Craxi? Non solo corruzione: né riformatore, né statistaGianfranco Pasquino - http://domani.arcoiris.tv/, 3 gennaio 2010
Dieci anni fa Bettino Craxi morì, non in esilio, ma, condannato in via definitiva, latitante. Non risultano richieste di revisione dei suoi processi in base a nuovi elementi sopravvenuti. Sarebbe davvero sorprendente se si giungesse ad una sua “riabilitazione” (sulla base di quali elementi e di quali considerazioni?) attraverso un elogio dell’agire politico di Craxi. Anzitutto, non è affatto possibile sostenere con dati convincenti che Craxi abbia dato un impulso decisivo alla modernizzazione del paese e della politica. Ad ogni buon conto, i suoi meriti di improbabile modernizzatore andrebbero condivisi con la Democrazia Cristiana di Andreotti e di Forlani, non proprio notissimi modernizzatori. Il debito pubblico ebbe un’impennata irrefrenabile negli anni del pentapartito, proprio quelli nei quali Craxi esercitò il suo potere di interdizione sulla formazione e sulle attività dei governi, ma evidentemente non applicandolo alla spesa pubblica mentre il livello di corruzione politica cresceva enormemente.
Che Craxi abbia chiamato a correo tutti i segretari degli altri partiti, probabilmente beneficiari di buona parte di quella corruzione, non costituisce una attenuante. Piuttosto è una confessione. E Craxi non fu il solo a pagare poiché tutti segretari del pentapartito furono indagati e variamente condannati. Che Craxi meriti il titolo di statista è molto dubbio se con statista ci si riferisce a chi antepone il bene del sistema politico, ovvero della Repubblica, alle fortune del suo partito. Al contrario, il filo conduttore di tutta l’attività politica di Craxi è costituito dal suo sforzo ossessivo di accrescere il peso elettorale e il potere politico del Partito Socialista. Il peso elettorale del PSI aumentò, ma non di molto; il potere politico di troppi socialisti crebbe al di là di ogni previsione, molto oltre il loro peso elettorale. Vennero rovesciate parecchie giunte, non solo con i comunisti, e giunsero al governo di città, provincie e regioni dirigenti accuratamente lottizzati, con casi talmente clamorosi che finirono per diventare il detonatore dalla riforma elettorale.
Da lui duramente osteggiata, la riforma elettorale è la cartina di tornasole del Craxi definito riformatore. L’invito nel giugno 1991 ad “andare al mare” per fare fallire il referendum elettorale sulla preferenza unica suggellò un decennio di ostruzionismo sordo e cieco a qualsiasi proposta di riforma. L’uomo che aveva lanciato, in maniera già allora facilmente valutabile come propagandistica, la Grande Riforma (1979), fece deliberatamente fallire la Commissione per le Riforme Istituzionali (1983-1985) definita Bozzi dal nome del suo Presidente, il liberale Aldo Bozzi. Il suo più grande merito fu quello di avere combattuto e vinto, da giocatore d’azzardo, il referendum chiesto dai comunisti contro il taglio di due punti della scala mobile. Mi limito a constatare che la battaglia fu ingaggiata soprattutto con, peraltro legittimi, obiettivi politici: dimostrare l’esistenza di divisioni dentro la CGIL e evidenziare l’irrilevanza del PCI.
I suoi estimatori sostengono che Craxi mirava in modo speciale a “social democratizzare” il PCI e a sostegno della loro tesi portano l’atteggiamento non pregiudizialmente ostile della corrente migliorista guidata da Giorgio Napolitano il cui stile politico era e rimase agli antipodi di quello del segretario socialista. In quanto appartenente alla sottocorrente dei perfezionisti, ieri come oggi, quindi ultraminoritario, credo di potere sostenere che Craxi mirava non all’unità delle sinistre, ma alla subordinazione del PCI al PSI. Dopo il crollo del muro di Berlino non lanciò nessuna iniziativa politica nei confronti del PCI preferendo attendere l’eventuale sorpasso in occasione delle elezioni dell’aprile 1992.
L’opera di un dirigente politico si misura anche in base alle sue conseguenze. Chi ha imparato l’impareggiabile lezione di Max Weber, sa che gli intellettuali possono anche, purché siano disposti a pagarne il prezzo personale, ispirarsi all’etica della convinzione, che impegna soltanto loro e la loro coscienza. Invece, i politici hanno il dovere morale di utilizzare l’etica della responsabilità ovvero di agire tenendo presente, nella misura del possibile, e cercando di prevedere, che cosa succederà.
Craxi uscì di scena e poi fuggì nel bel mezzo di una crisi di regime che distrusse tutti i partiti suoi alleati unitamente al partito che lui stesso aveva guidato e plasmato per quindici anni. Tutta la sinistra italiana ne risultò fortemente ridimensionata, scendendo per la prima volta al disotto del trenta per cento dei voti. Non soltanto il sistema politico italiano apparve peggiorato con riferimento a tutti gli indicatori, ma si aprì al buio una transizione politico-istituzionale che ha fatto emergere il peggio (che, abbiamo scoperto, essere tantissimo e diffusissimo) della società e della politica italiana. Sarebbe fare troppo onore a Craxi sostenere che tutto questo fu opera sua, ma certamente gran parte di questo è la conseguenza di un nefasto “duello a sinistra” che non modernizzò né il paese né il PCI né la sinistra italiana. Stiamo, noi di sinistra, ma anche il PD, che, a sua volta, ne porta non poche responsabilità, ancora pagando il prezzo della mancata modernizzazione politica ed etica. Se non risponde soltanto ad una deteriore strumentalizzazione politica, la riabilitazione di Craxi è l’ennesimo segnale che la politica e l’etica di questo paese continuano a rimanere a livelli bassissimi.
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