ceto medio in grado di accrescere i consumi e pertanto in grado di pagare più imposte che metteva gli Stati in grado di investire (il circolo virtuoso generato dal keynesismo).
Passo per semplicità ad esplicare il caso italiano, caso scuola su cosa non si deve fare.

Negli anni 70 il saggio di profitto, anche grazie alle lotte sindacali iniziò a scendere (fu allora che Carli, presidente di Confindustria, propose ai sindacati di definire una politica dei redditi in grado di far rialzare i profitti) e la terza gamba del keynesismo (gli investimenti privati) iniziò ad avere problemi, e fu allora che lo Stato si fece imprenditore anche di aziende decotte (ricordi la GEPI?) per salvare l'occupazione (ed i salari connessi).
Il capitalismo fu salvato (soprattutto nella sua componente finanziaria) dall'introduzione dell'automazione in produzione, con il risultato di ridurre il monte salari e con la logica conseguenza di ridurre la propensione al consumo (che peraltro per un ventennio abbondante fu sostenuta dal credito al consumo).
Torno alla geopolitica mondiale
Il passaggio che cambiò definitivamente il mondo fu il crollo delle barriere verso est a fine anni 80 e la contestuale introduzione dell'informatica nelle attività produttive (fu allora che si introdusse il just in time che ridusse praticamente a zero le immobilizzazioni finanziarie necessarie per i magazzini) la produzione divenne molto più efficiente ma soprattutto si aprirono dei mercati enormi con i quali stiamo facendo i conti ancora adesso.
Oggi siamo alla fase finale di quel processo, l'intelligenza artificiale sta introducendo dei robot e degli avatar in grado di sostituire gli umani in molti lavori sinora "salvati" dalla terza rivoluzione industriale (quella dell'automazione): i lavori di concetto.
Come diceva un paio di secoli fa il saggio di Treviri è l'economia che determina la politica, non viceversa, ma la Storia socialista ci ha anche insegnato che la politica può porre molti vincoli ala libertà assoluta, ma occorre un Socialismo Internazionalista che oggi non c'è. Oggi l'unico vero internazionalista (al di la del capitalismo) è una persona vestita di bianco che ogni tanto (diciamo di domenica) si affaccia ad una finestra e dice cose che i socialisti, ormai obnubilati dal potere fine a se stesso, non dicono più.
Fraterni saluti
Dario


PS mi sa che, come sempre, le vere rivoluzioni nascono nella patria del capitalismo, stiamo a vedere cosa farà il compagno Bernie (per parafrasare il titolo di un film si potrebbe dire vediamo cosa faranno "Bianco e Bernie")

alberto ha detto...

Caro Dario, ciò che accomuna gli iscritti al circolo Rosselli dovrebbe essere, se non sbaglio, la cultura socialista. E quindi non dovremmo andare a cercare sempre nuove “ispirazioni” ma cercare ogni tanto di “ritornare” ai nostri “ comuni “ fondamentali”. Quanto tu scrivi è stato alla base del più importante manifesto del pensiero socialista riformista europeo: il congresso della SPD del 1959, che diede un contributo determinante alla realizzazione del modello sociale europeo e il cui manifesto politico conclusivo così recitava alla voce Proprietà e Potere “ Un carattere essenziale dell’economia moderna è il processo di concentrazione che si va continuamente rafforzando. Non solo le grandi imprese determinano in modo decisivo l’evoluzione dell’economia e del livello di vita, ma esse modificano anche la struttura dell’economia e della società: Chi nelle grandi organizzazioni economiche ha potere di disporre di milioni di marchi e decine di migliaia di lavoratori, non si limita a fare dell’economia, ma esercita il potere sugli uomini, la dipendenza degli impiegati e degli operai va molto al di là della sfera economico-materiale. ..... Con il loro potere, ulteriormente rafforzato da cartelli e consorzi, gli uomini che dirigono la grande industria ( oggi si aggiunge di sicuro soprattutto la grande finanza) esercitano un influsso sullo Stato e sulla politica che non è conciliabile con i princìpi democratici. Essi usurpano il potere statale. Il potere economico si trasforma in potere politico. Questo stato di cose è una provocazione per tutti coloro che nella libertà e dignità umana, nella giustizia e nella sicurezza sociale vedono le basi della società umana. Il contenimento del potere della grande industria ( e grande finanza) rappresenta dunque il compito centrale di una politica economica liberale. Lo Stato e la società non devono diventare preda di potenti gruppi d’interesse. La proprietà privata dei mezzi di produzione ha diritto ad essere protetta e incentivata, fintanto che essa non ostacola la costruzione di un ordine sociale giusto. ..... “
Forse il signore vestito di bianco che tu citi a conclusione del tuo intervento e che nei suoi discorsi appare cosi attuale e “internazionalista” lo è perchè il movimento al quale appartiene da quasi duemila anni ha un “solo manifesto politico” e non lo ha mai cambiato; anche se spesso non sempre, da chi lo ha preceduto, è stato ben interpretato ed attuato. Noi, invece, continuiamo a dimenticare, quando non dividerci e misconoscere, i nostri fondamentali, che così non potranno mai assumere una veste globale.

luigi ha detto...

Come è vero ..."cercare ogni tanto di "ritornare" ai nostri " comuni
" fondamentali".
Ma non c'è bisogno di invocare Bad Godesberg peraltro del 1959 ... i
nostri fondamentali sono ben anteriori, nel 1948 con la Costituzione
... ritornare a questi fondamentali sarebbe di questi tempi di
totalitarismo neoliberista ... riformismo socialista radicale. Meglio
per citare "il migliore" la via italiana al socialismo. E per citare
un altro Padre costituente Calamandrei più intellettualmente onesto:
"Una rivoluzione promessa per una rivoluzione mancata".
Ridare significato alla parole come riformismo non certamente quello
controriformista renziano ma alle riforme di struttura (titolo terzo
rapporti economici) del buonanima compagno Lombardi. Un faro per il
mondo della sinistra.
Saremmo in europa ben oltre il compagno Jeremy inglese e del compagno
americano Barni.
Ma tantè siamo ammalati di esterofilia per evidente sensi di
inferiorità.
Un dialogante saluto.
Luigi Fasce

Dario ha detto...

Rispondo a tutti i compagni che in questi giorni hanno avuto la bontà di discutere alcune mie riflessioni.
Personalmente ho alcuni studiosi che mi fanno da guida da quarantanni:
Il saggio di Treviri e la sua attualissima tesi che l'economia definisce il modello della politica;
Carlo Rosselli ed il suo socialismo liberale
JM Keynes e la sua teoria sulla moneta.....
Premesso che, come diceva un vecchio e saggio liberale, la RICCHEZZA DELLE NAZIONI si redistribuisce lungo tre aggregati principali: Profitto, Rendita e Lavoro,
tutto il resto viene di conseguenza.
Il prevalere come in questa fase della redistribuzione della ricchezza mondiale verso la RENDITA FINANZIARIA impoverisce di conseguenza il LAVORO (ed anche i Profitti delle aziende di produzione di merci) e rende difficile se non impossibile lo sviluppo di un paio delle gambe su cui si regge il Keynesismo: i consumi e gli investimenti pubblici, ed è esattamente di questo che si discute in questi giorni.
Purtroppo come sempre i giudici sono sempre più avanti dei politici, sono gli unici che stanno facendo pagare le imposte alle grandi imprese globali (vedere le sentenze del tribunale di Milano), ma la strada è quella, occorre, come diceva Nenni, riprendere a tosare le pecore, anche se ormai sono cresciute tanto, ma per l'appunto è la strada su cui dovrebbe avviarsi una Internazionale degna di tal nome.
Tutto il resto è noia, è discussione sul nulla.
Fraterni saluti
Dario


PS caro Alberto, siccome Treviri non è tanto lontana da Bad Godesberg in quel documento si sentono eccome gli influssi del marxismo, anche se realisticamente i socialisti comprendono che l'idea della Rivoluzione non è più attuale e che sempre realisticamente è preferibile pensare ad una equa redistribuzione della ricchezza.