Da www.milania.it
giovedì 19 febbraio 2009
PD: OLTREPASSARE BERLUSCONI O STACCARE LA SPINA
Anticipo subito le conclusioni di questa mia riflessione: se il PD non riesce a inserire un nuovo patrimonio di idee che siano in grado, credibilmente, di sostenere la causa “democratica”, allora è meglio che si sciolga, mettendo in moto un processo politico complessivo di “distruzione creatrice”.
E ora veniamo allo svolgimento di questa riflessione. Le dimissioni di Veltroni e la grande incertezza per la sua successione, rendono evidenti la totale mancanza, nel PD, di un patrimonio ideale che sappia tracciare un’identità valida per il futuro. Anche nei partiti che possiedono “idee forti”, le leadership derivano da lotte di potere, ma almeno i cammini politici sono evidenti e tracciati. Nel PD, invece, mancando un patrimonio credibile di idee, resta solo lo scontro di potere, a cui, inevitabilmente, ne seguirà un altro e così via finchè il caso o uno “spirito santo democratico” provvederà, oltre che al leader, anche alle idee. Ma, affidarsi al caso o alla provvidenza non è propriamente una strategia politica...
Nell’assenza di idee forti, il PD ha pensato fosse conveniente seguire le mosse dell’avversario. Ma, come insegnano le regate veliche...
(continua su leggi tutto)
(ed è strano che D’Alema non se ne sia accorto…), se si segue la traiettoria di chi ci precede, non lo si raggiungerà mai. E’ pur vero che nella competizione contro Berlusconi il PD ha capito (seppur malvolentieri) che la “demonizzazione” del Cavaliere ne produceva solo una “glorificazione” sul piano elettorale, ma, invece di “superare Berlusconi”, si è posto nella sua scia. In questo modo, forse, avrà “limitato i danni” (come dimostra l’infausta sorte elettorale della sinistra radicale che si è posta in una chiave solo “anti”), ma certamente non ha risolto la questione.
Aver inseguito Berlusconi sul piano delle egemonie mediatiche ha determinato la sconfitta del PD che, essendo privo di asset proprietari, si è rivelato il competitor perdente. Ma ancor più grave politicamente è stato seguire Berlusconi sul piano valoriale (ad esempio, sulle risposte alla percezione di insicurezza), proponendo così all’elettorato valori berlusconiani “mitigati”, cioè già presenti e quindi perdenti sul piano della domanda politica. Insomma, è già un miracolo che questo “PD all’inseguimento di Berlusconi” abbia raccolto i voti che ha raccolto.
Ma attenzione (e qui viene il punto nodale della mia riflessione), se è vero che il PD deve allontanarsi da Berlusconi, questo non significa che debba “restare indietro” o, peggio, andare nella “direzione contraria”, ma significa che deve “superarlo” nella direzione dei processi storici, mantenendo ovviamente intatta la distinzione valoriale.
Su cosa si fonda, in estrema sintesi, la distinzione valoriale tra PD e Berlusconi? Essenzialmente su una diversità di promessa ai cittadini: il PD promette una vita “più democratica”, cioè più libera e fondata sulla relazione, mentre Berlusconi promette una vita “più governata”, cioè più sicura e fondata sull’individualismo. Al di là di questa distinzione che non può essere messa in discussione, tutto il resto è capacità di sintonizzarsi con i processi storici che determinano la dimensione esistenziale della contemporaneità. Ed è proprio qui che il PD appare carente nella propria offerta originale di idee. Naturalmente, stiamo qui parlando di idee “vere”, non di orpelli culturali o retorica di cui sono pieni i magazzini dei partiti.
Le idee che il PD dovrebbe mettere in campo per recuperare una “sintonia” che renda credibile il suo proposito valoriale “democratico” sono, a mio avviso, tre.
La prima è la fuoriuscita dal “nazionalismo metodologico” (cioè dalla lettura politico-sociale incardinata sullo stato-nazione) per entrare in una logica compiutamente glocalista, cioè fondata sulla connessione diretta tra il locale e il globale, senza bisogno di una sistematica intermediazione da parte dello stato-nazione. Da questa idea, oggi, l’attuale PD è lontanissimo, ma lo è anche (con l’istintiva eccezione della Lega) il costituendo PDL. Questo crea, per il PD, una prospettiva politica in grado di “oltrepassare Berlusconi”, soprattutto in considerazione del fatto che la condizione esistenziale dentro cui vivono i cittadini è già totalmente glocalizzata. Sul piano politico concreto, questo significa una accelerazione di forme federaliste “sostitutive”, con un accorciamento della catena istituzionale che preveda una sostanziale sparizione delle competenze nazionali (oltre che dei livelli di governo territoriale pleonastici come le province), a favore di un processo di delega legislativa alle regioni e amministrativa ai comuni. Per raggiungere questo obiettivo occorre mettere in campo, non faticose ed estenuanti battaglie costituzionali, ma semplici gesti simbolici: lo spostamento della capitale da Roma a una città da riqualificare, su principio rotatorio (ad esempio per dieci anni), nelle diverse aree del paese ed una contemporanea rivalutazione “estetico-simbolica” di tutte le sedi istituzionali sul piano locale. Basterebbe questo per creare un mainstream di “rilocalizzazione” del ceto politico e, quindi, l’avviarsi di un federalismo “di fatto”.
La seconda idea è rappresentata dal “parlare al singolare” e nasce dal prendere atto dei processi di individualizzazione che si sono già compiuti nella società contemporanea. L’individualizzazione (o l’atomizzazione, per uare un termine il cui disvalore indica l’assenza di una risposta politica) è un processo che si è consolidato nei vissuti della contemporaneità e verso il quale la politica non ha ancora consapevolmente maturato una proposta di dialogo, salvo l’offerta ideologica di tipo “individualista” che, proprio per la mancanza di altre proposte che “parlino al singolare”, raccoglie un consenso assolutamente sproporzionato rispetto agli interessi che rappresenta. Continuare a parlare politicamente “al plurale”, cioè scommettere sull’idea di riportare in vita una condizione esistenziale fondata su corpi intermedi, rappresenta un brutale errore politico, appena mitigato dal romanticismo della nostalgia. Ma cosa significa concretamente, per un soggetto politico come il PD, parlare “al singolare” in una logica non individualista? Essenzialmente, allargare la sfera dei diritti che proteggono l’individuo, sia sul terreno di maggiori libertà civili che su quello di maggiori prerogative economiche (non uso il termine “garanzie”, poiché evoca la dimensione statale, ma il concetto è simile).
La terza idea che il PD dovrebbe mettere in campo per “oltrepassare Berlusconi” è sul determinante fronte del lavoro. Invece di restare stretto nella morsa tra una “flessibilità” che non potrà mai raggiungere quella proposta dalla destra e una “stabilità” ormai scomparsa dall’economia contemporanea, il PD dovrebbe, per primo, rompere la monoliticità valoriale della “società del lavoro” per promuovere un pluralismo lavorativo che porti le persone, non ad integrarsi attraverso l’ingresso nella “società del lavoro retribuito”, ma a trovare senso nel “lavoro in sé”. Per quanto queste parole possano vagheggiare l’utopia, la fuoriuscita da una “società del lavoro retribuito” ormai totalmente disarticolata, è un’opzione politica molto più praticabile del tentativo di ricostruire un’economia fondata sul lavoro stabile. Cosa vuol dire tutto questo sul piano delle concrete politiche sul lavoro? Innanzitutto, spostare la difesa politica dal “lavoro stabile” al “prezzo del lavoro flessibile”, cioè destinare al lavoratore quel “premio al rischio” del lavoro flessibile, finora assurdamente (ma comprensibilmente vista l’assenza di conflitto) incamerato dai datori di lavoro. Ma, oltre a questa tanto necessaria quanto tardiva azione “sindacale”, occorrerebbe andare oltre, soprattutto sul piano delle “politiche dell’offerta”. Principalmente, occorrerebbe stimolare la nascita di economie “altre” (sebbene compatibili con l’economia capitalista), sia sul piano “concorrenziale” delle filiere low cost, sia sul piano “vocazionale” dei circuiti economici generati dalle comunità generazionali, territoriali e funzionali.
Lavorando su questi tre paradigmi concettuali e operativi, il PD potrebbe “oltrepassare Berlusconi” senza intaccare la propria identità valoriale di tipo “democratico”. Poi, certo, un pizzico di “democrazia interna” non stonerebbe in un partito che si chiama Democratico, ma questo – oggettivamente e senza ironia – è un problema minore.
Se, invece, il PD non farà nulla di tutto questo e si concentrerà esclusivamente sul ricambio (sia pure generazionale) della classe dirigente, allora non caverà un ragno dal buco. Anzi, il ricambio generazionale assomiglierà tragicamente alla disperata mossa di Hitler che, a guerra ormai perduta, mandò generazioni di quattordicenni a morire sul fronte orientale.
Se non ci sarà la capacità di rinnovare il patrimonio di idee, allora il PD farebbe molto meglio a “staccare la spina” e sciogliersi, permettendo così una riscrittura complessiva dello scenario politico. Un momento dopo lo scioglimento del PD, infatti, anche il progetto berlusconiano del PDL cadrebbe in pezzi. A quel punto i giochi si riazzererebbero, con grande scandalo dei media e dei poteri economici (che preferiscono di gran lunga gestire quadri semplificati e poco affollati), ma almeno la shumpeteriana “distruzione creatrice” potrebbe svolgere fino in fondo il proprio cammino. Certo, in un quadro del genere la produttività decisionale del ceto politico calerebbe ulteriormente, ma almeno si potrebbe rimettere in circolo la non trascurabile medicina politica della fornitura identitaria. Lo scenario peggiore, infatti, sarebbe di gran lunga quello con due partiti a vocazione maggioritaria che non capiscono la società, non ne risolvono i problemi e, soprattutto, tendono a trasformarsi in corti autocratiche che vivono di privilegi visibili “alla faccia” dei cittadini. Guai a noi se accadesse questo.
Alessandro Aleotti
Milania, 19 Febbraio 2009
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