lunedì 2 marzo 2009

Carlo Federico Grosso: l'urgenza fa male alla legge

Da La Stampa


2/3/2009

L'urgenza fa male alla legge





CARLO FEDERICO GROSSO

L’hanno dichiarato cardinali e vescovi, l’hanno ripetuto politici e persone comuni: si tratta di omicidio. Qualcuno, zelante, ha anche presentato una denuncia. La procura della Repubblica ha, di conseguenza, iscritto i responsabili della procedura nel registro degli indagati con l’imputazione di omicidio volontario.

È ragionevole pensare che tale vicenda giudiziaria, se i protocolli sono stati rispettati, si afflosci subito, poiché c’è stata una sentenza che ha riconosciuto a Eluana Englaro il diritto di morire, e pertanto al suo tutore e ai medici il diritto di procedere. E se si esercita un diritto non si può, nello stesso tempo, commettere un reato.

L’ultima coda della vicenda ripropone, comunque, il tema della presenza minacciosa del codice penale in ogni caso di «morte accompagnata», si tratti di omesso accanimento terapeutico, di cura palliativa, di stacco della spina o del sondino. Si ricorderà che anche nel caso Welby, dove una persona cosciente aveva manifestato la volontà d’interrompere il trattamento che le consentiva di respirare, dopo la morte è dovuto comunque intervenire un giudice per riconoscere la liceità di quanto era accaduto.

Sul terreno della tutela della vita il codice è rigoroso. Commette omicidio chi cagiona la morte di un uomo.

Costituisce condotta omicidiaria sia l’azione che determina la morte (sparare, avvelenare), sia l’omissione di atti che avrebbero impedito di morire (omessa erogazione di cibo, di cure). Ma non solo: cagionare l’accorciamento della vita equivale, per la legge, a causare la morte.

La volontà di proteggere in maniera forte la vita emerge, altresì, dalle norme che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o l’aiuto al suicidio. La vita è bene assolutamente indisponibile, si ragiona, e pertanto il consenso a essere uccisi non giustifica, mentre chi determina altri al suicidio, o lo agevola, è considerato, nella sostanza, un concorrente in omicidio.

Queste norme sono state, ovviamente, pensate con riferimento alla normalità della vita che viene offesa: la vita di chi sta bene o di chi, seppure malato, non si trova in una condizione estrema (malattia terminale, incoscienza persistente). Di per sé, esse parrebbero tuttavia applicabili a ogni ipotesi di privazione o accorciamento della vita. E in effetti, fino a una quarantina di anni fa, nessuno azzardava che fosse lecito interrompere le cure principali a un malato terminale o praticare interventi palliativi al costo di abbreviare i tempi naturali della vita.

Poi le cose sono cambiate. Si è giudicato, pian piano, che l’accanimento terapeutico nei confronti del malato terminale costituisse una inutile protrazione di sofferenza e che fosse preferibile interrompere le cure principali e affidare alla natura il decorso di fine vita. È emersa, nel contempo, una grande attenzione per il problema dell’eliminazione del dolore. In questa prospettiva si è cominciato a pensare, pesando vantaggi e svantaggi, che l’erogazione di sostanze idonee fosse comunque consentita.

Oggi, con la benedizione della Chiesa, entrambe tali pratiche sono diventate prassi e norme deontologiche mediche, anche se esse non sono state, fino ad ora, espressamente legittimate da una legge. La scienza giuridica, di fronte alla nuova realtà, ha spiegato che nel caso dei malati terminali non c’è ragione di sostenere con le medicine una vita ormai consunta. Non c’è, nella realtà, più vita dignitosa e viene quindi meno il dovere giuridico di impedire (o procrastinare) una morte comunque prossima, salvo che il malato abbia dichiarato di voler essere curato fino in fondo.

Rimane aperto, invece, il problema della liceità o meno dello stacco della spina o dell’interruzione dell’alimentazione artificiale di chi si trova in stato di coma persistente. Si tratta di un ulteriore caso estremo, che si differenzia dal precedente per non essere, il malato, in una condizione di vita terminale. La sua vita incosciente può durare anni. È certo, soltanto, che non dovrebbe più risvegliarsi.

Di fronte alla condizione d’incoscienza persistente, nessuno si è sentito di affermare che è lecito staccare la spina o interrompere l’alimentazione artificiale. La situazione cambia, soltanto, nel caso in cui il malato, quando era cosciente, abbia manifestato la volontà di non essere sottoposto a trattamento. In quest’ipotesi, si sostiene, le norme sulla protezione della vita dovrebbero cedere il passo al principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario contro la sua volontà (art. 35 della Costituzione). In caso di mancanza di volontà manifestata, nessun terzo potrebbe, comunque, legittimamente intervenire.

La legge sulla fine della vita dovrebbe, ora, fare chiarezza su tutti questi punti, e in astratto sarebbe bene che ciò accadesse. In materia di accanimento terapeutico e cure palliative vi è ampio consenso. In tema di alimentazione artificiale, invece, grande divisione: c’è chi sostiene che l’alimentazione dovrebbe essere imposta anche a chi ha dichiarato di non volerla, chi ritiene che la volontà del paziente debba essere rispettata, chi propone di affidare, pure in questo caso, la decisione all’apprezzamento di medici e fiduciari.

Il rischio è che, nella concitazione del momento, la politica si lasci sopraffare da sentimenti ed emozioni e licenzi una legge pessima, prevaricatrice di diritti e libertà. E allora, perché non soprassedere, aspettando che, decantate le reciproche acrimonie, tempi più provvidi consentano l’adozione di

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