martedì 10 febbraio 2009

Andrea Romano: Bersani, il modello Prodi e il modello Togliatti

andrearomano
Oggi 10 febbraio 2009, 7 ore fa

Bersani, il modello Prodi e il metodo Togliatti
Oggi 10 febbraio 2009, 5 ore fa
Pierluigi Bersani è una persona per bene, è stato un buon amministratore di regione e un ottimo ministro di governo. Ma non sarà il prossimo presidente del consiglio, non avendo né il profilo né il carisma che sono richiesti a chiunque intenda rappresentare la maggioranza degli italiani. Essendo un uomo di solida lucidità, è probabile che lo stesso Bersani sia consapevole di questo suo limite. E come lui, ne sono certamente consapevoli quei segmenti di ceto politico che lo hanno incoraggiato a presentare con tanto anticipo la propria candidatura alla guida del PD e che si preparano a sostenerla nei prossimi mesi.

Qual è, allora, il senso di questa candidatura? Prima di tutto la consapevolezza che il PD si prepara ad archiviare qualsiasi pretesa di essere una forza potenzialmente maggioritaria nel paese, per diventare invece solo uno tra i molti partiti che comporranno la prossima coalizione alternativa al centrodestra. Un partito che con qualche ottimismo possiamo immaginare al 20-25 per cento dell’elettorato (quale potrebbe essere il PD guidato da Bersani) e che solo insieme ad altri soggetti politici potrà aspirare a raggiungere la maggioranza relativa dei consensi. L’altro sottotitolo della candidatura Bersani è che il PD si prepara a cercare fuori dai propri confini una personalità che abbia qualche possibilità di competere con il futuro candidato del centrodestra, replicando quel “modello Prodi” che fino ad oggi si è mostrato come l’unica strada a disposizione del centrosinistra per la conquista del paese.

Può darsi che in questi due significati vi sia la presa d’atto di uno stato di cose reale e non più modificabile, almeno nel medio periodo. Ma allora varrebbe la pena che Bersani e i suoi sostenitori lo spiegassero chiaramente all’opinione pubblica, senza nascondersi dietro il paravento di una critica dell’operato di Veltroni che è talmente scontata e condivisa da risultare priva di implicazioni politiche. Perché è ormai senso comune che Veltroni abbia fallito nella sua aspirazione di leadership, dopo aver fallito alla prova elettorale come candidato per la guida del paese. Ma dirlo non può bastare a spiegare cosa si voglia fare dopo di lui, a meno di non voler replicare il meccanismo della dissimulazione che tanto ha danneggiato il progetto veltroniano. A Bersani basterebbe poco per uscirne: spiegare perché fin qui le cose sono andate male, chiarire con quali forze intende coalizzarsi il suo PD, indicare una direzione nella quale cercare il personaggio esterno a cui affidare la leadership della coalizione. E su queste basi preparare il Partito Democratico ad una navigazione più modesta e realistica ancorché poco entusiasmante.

D’altra parte la strada per fare del PD una forza potenzialmente maggioritaria va in tutt’altra direzione rispetto a quella percorsa dai maggiorenti che puntano sulla candidatura Bersani. Perché nella scelta del suo nome c’è la convinzione che le chiavi per il futuro dell’Italia siano ancora nelle mani dell’ultima generazione che ha guidato il PCI: un ceppo che con Veltroni ha ormai raschiato il fondo della propria vitalità e dal quale non uscirà più niente di spendibile per la guida di un qualsiasi futuro governo. Che si perseveri su questa strada, per quanto con una personalità di indiscutibili qualità personali, non è solo il sintomo di una mancanza di fantasia. È il segno che lo stesso progetto del Partito democratico è considerato dalla sua leadership come uno strumento di sopravvivenza personale piuttosto che come una risorsa strategica per il futuro dell’Italia.

Ma la candidatura Bersani è anche la prova della ben scarsa consapevolezza che quella stessa leadership ha maturato sul cambiamento italiano di quest’ultimo ventennio. Si continua infatti ad immaginare che il PD debba essere affidato a chi si è formato politicamente prima di Berlusconi, nella convinzione che il berlusconismo sia una malattia nazionale di cui presto o tardi il paese arriverà a liberarsi per tornare ad uno stato di mitica verginità. Ci si potrebbe invece aspettare qualcosa di diverso dagli eredi storici di Palmiro Togliatti. Un signore che, tornato in patria dopo il ventennio di Mussolini, scelse con grande realismo di puntare sulla generazione cresciuta nel fascismo per costruire una forza politica capace di rappresentare una nazione del tutto diversa da quella che aveva lasciato per l’esilio. E come Togliatti, un gruppo dirigente che fosse davvero responsabile verso il futuro del PD dovrebbe cercare il suo prossimo leader tra coloro che hanno iniziato a fare politica negli anni di Berlusconi. Un giovane solo per caso, ma soprattutto un politico che non abbia niente a che fare con l’universo simbolico della prima repubblica e che sappia leggere e interpretare il paese che è diventata l’Italia dopo il 1994. Oggi quel politico, dovunque si trovi, ha circa quarant’anni. Potrebbe persino aspettare un turno, ma al prossimo giro avrebbe qualche possibilità in più di conquistare il consenso degli italiani.

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