mercoledì 18 febbraio 2009

Barbara Spinelli: il voto in Israele

La Stampa, 15.2.09

IL VOTO IN ISRAELE

Due Stati, due popoli? Illusione

di Barbara Spinelli

Chi ha letto l’articolo di Gheddafi, il 21 gennaio sul New York Times, avrà
ragionevolmente visto in esso una provocazione, e un’insultante confutazione
dello Stato ebraico. Purtroppo le cose non stanno così, anche se l’insulto
resta: quel che ha detto il Presidente libico - non ha più senso parlare di
due Stati, israeliano e palestinese, in pace l’uno accanto all’altro - è una
convinzione più diffusa di quel che si creda. La sostengono non solo fazioni
palestinesi importanti, ma un certo numero di ebrei dentro e fuori Israele.
Gheddafi dice a voce alta quel che molti pensano, anche senza desiderarlo.
C’è da chiedersi se la destra israeliana che ha vinto alle urne (quella di
Netanyahu e di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu, ovvero «Israele
casa nostra») non abbia pensieri analoghi: che non confessa ma che
impregnano i suoi piani d’azione.

La formula «due Stati-due popoli», che continua a esser sbandierata in
Israele, a Washington, in Europa, non ha più radici vere nella realtà. È
diventata una vana parola, che dà buona coscienza ma non suscita azioni. È
come un treno che tutti immaginano in attesa alla stazione, e invece è già
passato. Se in Israele si è affermata una destra ostile a negoziati con
l’insieme dei partiti palestinesi, che non intende cedere territori e anzi
accresce le colonie, significa che l’occupazione non è considerata quello
che è: la più grande, l’autentica minaccia strategica per l’esistenza di
Israele. In queste condizioni parlare di due Stati è ipocrisia.

Il piano implica la fine dell’occupazione e rari sono i politici israeliani
che l’ammettono e ne traggono conseguenze.

È il motivo per cui alcuni auspicano che sia Netanyahu a guidare Israele. Lo
ha scritto Gideon Levy su Haaretz, già prima del voto: la sua speranza è che
finalmente si cominci a dire il vero, e Netanyahu può farlo. Che
s’abbandonino espressioni eufemistiche come processo di pace o due Stati-due
popoli. Con Netanyahu le cose diverrebbero più chiare, il dislivello tra
verbo e azione meno nebbioso. Il capo del Likud è d’accordo con Lieberman:
non vuole ridurre le colonie, e anzi difende il loro «aumento naturale». Non
parla di Stato palestinese ma di Pace Economica (basta riempire le pance dei
palestinesi per moderarli). L’idea non è nuova: la sostenne il ministro
della Difesa Moshe Dayan dopo la guerra del ’67, e negli Anni 70 la riprese
il laburista Peres. La prima intifada nell’87 la stritolò, rivelando a chi
non voleva vedere che i sogni palestinesi non erano economici. Il fatto che
sia oggi riproposta è qualcosa su cui vale la pena meditare, perché rivela
un malessere israeliano tuttora irrisolto e pernicioso.

Il malessere è certo acuito da chiusure aggressive di arabi e palestinesi,
come scrive lo scrittore Yehoshua (La Stampa, 14-2). Ma in buona parte è
interno, è frutto dell’incapacità israeliana di rispondere alla domanda:
cosa vogliamo essere? che Stato abbiamo in mente, di fatto? Uno Stato
ebraico, democratico, e che al contempo mantenga il controllo su zone dove i
palestinesi sono in maggioranza? Qui nascono i mali, spiegati bene dallo
storico Gershom Gorenberg (The Accidental Empire, New York 2006): le tre
aspirazioni sono in realtà incompatibili fra loro. Non è possibile che lo
Stato resti al tempo stesso ebraico e democratico, se l’occupazione permane:
gli ebrei sono minoritari nei territori, e lo saranno (forse già lo sono)
nell’insieme geografico che amministrano. Estesa alla Cisgiordania, la
democrazia israeliana non è più ebraica. Oppure rimane ebraica, ma smette
d’esser democrazia. Di questo converrà cominciare a discutere: in Israele,
in America, in Europa e nella diaspora, non contentandosi d’additare
spauracchi come Gheddafi. Gorenberg invita la diaspora a condannare
l’occupazione. L’indeterminatezza sulla forma-Stato è tipica degli imperi
instabili e minaccia gli ebrei dentro Israele e fuori.

Il piano due Stati-due popoli è il solo orizzonte augurabile. Ma quel che è
accaduto in 41 anni ha forgiato una realtà che lo rende impraticabile: tale
d’altronde era lo scopo, esplicito, di chi favorì l’Impero Accidentale (da
Sharon a Peres). Basta guardare la carta geografica per constatarlo: la
Cisgiordania è coperta da una miriade di colonie, sparse come polvere,
inconciliabili con ogni continuità territoriale palestinese. E non esistono
solo colonie, abitate da uomini armati che infrangono il monopolio della
violenza legale. Ovunque, nella Westbank, ci sono strade riservate solo a
israeliani o percorribili dai palestinesi a condizioni capestro.

Le ultime cifre sul numero dei coloni, fornite da un rapporto per il
ministero della Difesa, sono le seguenti: in Cisgiordania 290.000 in 120
insediamenti, più decine di avamposti militari. Sulle alture del Golan
16.000 in 32 insediamenti. Nelle aree annesse di Gerusalemme Est 180.000.
Gaza fu evacuata da Sharon nel 2005 (9000 israeliani in 21 insediamenti) ma
senza che la colonizzazione in Cisgiordania diminuisse. Anzi, aumentò: le
organizzazioni non governative testimoniano come ogni mossa israeliana,
diplomatica o bellica, s’accompagni a un aumento di colonie e avamposti.
Questi ultimi sono chiamati illegali, ma ogni insediamento lo è. Ogni
insediamento nasce dal groviglio mentale seguito alla guerra del ’67:
groviglio che ha frantumato il concetto di confini e di Stato. Gideon Levy
su Haaretz ricorda come il duello Begin-Peres nell’81 fosse una gara fra chi
garantiva più colonie. I coloni pesano enormemente sui governi israeliani.
Il laburista Barak aumentava le colonie, mentre sotto la guida di Clinton
negoziava con Arafat. Lo stesso Barak, poco prima del voto del 10 febbraio,
ha promesso al Consiglio dei coloni (Consiglio Yesha) di non smantellare
l’avamposto Migron, nonostante le intese del 2001 con Washington. I coloni
di Migron comunque potranno spostarsi nell’insediamento Adam presso
Gerusalemme: altra colonia che doveva esser smantellata.

L’occupazione dunque continua, anche se i governi israeliani evitano la
parola annessione. Evitandola tengono tuttavia in piedi il groviglio
mentale, a proposito di nazione e confini. Se parlassero di annessione,
dovrebbero infatti riconoscere che la natura dello Stato muta
sostanzialmente, e che Israele è a un bivio. Se vuol preservare l’ebraicità
diventa Stato di apartheid. Se vuol restare democratico, dovrà ammettere che
i palestinesi son titolari di diritti coerenti con i numeri.

Secondo Gorenberg, è la colonizzazione successiva alla guerra dei Sei Giorni
che ha distrutto l’idea di Stato nata nel ’48: «Il processo di
consolidamento, necessario a un nuovo Stato, fu sconvolto. Una generazione
che aveva costruito lo Stato cominciò senza volerlo a togliere pietre
essenziali alla sua struttura»: le colonie ravvivarono l’anarchia
pionieristica della conquista, lo spirito messianico dell’organizzazione
Gush Emunim contaminò i laici e in particolare gli immigranti della diaspora
russa stile Lieberman, infastiditi dai vincoli della vita locale. Lo stesso
spirito spinge la destra a sospettare gli arabi d’Israele (20 per cento
della popolazione): arabi cui Lieberman vuole imporre doveri di lealtà anche
bellica allo Stato ebraico, in cambio del diritto di cittadinanza.

Chi rispetta i fatti, dovrà dire quel che vuole. Se vuole la sopravvivenza
della nazione nata nel ’48, non potrà non definire la propria idea di Stato
e agire di conseguenza. Non potrà non vedere che verrà il giorno (sta già
venendo) in cui i palestinesi chiederanno che la situazione resti quella che
è (una Grande Israele) ma che diventi democratica: facendo corrispondere a
ogni uomo un voto, come nella legge della democrazia. Quel giorno gli ebrei
saranno una minoranza: lo Stato non sarà più ebraico. Nascondere a se stessi
questa realtà non serve a evitarla. Serve a renderla più vicina e
minacciosa.

******************************************************

Per saperne di più su Gershom Gorenberg, i suoi scritti, le sue idee e il
libro The Accidental Empire (raccomandato dai più noti politologi, da Shlomo
Avineri a Amos Elon) cliccare sul suo blog South Jerusalem:
http://southjerusalem.com/gershom-gorenberg/

Nessun commento: