da La Stampa
17/2/2009
La crisi uccide l'Europa
GIAN ENRICO RUSCONI
L’Europa politica è morta, vittima della depressione internazionale. Ma nessuno lo dice apertamente. Troppo grande è la complicità delle classi politiche. Troppo umiliante è l’ammissione da parte della nomenclatura dell’Ue e delle sue clientele nazionali, capaci soltanto di fare bei discorsi. Troppo profondo è lo sgomento dei cittadini che hanno creduto nel ruolo politico attivo dell’Unione europea. Eppure è sorprendente quanta pazienza mostrino i cittadini, messi davanti all’inadeguatezza della classe dirigente europea e all’impotenza delle classi politiche. Lo fanno perché sono troppo depressi per reagire? Oppure perché, nonostante tutto, rimangono leali verso il più grande sogno che l’Europa abbia coltivato da mezzo secolo a questa parte? La differenza più significativa della crisi odierna, rispetto alla sempre evocata grande depressione del 1929, non è soltanto l’assenza di progetti alternativi stimolati a suo tempo dalla presenza politicamente minacciosa di forze socialiste (e comuniste) radicali. La differenza di oggi sta anche nella rassegnazione della popolazione. Non crede a soluzioni alternative radicali.
Forse molti, in cuor loro, non credono neppure al catastrofismo interessato di chi - ai vertici dell’economia, della finanza e della politica - sino all’altro ieri rispondeva con arroganza a chi segnalava con preoccupazione il crescente peggioramento delle condizioni di vita.
O a chi segnalava addirittura l’impoverimento assoluto di molti strati della popolazione. Da qualche anno lo si diceva, molto prima che scoppiassero le bolle del capitalismo finanziario e speculativo fuori controllo. Quanto è accaduto è stato un grande inganno. La gente lo percepisce, anche se mancano strumenti precisi d’identificazione delle responsabilità. Ma è evidente che c’è stata una complicità oggettiva di tutti i ceti dirigenti economici, finanziari, politici. Per incompetenza, imprudenza, mancanza di lungimiranza, mancanza di professionalità. Questo è il vero peccato capitale della ex orgogliosa classe dirigente. Non c’è bisogno di ricorrere a cattive intenzioni o a malvagità. È davanti alle sfide più difficili e impreviste che si vede il valore delle classi dirigenti.
Torniamo alla defunta Europa politica. Non è un caso che nel documento licenziato dai ministri del G7 non si parli neppure di passaggio dell’Europa. Ci si rivolge agli Stati nazionali. Si fa loro la patetica predica di non cadere nel protezionismo, di non chiudersi in ristrette misure di difesa nazionale. Queste raccomandazioni sono enunciate dopo settimane che gli Stati europei, Francia e Germania in testa, hanno deciso «sovranamente» (è proprio il caso di dirlo!) misure di difesa delle economie nazionali, senza interessarsi minimamente alle conseguenze per gli altri paesi dell’Unione. Da Bruxelles si sono sentiti soltanto flebili lamenti d’impotenza. In realtà la crisi ha soltanto strappato il velo della retorica europeista, zelantemente tessuto in questi ultimi anni (anche negli ambienti accademici), mentre la realtà andava in direzione opposta.
In questi giorni si sta verificando un episodio che merita di essere conosciuto. Riguarda la Germania, il Paese che più d’ogni altro prende sul serio la costruzione europea e affronta i problemi a viso aperto, non eludendoli, come avviene da noi. Si tratta dell’acquisizione o meno delle decisioni prese anni fa dall’Unione europea a Lisbona. Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale federale tedesca dovrà pronunciarsi in merito a obiezioni d’incostituzionalità del Trattato di Lisbona, nel caso venisse accettato nel corpo legislativo tedesco. Non sarà un pronunciamento di routine. Si riproporrà in termini più drammatici la situazione che la Corte dovette affrontare nel 1993 quando vennero sollevate analoghe obiezioni per il trattato di Maastricht. Da quella situazione la Corte uscì con un’elegante dichiarazione di riserva costituzionale a favore delle prerogative del Parlamento tedesco che tuttavia non avrebbe rallentato il successivo processo di europeizzazione.
Questa volta le accuse contro l’Europa di Lisbona sono ancora più ferme e avanzate, a cerchio concentrico, dalla destra e dalla sinistra, da uomini politici e da manager dell’economia. La destra politica, rappresentata da un politico della Csu bavarese, denuncia una secca inaccettabile perdita di sovranità nazionale della Germania. Il rappresentante della Linke (la nuova formazione della sinistra d’opposizione) teme invece il venir meno del controllo del Parlamento tedesco sui temi della politica sociale e degli impegni militari internazionali della Germania. Non sono questioni di poco conto. Tanto più che questa volta la Corte tedesca deve prendere atto anche di un importante trasferimento alla Corte europea di Lussemburgo di competenze che sinora erano state sue.
Le previsioni degli osservatori sono caute. Nessuno ritiene che la Corte Costituzionale federale dichiarerà esplicitamente la incostituzionalità del Trattato di Lisbona. Ma certamente solleverà molte riserve, dagli effetti imprevedibili. Non mancheranno conseguenze sull’atteggiamento del governo tedesco che già nelle misure di contrasto della crisi si è mosso sinora in modo autonomo, con la disinvoltura di tutti gli altri governi europei. A questo punto è rituale augurarsi che il proseguimento della crisi economico-finanziaria produca un’inversione di tendenza e l’Europa politica abbia un soprassalto di orgoglio, che la porti a darsi una linea comune vincolante. Personalmente non lo ritengo probabile. Ma è rituale anche ricordare ottimisticamente che più di una volta l’Europa si è trovata in quella che sembrava una paralisi totale.
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