Estremo Occidente
Ieri 23 febbraio 2009, 13.53.31
Capitalismo patogeno, visto dallo psicologo
Ieri 23 febbraio 2009, 13.53.31 | rampini
Ci sono idee che aspettano il loro momento per essere riscoperte. Di colpo vengono baciate dal successo perché degli eventi traumatici ci costringono a cambiare la nostra percezione del mondo. E’ il caso del lavoro di Oliver James, autorevole psicoterapeuta inglese che da anni elabora una diagnosi “clinica” sul capitalismo contemporaneo. E’ significativo che oggi a spiegarci i mali dell’economia sia uno psicopatologo, noto per i suoi studi sui disturbi dell’infanzia e sulla violenza giovanile.
Non è strano. In fondo il termine “depressione” si usa sia nella scienza economica che in psichiatria. E uno degli ultimi premi Nobel dell’economia ha coronato lo studio delle interazioni fra la nostra mente e i mercati: dal conformismo delle masse alla imprevedibile emotività che guida le scelte dell’investitore finanziario.
Nel suo ultimo saggio, “Il capitalista egoista” (Codice Edizioni), James rielabora e perfeziona la tesi che sostiene da anni. In ogni nazione dove è stata introdotta la versione più avanzata del capitalismo, osserva, la maggioranza dei lavoratori ha visto diminuire la propria quota del reddito nazionale mentre una minoranza di privilegiati si è arricchita enormemente. La sicurezza del posto di lavoro è calata con fenomeni come il part-time, il precariato, la flessibilità.
Certe fasce di lavoro dipendente hanno dovuto aumentare le ore lavorate per mantenere lo stesso tenore di vita. Un progresso nel reddito dei ceti medio-bassi, quando c’è stato, è dovuto all’aumento delle donne che lavorano: ma non è priva di costi psicologici la pressione esercitata su entrambi i genitori affinché svolgano un lavoro retribuito quando i figli sono ancora piccoli.
In parallelo con l’innalzamento dei consumi individuali c’è una crisi del risparmio, l’accesso alla proprietà della casa è difficile, la vita personale è stata colonizzata dal lavoro. Questi danni non sono del tutto nuovi ma James ritiene che siano aumentati a dismisura con l’avvento del “capitalismo egoista”: una forma particolarmente patogena, con effetti distruttivi sul nostro equilibrio mentale e la nostra serenità.
Per “capitalismo egoista” James intende quel sistema economico e quell’ideologia d’ispirazione angloamericana che altri hanno chiamato di volta in volta Supercapitalismo, turbo-capitalismo, iperliberismo, mercatismo.
James definisce così i suoi tratti distintivi. “Il primo è che il successo di un’azienda è giudicato dalla sua quotazione in Borsa, invece che dalla sua forza intrinseca o dal contributo che può offrire alla società e all’economia. Il secondo è una forte spinta a privatizzare i beni e i servizi della collettività. Il terzo è una regolamentazione minima dei servizi finanziari e del mercato del lavoro, tesa a favorire i datori di lavoro rendendo più semplici i licenziamenti. Inoltre l’imposizione delle tasse non punta a redistribuire la ricchezza: per le grandi aziende e per i ricchi è più facile evitarle e rifugiarsi nei paradisi fiscali senza infrangere la legge”.
Il capitalismo egoista è ansiogeno e psicologicamente distruttivo non solo per la pressione sulla produttività del lavoro e lo stress da competizione, ma anche perché alimenta aspirazioni irrealistiche e malsane. “Nella società del Grande Fratello molte persone pensano che anche loro un giorno potranno essere famose. Le tossine più velenose per il benessere sono racchiuse nell’idea che la ricchezza materiale è la chiave del successo, solo i ricchi sono vincenti e l’accesso alle sfere più alte della società è consentito a chiunque; se non ci riuscite c’è solo una persona cui potete dare la colpa: voi stessi”.
La pressione sull’individuo viene aumentata dal diffondersi di un darwinismo sociale che giustifica le politiche economiche neoliberiste. L’espressione “sopravvivenza del più forte” (che in realtà non appartiene a Darwin bensì a Herbert Spencer) giustifica immense e crescenti disparità di ricchezza. Chi sta in fondo ansima e soffre in silenzio, o si sfoga su chi gli sta vicino.
L’opera di James s’inserisce in una tradizione illustre e pluridisciplinare. Alcune fra le pagine più durevoli di Karl Marx riguardano l’alienazione nella società capitalista. L’analisi dell’ingranaggio consumista più moderno ha sedotto menti brillanti come l’economista John Kenneth Galbraith con “La società opulenta” e il sociologo Vance Packard con “I persuasori occulti”, due saggi che alla fine degli anni Cinquanta illuminarono il fenomeno dei “bisogni indotti”.
James ha due autori di riferimento importanti. Il primo è il francese Emile Durkheim, uno dei fondatori della sociologia moderna, che con il suo celebre studio sui suicidi nell’Europa del XIX secolo mise in evidenza i costi umani e i danni psicologici prodotti da industrializzazione e urbanizzazione. Il secondo autore, che James considera come un vero maestro, è lo psicanalista Erich Fromm, tedesco emigrato negli Stati Uniti. La sua critica del materialismo formulata oltre mezzo secolo fa (“Psicoanalisi della società contemporanea”, 1955), secondo James contiene tutti gli elementi di una diagnosi attuale.
“Abbiamo – scriveva Fromm mezzo secolo fa – un’alfabetizzazione superiore al 90%, abbiamo radio, tv, cinema, un quotidiano per tutti. Ma invece di concederci il meglio della letteratura e della musica passate e presenti, questi mezzi di comunicazione, coadiuvati dalla pubblicità, riempiono le menti con la peggior spazzatura, priva di qualunque senso di realtà”.
Sempre Fromm sosteneva che fossimo divenuti caratteri mercantili: “Il valore dell’individuo dipende dalla sua vendibilità. L’abilità e le competenze non sono sufficienti: bisogna anche essere capaci di “comunicare la propria personalità” nella competizione con gli altri. Buona parte di ciò che viene chiamato amore è ricerca di approvazione. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica, non solo alle quattro del pomeriggio ma anche alle dieci e a mezzanotte: sei in gamba, vai bene. Si dimostra il proprio valore anche scegliendo la persona giusta; si ha il diritto-dovere di innamorarsi di qualcuno all’ultima moda”.
Certamente una società che promuove machiavellismo e camaleontismo, che accentua le diseguaglianze sociali ed esaspera l’inseguimento di ogni status-symbol, che esalta la selezione del più forte e umilia gli sconfitti, si merita la severa denuncia che fu fatta da Fromm e che oggi James attualizza. Il lavoro dello psicologo inglese convince meno quando individua negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna una patologia molto più grave che negli altri paesi; e ritiene che i livelli di “stress emotivo” nel capitalismo angloamericano sono di gran lunga superiori.
Di certo gli va riconosciuto il rigore dell’approccio scientifico. James non pretende di misurare la felicità umana. Si limita alla sindrome dello stress emotivo come viene definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Dalle stesse ricerche dell’Oms trae il principale sostegno alla sua tesi: lo stress emotivo nei paesi caratterizzati dal modello economico anglosassone risulterebbe molto superiore all’Europa continentale, al Giappone, ai paesi emergenti.
James riconosce uno dei rischi di queste statistiche: le indagini sul terreno possono dare risposte viziate da culture profondamente diverse. “I cinesi – ammette l’autore – concettualizzano le domande sugli stati mentali in maniera diversa dagli occidentali”. Lo rassicura il fatto che gli esperti dell’Oms hanno elaborato le loro domande “nel tentativo di renderle più neutre possibile rispetto alla cultura”.
Resta tuttavia difficile convincersi di fronte a quei dati: dove la percentuale della popolazione che ha sofferto di stress emotivo raggiunge il record del 26% negli Stati Uniti mentre risulta appena un terzo di quella percentuale in Germania (9%), in Giappone (8,8%) e in Italia (8,2%).
Sorge il dubbio che risultati tanto differenziati siano causati da diverse capacità o disponibilità a riconoscere come tali i sintomi dello stress emotivo. Stupisce il fatto che lo stress emotivo risulti bassissimo in Cina, dove il “darwinismo sociale” è forte, la selezione nel sistema scolastico è spietata, la competizione sul mercato del lavoro raggiunge punte estreme.
Lo stesso sospetto si insinua nei raffronti storici. “Oggi un americano ha possibilità fra le tre e le dieci volte più alte di soffrire di depressione rispetto al 1950”, scrive James. Mezzo secolo fa però c’era molta più reticenza a confessare le proprie sofferenze, l’ambiente sociale tendeva a demonizzare la malattia mentale, i sintomi della depressione non venivano diagnosticati con la stessa facilità.
C’è poi un capitolo dove James analizza i danni psicologici del materialismo: “Una delle ragioni principali dell’infelicità dei loro rapporti è che attribuire grande valore alla ricchezza, allo status e all’immagine porta i materialisti a sminuire le relazioni intime e il coinvolgimento nella comunità. I materialisti hanno tratti specifici che li rendono particolarmente inclini alla reificazione, essendo meno generosi e più egoisti, pronti a ignorare i bisogni umani degli altri”.
Qui l’autore scivola dalla critica al capitalismo contemporaneo a una critica verso una tipologia caratteriale, una categoria di persone e di valori morali che s’incontra in ogni epoca e in ogni civiltà: da Re Mida all’Avaro di Molière, da Donald Trump al capitalismo-pirata della contraffazione in Cina. Lo stesso James peraltro ammette che le eccessive diseguaglianze sociali dell’ultimo decennio rappresentano un ritorno ad epoche passate, come gli anni Venti del secolo scorso, già caratterizzate da una polarizzazione acuta fra le classi.
Resta il fatto che “Il capitalista egoista” ha il dono della tempestività. Coglie l’aria del tempo che viviamo. Interpreta la traumatica delusione verso le promesse di un modello economico, oggi imploso per le sue contraddizioni. E nella saggezza dello psicologo c’è anche spazio per uno squarcio di speranza: “E’ possibile che un’alternativa migliore sia proprio dietro l’angolo e che, per quanto pazzi possiamo essere, alla fine riusciremo a far prevalere il buonsenso”.
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