sabato 21 febbraio 2009

Federico Rampini: Keynes e le speranze dei giovani

Estremo Occidente
Oggi 21 febbraio 2009, 10 ore fa

Keynes e la speranza dei giovani
Oggi 21 febbraio 2009, 10 ore fa | rampini
E’ un Keynes insolito quello che l’Adelphi rivela pubblicando il discorso “Possibilità economiche per i nostri nipoti” con un commento di Guido Rossi. Non stupisce solo per l’attualità dei giudizi formulati ottant’anni fa. Siamo ormai costretti a rivisitare la Grande Depressione degli anni Trenta per capire il nostro presente, e il grande economista britannico ne rimane l’analista-terapeuta più autorevole.

Sembrano scritti oggi quei passaggi datati 1928-1930: “Ci troviamo a soffrire di una forma virulenta di pessimismo economico. E’ opinione comune che il progresso economico sia finito per sempre; che il miglioramento del tenore di vita abbia imboccato una parabola discendente; che per il prossimo decennio ci si debba aspettare un declino della prosperità”.

E’ singolare la preveggenza con cui mette a fuoco la disoccupazione tecnologica (“il lettore ne sentirà molto parlare negli anni a venire…”). Sorprendente, e poco nota, è la sua dimestichezza con Freud e la psicanalisi, i cui strumenti interpretativi applica con disinvoltura all’economia: Guido Rossi ricorda le affermazioni dell’economista sulla pulsione “sadico-anale” insita nella bramosìa capitalistica di profitto. La dimensione più inedita in assoluto è quella del Keynes visionario, sognatore, idealista, che qui viene alla luce.

Staccandosi per un attimo dalle preoccupazioni del presente, il grande intellettuale élitario del circolo Bloomsbury e l’ispiratore del New Deal disegna un futuro in cui “l’amore per il denaro sarà, agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente”. Immagina una società fondata su valori più solidi, dove cammineremo spediti sui sentieri della virtù e della saggezza.

“Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, ad anteporre il buono all’utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l’ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo”. Per arrivare a quello stadio Keynes pone la barra molto in alto, tra le condizioni dell’avvento di una società ideale elenca la pace universale e un perfetto controllo della crescita demografica.

Non si fa illusioni sul breve termine ma spiega che sognare è un obbligo, perché “l’utopia appare oggi l’unica possibilità economica che i nostri nipoti possano, essendone capaci, sfruttare”. Più dei singoli dettagli, allora, conta il nocciolo duro di questo pensiero che viene catturato e attualizzato da Rossi: ciò che nascerà dalle ceneri della grande crisi del XXI secolo, “dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto”.

Sta proprio qui l’interesse di questo Keynes riesumato dall’oblìo. Di lui ricordavamo soprattutto il tecnico pragmatico, capace di rovesciare tutta l’ortodossìa economica pur di trovare ricette efficaci per rimettere in moto la macchina paralizzata dello sviluppo. Fu senza dubbio colui che teorizzando il ruolo benefico della spesa pubblica salvò il capitalismo da se stesso, nonché dalla sfida di movimenti rivoluzionari e modelli alternativi: il comunismo sovietico; i capitalismi autoritari e illiberali nel Giappone militarista, nella Germania nazista, nell’Italia fascista.

Dietro la prodigiosa fecondità intellettuale di Keynes c’era la capacità di guardare ben oltre la semplice crescita materiale. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: quella del XXI secolo è ancora in attesa del suo Keynes.

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