Da La stampa
12/2/2009 - ISRAELE
Profumo di grande coalizione
ARRIGO LEVI
I dubbi e le incertezze con cui attendevamo l’esito delle elezioni israeliane rimangono tutti, all’indomani di un voto che rischia di avere non uno ma due vincitori. La frammentazione dell’elettorato israeliano non ha l’eguale in nessun’altra democrazia. In realtà non conosciamo neppure con sicurezza, a ventiquattr’ore dalla chiusura dei seggi, il conteggio finale degli eletti. Il voto dei militari, oggetto di lunghi calcoli, potrebbe ancora cancellare l’esiguo vantaggio di Tzipi Livni di Kadima su Bibi Netanyahu del Likud, o produrre un pareggio, o capovolgerlo. E sia l’uno che l’altro partito, da soli, rimarranno comunque neppure a metà strada verso il miraggio dei 61 voti di maggioranza alla Knesset, necessari per fare un governo.
All’uno come all’altro occorrerà raccattare i voti di altri partiti per fare una coalizione vincente. L’opinione prevalente è che ha più probabilità di riuscirci Netanyahu: potrebbe farlo chiedendo i voti soltanto alla destra nazionalista e religiosa. Ma non è certo che andrà così. Il mercato è aperto, e non vi è coincidenza sicura dei programmi e delle pretese di ciascuno.
In un momento come questo, si è insomma tentati di esprimere, più che delle previsioni, degli auspici, tenendo presente l’interesse d’Israele di far pace con i palestinesi e con tutto il mondo arabo.
E di essere in armonia anche con quel mondo occidentale che, con in testa l’America, è il suo naturale alleato, partner economico e garante.
I precedenti della storia politica israeliana lasciano aperte tutte le strade: persino quella di un accordo di «partenariato» fra i due partiti maggiori, che dia la carica di primo ministro per metà della legislatura all’uno e per l’altra metà all’altro. È un precedente che avrà bene in mente il Presidente della Repubblica Peres (che fu protagonista di quell’esperimento ben riuscito con Shamir del Likud), quando inizierà, forse tra una settimana, le consultazioni per affidare, a Tzipi o a Bibi, l’incarico di formare un nuovo governo.
È probabile che Peres, ultimo sopravvissuto della vecchia guardia sionista, punti a un accordo di unità nazionale, che aggiunga a Likud e Kadima quel tanto di alleati che bastino per superare la soglia dei 61 voti (insieme, ma da soli non ce la farebbero), e che non dirotti Israele dalla strada di un negoziato con i Palestinesi di Abu Mazen. Ciò potrebbe dire tagliar fuori da una «grande coalizione» le frange estremiste nazionaliste, che in queste elezioni hanno guadagnato terreno (anche se meno di quanto sperassero); includendovi il maggiore partito religioso, Shas, e i laburisti.
È prevedibile che l’America di Obama e l’Unione Europea, il cui appoggio è più che mai necessario per Israele sia di fronte alla minaccia iraniana, sia per superare la gravissima crisi economica mondiale che sta colpendo duramente lo Stato ebraico, eserciteranno la loro influenza sui politici israeliani per sospingerli in questa direzione. Abbiamo già ricordato in un precedente commento che a negoziare e fare trattati di pace con gli arabi furono sia l’uno che l’altro dei partiti sionisti storici. E fu il duro Netanyahu a restituire Hebron ai palestinesi.
Non sappiamo quante siano le probabilità che un tale disegno si realizzi, e quale sarebbe l’esatta linea politica di un simile «governo di unità nazionale». Forse non sarebbe in grado di firmare un trattato di pace con i palestinesi. Ma potrebbe fare progressi almeno verso quella «pace economica» che Netanyahu ha auspicato come realizzabile prima di una «pace politica».
Sull’interminabile cammino di una pace vera non si andrebbe forse molto avanti. Ma non si tornerebbe indietro. Un accordo che consentisse alla West Bank, anche con lo smantellamento di buona parte dei blocchi stradali israeliani, un più netto avanzamento economico e politico, rafforzerebbe Abu Mazen (che si vanta, a ragione, di avere mantenuto un ordine perfetto nei territori da lui governati, anche nei momenti più tremendi dell’invasione israeliana di Gaza), e indebolirebbe Hamas, la cui presunta «vittoria» ha portato a ridurre in rovine Gaza. Infine, Israele salverebbe il rapporto speciale con l’Egitto, Paese-guida del mondo arabo, fondato anche sul comune sentimento anti-iraniano del Cairo e di Gerusalemme.
Ma non è prudente andare oltre nel delineare quello che, ripeto, è più un auspicio che una previsione. Chi ha a mente la complessità della politica italiana non dimentichi che se c’è una democrazia che in questo ci supera, e di molto, questa è proprio Israele.
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