da Aprile
Crisi, l'Italia la pagherà salatissima
Raffaele Principe, 27 febbraio 2009, 14:37
La riflessione Nel nostro paese è cresciuto un esercito di precari e lavoratori in nero pari ad almeno 4 milioni di persone, senza o con scarse tutele, ad incominciare dagli ammortizzatori sociali. Una situazione che, insieme alla debolezza della sinistra e all'attacco governativo verso il sindacato, renderà la recessione economica ancora più pesante che negli altri stati dell'Ue
Le misure concordate nell'ultimo vertice europeo dei Paesi facenti parte del G20 (un modo surrettizio di riunire i Paesi della zona Euro più l'Inghilterra), insieme a quelle decise da Obama, dal Giappone e dalla Cina, si dimostreranno, alla verifica dei fatti, sufficienti a contenere la crisi ormai in atto?
Certamente su alcune misure non si può non concordare. Innanzitutto con la chiusura ai paradisi fiscali, inclusa la Svizzera; poi con la decisione di individuare i titoli tossici in pancia alle banche, il che vuol dire rendere più stringenti i controlli sulle stesse e su tutti gli istituti finanziari, tra cui in primis quelli che gestiscono fondi pensioni e hedge founds, misura auspicata da più parti (vedi Aprileonline.info del 10 ottobre2008); con la scelta di finanziamento verso la Banca d'investimenti europea affinchè sostenga le economie dei paesi dell'est Europa aderenti all'UE; così come la misura di raddoppiare le risorse del Fondo monetario internazionale per gli interventi d'emergenza fino a 500 miliardi di dollari. Ci sarà anche da verificare se l'impegno a evitare il protezionismo si tradurrà in decisioni concrete alla prova dei singoli parlamenti che stanno approvando provvedimenti di sostegno alle imprese, come quelle automobilistiche.
Qualcuno ha parlato di misure "socialiste", auspicate soprattutto dalla Merkel. Ora, senza esagerare, possiamo dire che la cultura del welfare e della responsabilità politica della gestione del potere non al servizio esclusivo delle classi dominanti, sviluppatasi in Europa in questi ultimi sessanta anni, ha prevalso contro una cultura neoliberista che aveva in Bush e nella sua cricca la sua punta di diamante.
Ed è singolare come governi di centrosinistra e di centrodestra, come quello tedesco o spagnolo o francese, siano più sensibili alla crisi sociale impellente di un governo "laburista" come quello inglese, per non parlare del nostro, tutto proteso all'ottimismo di facciata.
Sul piano delle misure sociali invece ogni stato si muove come meglio crede, ovvero tenendo conto della realtà politica interna. Se la Germania sta sperimentando la settimana corta per evitare l'espulsione dalle attività produttive di milioni di lavoratori, misura che insieme al suo già robusto welfare di tutela dei più deboli e dei disoccupati, gli farà pagare un prezzo non molto alto in termini di disagio sociale, pur in presenza di un -5% tendenziale di PIL nel 2009.
Altra musica purtroppo si rischia nei paesi come l'Italia dove in questi ultimi anni è cresciuto un esercito di precari e lavoratori in nero (ben più del 25% degli occupati nel Mezzogiorno), pari ad almeno 4 milioni, senza o con scarse tutele, incominciando dagli ammortizzatori sociali come indennità di disoccupazione e cassa integrazione.
Il tutto in quadro politico-sindacale non confortante. Con una crisi dei sindacati evidente, che arriva addirittura, da parte della CISL UIL UGL, a sottoscrivere il nuovo modello di contrattazione (un netto arretramento anche rispetto all'accordo del luglio '93), mentre si accingono a cambiare mestiere. Con una sinistra moderata afflitta dalla sindrome di Peter Pan alla ricerca dell'isola che non c'è, incapace di rendersi conto che sta avanzando Capitan Caimano con una masnada di pirati. E per ultimo, con una sinistra radicale alle prese con problemi di identità e di radicamento, soprattutto nel mondo del lavoro.
In tale contesto, dunque, la crisi sarà pagata e duramente dalle fasce più deboli e dal Mezzogiorno silente (con la sola esclusione di Pomigliano), per l'inesistenza degli ammortizzatori sociali e lo scippo dei fondi per il Mezzogiorno, per il nuovo modello contrattuale che darà facoltà di applicare in ribasso ed in deroga i contratti nazionali, introducendo di fatto le gabbie salariali, aumentando il differenziale salariale già oggi attorno al 15-20% sulla media nazionale.
Ora data la situazione, realisticamente non si può non scegliere quale casamatta difendere. Proverei a proporne due: 1) estendere gli ammortizzatori sociali a tutti i settori, ai lavoratori delle piccole aziende e ai lavoratori precari. Su questo dovrebbe essere d'accordo anche la CISL, almeno a leggere un suo comunicato diffuso contro il referendum promosso dalla CGIL sul nuovo modello contrattuale; 2) congelamento di un anno almeno della Bossi-Fini, perchè è evidente che gli immigrati saranno tra coloro che pagheranno questa crisi due volte, con la perdita del lavoro e il passaggio alla clandestinità con rischio di espulsione, o meglio di finire nel limbo degli invisibili senza diritti e senza tutele.
Con i cosiddetti Tremonti bond, che sono una boccata d'ossigeno per le banche in crisi, questo governo vuole cogliere due obiettivi: 1) sottomettere il settore al suo potere politico, dato che, al contrario degli industriali -vedi Alitalia- con la pretesa di essere player globali hanno coltivato una loro indipendenza dal potere politico; 2) indirizzare verso le banche il disagio sociale, con il tam tam che questi provvedimenti sono rivolti alle PMI e famiglie, tramite gli istituti bancari, tant'è che è previsto una sorta di controllo delle loro attività presso le Prefettura, invece che presso la Banca d'Italia o le varie Autority esistenti.
Ma tant'è, l'effetto pubblicità è assicurato. Perché Tremonti sa benissimo che questa è una boutade e che l'aumento del patrimonio delle banche è una necessità che prescinde dalle loro attività creditizie, perché ad oggi, come ha detto Grukman, le banche sono degli zombi ed in Italia lo sono il 70% degli istituti bancari.
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 28 febbraio 2009
Nerozzi: no alla legge sullo sciopero senza l'accordo dei sindacati
Da Aprile
Nerozzi: "No alla legge sullo sciopero senza l'accordo dei sindacati"
Ida Rotano, 27 febbraio 2009, 14:58
L'intervista Il governo tenta di rassicurare le organizzazioni sindacali e l'opposizione parlamentare sulla disponibilità al dialogo ma sceglie uno strumento sbagliato come quello della legge delega per disciplinare un tema così delicato. Il tutto con tempi a dir poco sospetti. ne parliamo con paolo nerozzi, ex sindacalista della Cgil, oggi senatore del Partito Democratico
"Un testo aperto" che "potrà essere migliorato" attraverso il dialogo in Parlamento e con il contributo delle parti sociali. I ministri del Welfare, Maurizio Sacconi, e dell'Ambiente, Altero Matteoli, hanno presentato il ddl delega sugli scioperi nei trasporti. "Abbiamo scelto un percorso molto cauto, il Parlamento ascolterà le parti sociali e si applicheranno le deleghe sentendo le parti sociali", ha spiegato Sacconi, dicendosi "fiducioso" che la Cgil non si sottrarrà al dialogo. Ma la preoccupazione è forte, soprattutto nelle fila del Partito democratico dove si sottolinea l'errore nella scelta dei tempi precipitosi in contrasto quindi con le dichiarazioni di apertura del confronto con le parti sociali. Ne parliamo con Paolo Nerozzi, ex sindacalista Cgil, oggi esponente dell'area della sinistra Pd.
Qualche ora fa il governo ha varato il disegno di legge delega sulla regolamentazione degli scioperi nei trasporti pubblici. Un tuo giudizio a caldo...
Non ho ancora avuto la possibilità di leggere il testo. Ma certo, il clima politico nel quale viene varato questo provvedimento non può che preoccuparmi. Penso all'attacco alla Carta Costituzionale e alla drammatica vicenda di Eluana Englaro ed anche alla durezza usata dalle autorità in alcune proteste operaie.
Ho l'impressione che il governo persegua nella sua volontà di restringimento del dissenso, da un lato, e di sviare l'attenzione dell'opinione pubblica dall'emergenza centrale del nostro paese: la crisi e le condizioni materiali dei lavoratori, dei pensionati, dei precari e dei cassintegrati. Sono molto preoccupato.
In secondo luogo, c'è un problema di metodo. Se si affronta un tema delicato e di sensibilità costituzionale come quello relativo al diritto allo sciopero non si può non partire da un confronto e un accordo tra le parti sociali. Qualunque normativa dovrebbe arrivare a recepire un accordo già stipulato fra le parti. Non può essere una legge delega a regolamentare il diritto di sciopero. Semmai si sarebbe dovuto procedere con un disegno di legge, frutto di un largo e approfondito dibattito parlamentare e che non contenesse quindi deleghe future al governo. Qualunque riforma del diritto di sciopero non può non essere accompagnata, e semmai preceduta, da una nuova regolazione della rappresentanza sindacale. Fra l'altro, su questo, le organizzazioni sindacali maggiori avevano già raggiunto un'importante sintonia con la firma dell'accordo unitario siglato all'inizio del 2008. Quello per intenderci che partiva dalla riforma della contrattazione.
Accordi unitari e sforzi unitari. Ma la Cisl con Bonanni e la Uil trasporti hanno già espresso il loro apprezzamento a differenza di Epifani. L'unità sindacale è quindi sempre più lontana. E questo come esponente della sinistra Pd non può che preoccuparti...
Ci può essere una dialettica tra le organizzazioni sindacali nel giudicare le singole norme contenute nel decreto legislativo del governo. Ma quello che mi preoccupa veramente è che di fronte alla drammaticità della crisi l'esecutivo sia impegnato, ogni giorno, a discutere di altro. Ieri il nucleare, oggi gli scioperi. Quello che servirebbe al paese, innanzitutto, è un nuovo spirito unitario. Invece registro che costantemente l'esecutivo è impegnato nel tentativo di dividere: i sindacati, il nord e il sud d'Italia, precari contro contrattualizzati, giovani contro anziani.
La crisi appunto, che morde sempre più. Non credi che il voler regimentare gli scioperi non serva a far convivere - come dichiarato dal governo - diversi interessi quanto piuttosto a controllare quel conflitto sociale che inevitabilmente, nelle prossime settimane, si farà sentire con sempre maggiore forza?
Un provvedimento che assumesse un taglio ideologico in tema di restringimento del diritto di sciopero, rischierebbe di aumentare la conflittualità sia nelle modalità tradizionali sia in vecchie forme corporative. Si tratta della libertà delle persone, costituzionalmente garantita. E' necessario, quindi, procedere con cautela, sensibilità e coinvolgimento di tutti. Inoltre.
La legge delega arriverà presto in Parlamento. Cosa farà il Partito democratico?
Innanzitutto dovremmo batterci per eliminare le deleghe dal disegno di legge del governo. E sicuramente il nostro impegno dovrà favorire la massima partecipazione delle forze sociali per la stesura di un testo condiviso a partire dal recepimento delle preoccupazioni espresse, in queste ore, dal segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani. In ogni caso, un accordo su regole così delicate in mancanza dell'assenso delle organizzazioni sindacali non potrà che vedere la mia contrarietà.
Nerozzi: "No alla legge sullo sciopero senza l'accordo dei sindacati"
Ida Rotano, 27 febbraio 2009, 14:58
L'intervista Il governo tenta di rassicurare le organizzazioni sindacali e l'opposizione parlamentare sulla disponibilità al dialogo ma sceglie uno strumento sbagliato come quello della legge delega per disciplinare un tema così delicato. Il tutto con tempi a dir poco sospetti. ne parliamo con paolo nerozzi, ex sindacalista della Cgil, oggi senatore del Partito Democratico
"Un testo aperto" che "potrà essere migliorato" attraverso il dialogo in Parlamento e con il contributo delle parti sociali. I ministri del Welfare, Maurizio Sacconi, e dell'Ambiente, Altero Matteoli, hanno presentato il ddl delega sugli scioperi nei trasporti. "Abbiamo scelto un percorso molto cauto, il Parlamento ascolterà le parti sociali e si applicheranno le deleghe sentendo le parti sociali", ha spiegato Sacconi, dicendosi "fiducioso" che la Cgil non si sottrarrà al dialogo. Ma la preoccupazione è forte, soprattutto nelle fila del Partito democratico dove si sottolinea l'errore nella scelta dei tempi precipitosi in contrasto quindi con le dichiarazioni di apertura del confronto con le parti sociali. Ne parliamo con Paolo Nerozzi, ex sindacalista Cgil, oggi esponente dell'area della sinistra Pd.
Qualche ora fa il governo ha varato il disegno di legge delega sulla regolamentazione degli scioperi nei trasporti pubblici. Un tuo giudizio a caldo...
Non ho ancora avuto la possibilità di leggere il testo. Ma certo, il clima politico nel quale viene varato questo provvedimento non può che preoccuparmi. Penso all'attacco alla Carta Costituzionale e alla drammatica vicenda di Eluana Englaro ed anche alla durezza usata dalle autorità in alcune proteste operaie.
Ho l'impressione che il governo persegua nella sua volontà di restringimento del dissenso, da un lato, e di sviare l'attenzione dell'opinione pubblica dall'emergenza centrale del nostro paese: la crisi e le condizioni materiali dei lavoratori, dei pensionati, dei precari e dei cassintegrati. Sono molto preoccupato.
In secondo luogo, c'è un problema di metodo. Se si affronta un tema delicato e di sensibilità costituzionale come quello relativo al diritto allo sciopero non si può non partire da un confronto e un accordo tra le parti sociali. Qualunque normativa dovrebbe arrivare a recepire un accordo già stipulato fra le parti. Non può essere una legge delega a regolamentare il diritto di sciopero. Semmai si sarebbe dovuto procedere con un disegno di legge, frutto di un largo e approfondito dibattito parlamentare e che non contenesse quindi deleghe future al governo. Qualunque riforma del diritto di sciopero non può non essere accompagnata, e semmai preceduta, da una nuova regolazione della rappresentanza sindacale. Fra l'altro, su questo, le organizzazioni sindacali maggiori avevano già raggiunto un'importante sintonia con la firma dell'accordo unitario siglato all'inizio del 2008. Quello per intenderci che partiva dalla riforma della contrattazione.
Accordi unitari e sforzi unitari. Ma la Cisl con Bonanni e la Uil trasporti hanno già espresso il loro apprezzamento a differenza di Epifani. L'unità sindacale è quindi sempre più lontana. E questo come esponente della sinistra Pd non può che preoccuparti...
Ci può essere una dialettica tra le organizzazioni sindacali nel giudicare le singole norme contenute nel decreto legislativo del governo. Ma quello che mi preoccupa veramente è che di fronte alla drammaticità della crisi l'esecutivo sia impegnato, ogni giorno, a discutere di altro. Ieri il nucleare, oggi gli scioperi. Quello che servirebbe al paese, innanzitutto, è un nuovo spirito unitario. Invece registro che costantemente l'esecutivo è impegnato nel tentativo di dividere: i sindacati, il nord e il sud d'Italia, precari contro contrattualizzati, giovani contro anziani.
La crisi appunto, che morde sempre più. Non credi che il voler regimentare gli scioperi non serva a far convivere - come dichiarato dal governo - diversi interessi quanto piuttosto a controllare quel conflitto sociale che inevitabilmente, nelle prossime settimane, si farà sentire con sempre maggiore forza?
Un provvedimento che assumesse un taglio ideologico in tema di restringimento del diritto di sciopero, rischierebbe di aumentare la conflittualità sia nelle modalità tradizionali sia in vecchie forme corporative. Si tratta della libertà delle persone, costituzionalmente garantita. E' necessario, quindi, procedere con cautela, sensibilità e coinvolgimento di tutti. Inoltre.
La legge delega arriverà presto in Parlamento. Cosa farà il Partito democratico?
Innanzitutto dovremmo batterci per eliminare le deleghe dal disegno di legge del governo. E sicuramente il nostro impegno dovrà favorire la massima partecipazione delle forze sociali per la stesura di un testo condiviso a partire dal recepimento delle preoccupazioni espresse, in queste ore, dal segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani. In ogni caso, un accordo su regole così delicate in mancanza dell'assenso delle organizzazioni sindacali non potrà che vedere la mia contrarietà.
venerdì 27 febbraio 2009
Carlo Felici: appello per una nuova sinistra
Dal Blog Socialismo
Appello per una nuova Sinistra
martedì 24 febbraio 2009, 13.56.45
Aggiungo un mio intervento che, più che un proclama, vuole essere contemporaneamente: una sfida, una provocazione ed un’attualizzazione.
Una sfida ad una sinistra che non c’è in Parlamento ma che esiste, ancora viva e vitale, nella realtà concreta del nostro Paese, e che è sempre più spesso tentata di ripiegarsi in se stessa o di astenersi, rinunciando così a quell’azione decisiva che potrebbe portarla di nuovo ad essere protagonista della nostra storia.
Una provocazione per chi è tentato di risalire la china con manovre di basso cabotaggio, bizantinismi e localismi, senza puntare in alto, su gradi temi e valori condivisi, che possano più di ogni altra cosa, tornare ad essere coinvolgenti ed aggreganti.
Un’attualizzazione, perché avendo già parlato del pensiero e dell’azione dei fratelli Rosselli, questo mio appello, vuole essere anche un tentativo di attualizzare in sintesi il loro pensiero, applicandolo a questioni di rilevanza contemporanea che riguardano il nostro contingente, non solo in senso stretto, ma anche in un ambito più vasto di natura globale
Chiudo il cerchio con un ritorno al simbolo di Giustizia e Libertà, per due valori essenziali che ci danno, ancora oggi, la misura dell’impegno e della necessità di una prassi che vada al di là di una politica fatta di programmi, strategie ed orizzonti ideologici, per un appello ad agire subito, nell’hic et nunc, nel qui ed ora, ovunque ognuno si trovi, e qualsiasi cosa faccia, perché l’inerzia non diventi per la sinistra italiana la tragica cronaca di una morte annunciata.
Rivolgo un caloroso appello a tutte le forze di sinistra che in Italia non si rassegnano a restare fuori dal parlamento italiano e vogliono avere una rappresentanza europea, ad unirsi con un’unica lista dal nome Giustizia e Libertà
I valori che furono dei fratelli Rosselli possono oggi rianimare una speranza che, altrimenti, è destinata a restare frustrata dalle manovre dei grandi partiti italiani, nati e cresciuti per motivi di opportunità di potere, più che per forti spinte ideali.
Rosselli diceva con molta chiarezza che il Socialismo Liberale “più che uno stato esteriore da realizzare, è, per il singolo, un programma di vita da attuare”
Non c’è nulla di più attuale, effettivo e necessario oggi di un programma basato concretamente su valori morali, sul federalismo, e sull’idea che “nessun partito, nessun movimento è tanto forte come quello che riconosce il diritto alla vita dei suoi avversari e che dichiara di non voler rinnegare , nel giorno della vittoria, lo spirito di quel metodo liberale che permise ad esso, da piccola, debole minoranza, di crescere e dominare”
Questo intento sia quello di tutta una sinistra che non si rassegna ad essere rigettata nel ghetto ideologico e tribale in cui impera ancora il credo dei bambini perduti nell’isola di Peter Pan, quelli che giocano alla guerra al sistema senza mai poterlo scalfire minimamente, e che solo cercano una loro nicchia di potere in cui agitare la cresta.
Bisogna fare presto per ridare forza e speranza a tutte quelle categorie di cittadini sempre più indifesi e colpiti dal caro vita, dal precariato, dalla mancanza di servizi pubblici adeguati, che pagano sempre le tasse e vedono tagliare le risorse che solo loro in gran parte finanziano, con il loro lavoro ed il loro sacrificio quotidiano.
Restituire una forza e una speranza agli ideali di pace, solidarietà e progresso, basati su un modello di società sostenibile che sa che la propria ricchezza è frutto di investimenti in aree innovative come la scuola, la ricerca e le fonti di energia rinnovabile.
La sinistra da costruire ed unire è quella che, come suo primo punto da realizzare a tutti i costi, ha la necessità di impedire che una persona vada a lavorare e lasci nel suo posto di lavoro tutto, e cioè la sua vita.
La politica di questa sinistra deve rendere la risoluzione dei problemi relativi all’occupazione indissolubile rispetto alla risoluzione di quelli relativi alla salute, alla pensione e alla casa.
Perché senza lavoro stabile, non c’è casa né famiglia e né futuro per i figli, nemmeno da potere immaginare.
Deve cercare accordi costruttivi per realizzare una società basata su fondamentali valori umani, anche con chi crede che tali valori siano frutto di una forte ispirazione spirituale e religiosa e che, coerentemente con ciò, si impegna solo per attuarli e non per farne mero uso strumentale.
La sinistra che deve realizzarsi deve essere federalista perché, sempre come scriveva Rosselli: “Il federalismo politico territoriale è un aspetto e una applicazione del più generale concetto di autonomia a cui il nostro movimento si richiama: cioè di libertà positivamente affermata per i singoli, gruppi, in una concezione pluralistica dell’organizzazione sociale”
E dunque un federalismo che si fondi su organi territoriali vivi, non su strumenti e istituzioni burocratiche, in cui prevale l’elemento coattivo, ma su organi in cui l’individuo partecipa direttamente, spontaneamente alla vita della comunità a cui vuole dare il suo contributo e che vuole controllare, e da cui attinge il rinnovamento delle sue radici e della sua identità.
Una sinistra che può e deve essere liberale, vincolata a valori di solidarietà sociale, ma aperta alla concorrenza e al merito, pronta a premiarlo e a valorizzarlo soprattutto quando esso contribuisce all’innovazione e al beneficio per tutta la comunità e non serve solo ad acquisire privilegi e potere.
Ci si deve aprire in campo nazionale ed internazionale alla collaborazione con aziende, gruppi economici e finanziari e centri produttivi che legano la loro crescita e produttività all’innovazione e al miglioramento della qualità dei prodotti, e non sono invece condizionati da logiche speculative e proiettati verso la costruzione di monopoli che distruggono l’essenza stessa del liberalismo, annientando così interi stati ed intere economie, e respingendoli verso la soglia della miseria e della emarginazione. Le stesse logiche e corporazioni che, con la loro avidità e il loro capitalismo privo di regole, pongono le basi per i conflitti e per l’incremento dell’odio, del risentimento e del fondamentalismo.
Bisogna costruire una pace che si basi sulla sicurezza e assumere le responsabilità concrete che una comunità internazionale vuole esercitare quando si impegna a dirimere i conflitti, intervenendo per sostenere iniziative concrete di pace, con programmi ed obiettivi precisi, non per avallare missioni senza fine che, di fatto, aiutano solo la crescita di traffici illeciti i quali prosperano nella confusione e nella debolezza dei governi e delle istituzioni locali
Facciamo rivivere gli ideali di Giustizia e Libertà, quelli che portarono tanti giovani a combattere e a morire in Spagna prima, e nelle varie lotte di liberazione durante la seconda guerra mondiale poi, liberando alla fine l’Europa dal nazifascismo e dalla dittatura, gli stessi che non avrebbero mai accettato la statolatria dei regimi sovietici e il soffocamento della libertà individuale, in nome della disciplina di partito.
Sono ideali di cui oggi, un’Italia stordita e illusa da aggregazioni politiche vincolate più ad interessi di parte e a trame personalistiche, piuttosto che a grandi valori civili, ha un bisogno vitale.
Sono gli unici che possono restituirci una democrazia degna di tale nome, e non farci sprofondare in un moderno feudalesimo tecnocratico, in cui l’unica libertà concessa a profusione è solo quella del voyeurista, del guardone, che si affaccia ma non tocca, ammira ma non partecipa, soffre e gioisce ma non condivide, guarda ma non compra più perché non può, come un pollo sempre più spennato.
Soddisfatto del padrone che ogni giorno gli porta il becchime e inconsapevole di quella volta in cui entrerà nell’aia per tirargli il collo, tanto instupidito da poter gioire persino in quella occasione nefasta.
Siamo un popolo dalle grandi tradizioni civili e culturali, che non merita la fine dei polli in batteria, non merita di morire di becchime mediatico avvelenato, o a causa dello strangolamento ad opera del migliore per sé, creduto meno peggio per tutti.
Noi meritiamo di più, conquistiamocelo unendoci e lottando insieme
Oggi in Europa domani in Italia
Giustizia e Libertà
C. Felici
Appello per una nuova Sinistra
martedì 24 febbraio 2009, 13.56.45
Aggiungo un mio intervento che, più che un proclama, vuole essere contemporaneamente: una sfida, una provocazione ed un’attualizzazione.
Una sfida ad una sinistra che non c’è in Parlamento ma che esiste, ancora viva e vitale, nella realtà concreta del nostro Paese, e che è sempre più spesso tentata di ripiegarsi in se stessa o di astenersi, rinunciando così a quell’azione decisiva che potrebbe portarla di nuovo ad essere protagonista della nostra storia.
Una provocazione per chi è tentato di risalire la china con manovre di basso cabotaggio, bizantinismi e localismi, senza puntare in alto, su gradi temi e valori condivisi, che possano più di ogni altra cosa, tornare ad essere coinvolgenti ed aggreganti.
Un’attualizzazione, perché avendo già parlato del pensiero e dell’azione dei fratelli Rosselli, questo mio appello, vuole essere anche un tentativo di attualizzare in sintesi il loro pensiero, applicandolo a questioni di rilevanza contemporanea che riguardano il nostro contingente, non solo in senso stretto, ma anche in un ambito più vasto di natura globale
Chiudo il cerchio con un ritorno al simbolo di Giustizia e Libertà, per due valori essenziali che ci danno, ancora oggi, la misura dell’impegno e della necessità di una prassi che vada al di là di una politica fatta di programmi, strategie ed orizzonti ideologici, per un appello ad agire subito, nell’hic et nunc, nel qui ed ora, ovunque ognuno si trovi, e qualsiasi cosa faccia, perché l’inerzia non diventi per la sinistra italiana la tragica cronaca di una morte annunciata.
Rivolgo un caloroso appello a tutte le forze di sinistra che in Italia non si rassegnano a restare fuori dal parlamento italiano e vogliono avere una rappresentanza europea, ad unirsi con un’unica lista dal nome Giustizia e Libertà
I valori che furono dei fratelli Rosselli possono oggi rianimare una speranza che, altrimenti, è destinata a restare frustrata dalle manovre dei grandi partiti italiani, nati e cresciuti per motivi di opportunità di potere, più che per forti spinte ideali.
Rosselli diceva con molta chiarezza che il Socialismo Liberale “più che uno stato esteriore da realizzare, è, per il singolo, un programma di vita da attuare”
Non c’è nulla di più attuale, effettivo e necessario oggi di un programma basato concretamente su valori morali, sul federalismo, e sull’idea che “nessun partito, nessun movimento è tanto forte come quello che riconosce il diritto alla vita dei suoi avversari e che dichiara di non voler rinnegare , nel giorno della vittoria, lo spirito di quel metodo liberale che permise ad esso, da piccola, debole minoranza, di crescere e dominare”
Questo intento sia quello di tutta una sinistra che non si rassegna ad essere rigettata nel ghetto ideologico e tribale in cui impera ancora il credo dei bambini perduti nell’isola di Peter Pan, quelli che giocano alla guerra al sistema senza mai poterlo scalfire minimamente, e che solo cercano una loro nicchia di potere in cui agitare la cresta.
Bisogna fare presto per ridare forza e speranza a tutte quelle categorie di cittadini sempre più indifesi e colpiti dal caro vita, dal precariato, dalla mancanza di servizi pubblici adeguati, che pagano sempre le tasse e vedono tagliare le risorse che solo loro in gran parte finanziano, con il loro lavoro ed il loro sacrificio quotidiano.
Restituire una forza e una speranza agli ideali di pace, solidarietà e progresso, basati su un modello di società sostenibile che sa che la propria ricchezza è frutto di investimenti in aree innovative come la scuola, la ricerca e le fonti di energia rinnovabile.
La sinistra da costruire ed unire è quella che, come suo primo punto da realizzare a tutti i costi, ha la necessità di impedire che una persona vada a lavorare e lasci nel suo posto di lavoro tutto, e cioè la sua vita.
La politica di questa sinistra deve rendere la risoluzione dei problemi relativi all’occupazione indissolubile rispetto alla risoluzione di quelli relativi alla salute, alla pensione e alla casa.
Perché senza lavoro stabile, non c’è casa né famiglia e né futuro per i figli, nemmeno da potere immaginare.
Deve cercare accordi costruttivi per realizzare una società basata su fondamentali valori umani, anche con chi crede che tali valori siano frutto di una forte ispirazione spirituale e religiosa e che, coerentemente con ciò, si impegna solo per attuarli e non per farne mero uso strumentale.
La sinistra che deve realizzarsi deve essere federalista perché, sempre come scriveva Rosselli: “Il federalismo politico territoriale è un aspetto e una applicazione del più generale concetto di autonomia a cui il nostro movimento si richiama: cioè di libertà positivamente affermata per i singoli, gruppi, in una concezione pluralistica dell’organizzazione sociale”
E dunque un federalismo che si fondi su organi territoriali vivi, non su strumenti e istituzioni burocratiche, in cui prevale l’elemento coattivo, ma su organi in cui l’individuo partecipa direttamente, spontaneamente alla vita della comunità a cui vuole dare il suo contributo e che vuole controllare, e da cui attinge il rinnovamento delle sue radici e della sua identità.
Una sinistra che può e deve essere liberale, vincolata a valori di solidarietà sociale, ma aperta alla concorrenza e al merito, pronta a premiarlo e a valorizzarlo soprattutto quando esso contribuisce all’innovazione e al beneficio per tutta la comunità e non serve solo ad acquisire privilegi e potere.
Ci si deve aprire in campo nazionale ed internazionale alla collaborazione con aziende, gruppi economici e finanziari e centri produttivi che legano la loro crescita e produttività all’innovazione e al miglioramento della qualità dei prodotti, e non sono invece condizionati da logiche speculative e proiettati verso la costruzione di monopoli che distruggono l’essenza stessa del liberalismo, annientando così interi stati ed intere economie, e respingendoli verso la soglia della miseria e della emarginazione. Le stesse logiche e corporazioni che, con la loro avidità e il loro capitalismo privo di regole, pongono le basi per i conflitti e per l’incremento dell’odio, del risentimento e del fondamentalismo.
Bisogna costruire una pace che si basi sulla sicurezza e assumere le responsabilità concrete che una comunità internazionale vuole esercitare quando si impegna a dirimere i conflitti, intervenendo per sostenere iniziative concrete di pace, con programmi ed obiettivi precisi, non per avallare missioni senza fine che, di fatto, aiutano solo la crescita di traffici illeciti i quali prosperano nella confusione e nella debolezza dei governi e delle istituzioni locali
Facciamo rivivere gli ideali di Giustizia e Libertà, quelli che portarono tanti giovani a combattere e a morire in Spagna prima, e nelle varie lotte di liberazione durante la seconda guerra mondiale poi, liberando alla fine l’Europa dal nazifascismo e dalla dittatura, gli stessi che non avrebbero mai accettato la statolatria dei regimi sovietici e il soffocamento della libertà individuale, in nome della disciplina di partito.
Sono ideali di cui oggi, un’Italia stordita e illusa da aggregazioni politiche vincolate più ad interessi di parte e a trame personalistiche, piuttosto che a grandi valori civili, ha un bisogno vitale.
Sono gli unici che possono restituirci una democrazia degna di tale nome, e non farci sprofondare in un moderno feudalesimo tecnocratico, in cui l’unica libertà concessa a profusione è solo quella del voyeurista, del guardone, che si affaccia ma non tocca, ammira ma non partecipa, soffre e gioisce ma non condivide, guarda ma non compra più perché non può, come un pollo sempre più spennato.
Soddisfatto del padrone che ogni giorno gli porta il becchime e inconsapevole di quella volta in cui entrerà nell’aia per tirargli il collo, tanto instupidito da poter gioire persino in quella occasione nefasta.
Siamo un popolo dalle grandi tradizioni civili e culturali, che non merita la fine dei polli in batteria, non merita di morire di becchime mediatico avvelenato, o a causa dello strangolamento ad opera del migliore per sé, creduto meno peggio per tutti.
Noi meritiamo di più, conquistiamocelo unendoci e lottando insieme
Oggi in Europa domani in Italia
Giustizia e Libertà
C. Felici
Alessandro Silvestri: Genova, Livorno, Bad-Godesberg, Epinay
Genova, Livorno, Bad-Godesberg ed Epinay
1892, 1921, 1958, 1971.
Nel 2009 anno orribilis per la sinistra italiana, mai come oggi umiliata ed umiliante per noi popolo di fedeli, la cui fede risulta ormai estremamente provata e al limite della consunzione, ecco che forse non per merito nostro (e dei nostri dirigenti il che non è uguale ma diciamo che fa lo stesso) ma per mano dei nostri avversari che intendevano affondare il coltello definitivamente in una gola già quasi esangue, ecco che il tentativo definitivo di cancellazione di una storia travagliata ma senza eguali in fatto di progresso civile e di coscienza di popolo in Italia, potrebbe capovolgere la situazione avviata al punto di non ritorno.
Se consideriamo come nacque il primo partito degli eguali e dei miserabili nel nostro Paese, senza particolari mezzi diremmo oggi mediatici, attraverso il sindacato ancora carbonaro, le prime cooperative, il tam-tam amplificato dalla miseria e dall'oppressione, con l'ausilio al massimo di stamperie clandestine; almeno a chi scrive, non può che arrivare un brivido di ammirazione e stupore che corre lungo la schiena e si riverbera sui tasti del pc.
Furono anni di grandi entusiasmi, di qualche conquista e di molte sconfitte frutto di inevitabili errori di gioventù.
Poi arrivò l'illusione sovietica che tutto e subito si potesse fare, per cancellare i millenni della storia dell'uomo costruita pietra su pietra, dal sistematico dualismo forte contro debole.
Il popolo si divise, ma fece ancor più paura la sua forza potenziale di esplosione rivoluzionaria, la borghesia arretrò e il capitale mise in campo i suoi terribili anticorpi.
Dopo la seconda guerra, la parte d''Europa ormai libera dagli imperi e dai totalitarismi, acquisì finalmente una coscienza nuova fatta di pace e cooperazione tra gli stessi vincitori e vinti. L'involuzione subita nel secolo intercorso tra i trattati di Vienna e di Versailles, si avviava finalmente alla definitiva archiviazione.
Per alcuni anni ancora restò però il dubbio, tra i partiti della sinistra europea, se fare come a Mosca oppure convincersi definitivamente alla democrazia e al confronto con l'altro che essa impone e sulla quale affonda i suoi pilastri.
A Bad-Godesberg, un distretto di Bonn nel 1958, la SPD tedesca riuscì a far prevalere definitivamente la cultura riformista e mise le basi per la partecipazione dei socialisti ai governi di coalizione mettendo definitivamente Marx e le tendenze rivoluzionarie, tra i cimeli di famiglia.
Questo avvenimento si allargherà a macchia d'olio in tutta l'Europa continentale e sarà alla base della nascita della UE come la conosciamo oggi.
Nella Francia ancora profondamente gollista e non ancora ripresasi dallo shock derivante dalla perdita della sua centralità politica europea prima ancora che mondiale, i socialisti ormai ridotti al lumicino che pure avevano guidato governi già prima del secondo conflitto come nel caso di quello di Leòn Blumm, si trovarono nel giugno del 1971 di fronte al dilemma già avanzato in Italia da Pietro Nenni "Rinnovarsi o perire".
Nel congresso di Epinay-sur-Seine, prevalse la prima ipotesi tanto che affidarono la guida del nuovo partito che nasceva dalle ceneri di diverse formazioni della sinistra, a François Mitterrand che proprio un socialista ortodosso non era.
Abbiamo visto in seguito come il PSF seppe ritrovare le proposte e il consenso necessario per ritornare alla guida del Paese, svolgendo al contempo un ruolo non secondario per il rafforzamento di una cultura politica dell'Europa.
Ritornando alla situazione politica dell'Italia di adesso, di fronte ad un debordante (ed incontrastato) riaffioraramento di una concezione del potere padronale, paternalista (pro domo sua) e personalistico, cosa dobbiamo ancora aspettare per fare come in Europa, nei "minuti di recupero" che ci sono rimasti?
Come non appellarsi ancora una volta (sperando che sia quella buona) al motto di Rosselli "Insorgere per risorgere" ?
1892, 1921, 1958, 1971.
Nel 2009 anno orribilis per la sinistra italiana, mai come oggi umiliata ed umiliante per noi popolo di fedeli, la cui fede risulta ormai estremamente provata e al limite della consunzione, ecco che forse non per merito nostro (e dei nostri dirigenti il che non è uguale ma diciamo che fa lo stesso) ma per mano dei nostri avversari che intendevano affondare il coltello definitivamente in una gola già quasi esangue, ecco che il tentativo definitivo di cancellazione di una storia travagliata ma senza eguali in fatto di progresso civile e di coscienza di popolo in Italia, potrebbe capovolgere la situazione avviata al punto di non ritorno.
Se consideriamo come nacque il primo partito degli eguali e dei miserabili nel nostro Paese, senza particolari mezzi diremmo oggi mediatici, attraverso il sindacato ancora carbonaro, le prime cooperative, il tam-tam amplificato dalla miseria e dall'oppressione, con l'ausilio al massimo di stamperie clandestine; almeno a chi scrive, non può che arrivare un brivido di ammirazione e stupore che corre lungo la schiena e si riverbera sui tasti del pc.
Furono anni di grandi entusiasmi, di qualche conquista e di molte sconfitte frutto di inevitabili errori di gioventù.
Poi arrivò l'illusione sovietica che tutto e subito si potesse fare, per cancellare i millenni della storia dell'uomo costruita pietra su pietra, dal sistematico dualismo forte contro debole.
Il popolo si divise, ma fece ancor più paura la sua forza potenziale di esplosione rivoluzionaria, la borghesia arretrò e il capitale mise in campo i suoi terribili anticorpi.
Dopo la seconda guerra, la parte d''Europa ormai libera dagli imperi e dai totalitarismi, acquisì finalmente una coscienza nuova fatta di pace e cooperazione tra gli stessi vincitori e vinti. L'involuzione subita nel secolo intercorso tra i trattati di Vienna e di Versailles, si avviava finalmente alla definitiva archiviazione.
Per alcuni anni ancora restò però il dubbio, tra i partiti della sinistra europea, se fare come a Mosca oppure convincersi definitivamente alla democrazia e al confronto con l'altro che essa impone e sulla quale affonda i suoi pilastri.
A Bad-Godesberg, un distretto di Bonn nel 1958, la SPD tedesca riuscì a far prevalere definitivamente la cultura riformista e mise le basi per la partecipazione dei socialisti ai governi di coalizione mettendo definitivamente Marx e le tendenze rivoluzionarie, tra i cimeli di famiglia.
Questo avvenimento si allargherà a macchia d'olio in tutta l'Europa continentale e sarà alla base della nascita della UE come la conosciamo oggi.
Nella Francia ancora profondamente gollista e non ancora ripresasi dallo shock derivante dalla perdita della sua centralità politica europea prima ancora che mondiale, i socialisti ormai ridotti al lumicino che pure avevano guidato governi già prima del secondo conflitto come nel caso di quello di Leòn Blumm, si trovarono nel giugno del 1971 di fronte al dilemma già avanzato in Italia da Pietro Nenni "Rinnovarsi o perire".
Nel congresso di Epinay-sur-Seine, prevalse la prima ipotesi tanto che affidarono la guida del nuovo partito che nasceva dalle ceneri di diverse formazioni della sinistra, a François Mitterrand che proprio un socialista ortodosso non era.
Abbiamo visto in seguito come il PSF seppe ritrovare le proposte e il consenso necessario per ritornare alla guida del Paese, svolgendo al contempo un ruolo non secondario per il rafforzamento di una cultura politica dell'Europa.
Ritornando alla situazione politica dell'Italia di adesso, di fronte ad un debordante (ed incontrastato) riaffioraramento di una concezione del potere padronale, paternalista (pro domo sua) e personalistico, cosa dobbiamo ancora aspettare per fare come in Europa, nei "minuti di recupero" che ci sono rimasti?
Come non appellarsi ancora una volta (sperando che sia quella buona) al motto di Rosselli "Insorgere per risorgere" ?
Francesco Maria: Fermiamo la danza macabra
(...) Scriveva qualche giorno fa Angelo Panebianco sul «Corriere della Sera»: «Lo scontro sui contenuti della legge che deve regolare il fine vita dilanierà il Paese per molti anni», torneranno i guelfi contro i ghibellini. «Panebianco avrebbe fatto bene a inforcare la penna nella fase in cui, a caso Englaro ancora aperto, era stato Camillo Ruini presidente della Cei a indicare quella direzione», sospira Enzo Carra che ovviamente condivide, «non fare una legge, non codificare un’illibertà è una posizione molto più rispettabile dei traccheggi su idratazioni e alimentazioni forzate». Si può notare che il tema era già stato lanciato anni e anni fa da Francesco Merlo, che poi già nel 2006 preconizzava l’attuale danza macabra parlamentare scrivendo in prima pagina su «Repubblica», a proposito della lettera di Welby a Napolitano: «Provate a immaginare la ferocia di un duello legislativo, concentratevi sui tanti corpi di italiani, già Campo di Marte delle più inutili terapie mediche, abbandonati all’invelenimento di una battaglia di tipo elettorale». Merlo, che la pensava come la pensava una volta Emma Bonino, che insomma un testamento biologico ci volesse, cambiò parere quando nel 2002 morì la mamma di Lionel Jospin: fu aiutata a morire, nel silenzio come ultima carezza, e se ne parlò solo dopo. La via francese, cattolica e senza bisogno di leggi, contro quella all’olandese, l’eutanasia di Stato in terra protestante. E anche Marcello Pera, che pure lui è stato Radicale come Bonino e oggi è l’intellettuale più ascoltato da Ratzinger, interrogato ripete quel disse al «Foglio». Ma quale ddl Calabrò, ma quale legge Marino-Veronesi, «non si può imporre un’etica di Stato, perché in una società libera l’etica precede lo Stato». Magari una buona norma ci vorrebbe, «ma il tema è da battaglia culturale, non c’è bisogno di una legge per imporlo». (...)
Tratto da LaStampa del 27febbraio 2009 http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200902articoli/41451girata.asp
Tratto da LaStampa del 27febbraio 2009 http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200902articoli/41451girata.asp
Vittorio Melandri: Il diritto e "la legge del più forte"
Il prof. Paolo Grossi, oggi giudice della Corte Costituzionale, in occasione della prima edizione del “Festival del Diritto”, Piacenza – 25/28 settembre 2008 (www.festivaldeldiritto.it) – , in una seguitissima prolusione dal titolo “La vita e il diritto”, che di fatto ne aprì i lavori, ebbe fra l’altro a sottolineare come il diritto, e qui parafraso le sue parole, prima di essere comando sia ordinamento, cioè organizzazione e osservanza, non cieca obbedienza, perchè il diritto sta nelle radici della società, nella sua fisiologia, non nella sua patologia.
Facile dedurre da tali concetti, come prima della nascita del diritto così inteso, nella società umana ci stesse, appunto primitivamente, la “legge del più forte”.
Sembra proprio che nel nostro Paese si stia vivendo una fase particolarmente critica, che, per dirla ancora con il prof. Grossi, consiste nella “crisi del modo in cui il diritto è costretto a manifestarsi”.
Da cittadino semplice mi colpisce in particolare la violenza con cui i “più forti”, dinnanzi alla concreta e limpida possibilità di legiferare su materie che per loro natura si prestano ad essere ordinate con norme che alla coscienza individuale consentano, si ostinano invece a proporre norme che alla coscienza di tutti impongono, cioè ad imporre appunto “la legge del più forte”.
E senza pudore, la chiamano anche libertà, e diritto alla vita.
La timidezza con cui gli oppositori a tale deriva, manifestano anche le loro “espresse” domande, lascia noi cittadini semplici forse più sfiniti, della protervia e degli arzigogoli con cui a quelle timide domande vengono opposte assurde risposte, o in alternativa arroganti silenzi.
Vittorio Melandri
Facile dedurre da tali concetti, come prima della nascita del diritto così inteso, nella società umana ci stesse, appunto primitivamente, la “legge del più forte”.
Sembra proprio che nel nostro Paese si stia vivendo una fase particolarmente critica, che, per dirla ancora con il prof. Grossi, consiste nella “crisi del modo in cui il diritto è costretto a manifestarsi”.
Da cittadino semplice mi colpisce in particolare la violenza con cui i “più forti”, dinnanzi alla concreta e limpida possibilità di legiferare su materie che per loro natura si prestano ad essere ordinate con norme che alla coscienza individuale consentano, si ostinano invece a proporre norme che alla coscienza di tutti impongono, cioè ad imporre appunto “la legge del più forte”.
E senza pudore, la chiamano anche libertà, e diritto alla vita.
La timidezza con cui gli oppositori a tale deriva, manifestano anche le loro “espresse” domande, lascia noi cittadini semplici forse più sfiniti, della protervia e degli arzigogoli con cui a quelle timide domande vengono opposte assurde risposte, o in alternativa arroganti silenzi.
Vittorio Melandri
Ida Rotano: Showdown sul diritto di sciopero
da Aprile
Showdown sul diritto di sciopero
Ida Rotano, 26 febbraio 2009, 18:06
Il disegno di legge delega al governo è all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri di domani. Si accende lo scontro tra governo e Cgil: "Credo che ci sia una larga convergenza con la gran parte delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro. Temo però che manchi la Cgil", ha affermato il ministro Sacconi. Non si fa attendere la reazione di Epifani: il governo, avverte "stia attento, perché in materia di libertà del diritto di sciopero costituzionalmente garantito bisogna procedere con molta attenzione" . Le reazioni politiche
La crisi economica morde sempre più e il governo, colpevolmente cosciente del fatto che le misure anticrisi finora adottate sono assolutamente insufficienti e che l'effetto annuncio non basterà a farlo passare indenne in una recessione economica che ha appena iniziato a farsi sentire, decide di dare il colpo finale al mondo del lavoro per disinnescare il pericolo di una vasta opposizione sociale. Così, arriva lo showdown sul diritto di sciopero. Ufficialmente si tratta di "far convivere" il diritto costituzionale alla protesta dei lavoratori con quello degli interessi dei cittadini-utenti. Ufficialmente la nuova regolamentazione riguarderà solo il settore dei trasporti. Ma la realtà rischia di essere molto diversa: il governo rifiuta di legiferare sulla democrazia sindacale, respinge l'ipotesi che le lavoratrici e i lavoratori possano decidere sulle piattaforme e sugli accordi con il loro voto e, nello stesso tempo, gli impone di non scioperare o di scioperare virtualmente.
I tempi della riforma. La proposta di riforma delle leggi che regolano le agitazioni nei servizi pubblici essenziali, specificatamente nei trasporti verrà approvata domani in consiglio dei ministri.
Tre i punti chiave della bozza: l'idea di introdurre un referendum in azienda per verificare se la maggioranza dei lavoratori vuole l'agitazione, l'ipotesi di chiedere una comunicazione anticipata dell'adesione di un dipendente allo sciopero, infine, il concetto di "sciopero virtuale". In pratica una giornata di agitazione che prevede comunque il lavoro di chi aderisce e che porta in beneficenza il corrispettivo dovuto e non pagato dall'azienda a chi sciopera.
Il ministro Sacconi ha detto di "confidare in una larga convergenza con la gran parte delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro" ad eccezione della Cgil.
Poi in un confronto/scontro a distanza con Guglielo Epifani, il ministro definisce "assurde" le accuse di forzatura sul diritto di sciopero e anticipa che il governo "non accetterà veti".
"Ricordo a Epifani - dice il ministro del welfare - che il Governo ha proceduto a definire un cauto percorso di consultazione con le parti sociali relativamente all'ipotesi di regolazione delle modalità di conciliazione tra diritto di sciopero e diritto alla libera circolazione delle persone. Il Consiglio dei ministri del 17 ottobre scorso (ben oltre quattro mesi fa) ha approvato prime linee guida in materia, cui è seguita una consultazione delle parti sociali con la presenza di tutti i segretari generali (Epifani era rappresentato dal segretario confederale Solari). Sono stati richiesti contributi anche scritti e in tempi ancor più lunghi di quelli annunciati - prosegue Sacconi -. Si ritorna ora al Consiglio dei Ministri sulla base di un testo che ha recepito molte delle indicazioni presentate dalle parti sociali.
Si tratterà ovviamente di un disegno di legge (e non di un decreto legge) contenente deleghe che, una volta approvate dal Parlamento, saranno oggetto di relativa consultazione espressamente prevista dalla norma".
Il monito della Cgil. Se il Governo intende riformare il diritto di sciopero dei servizi di pubblica utilità con l'obiettivo di ridurre una libertà garantita dalla Costituzione, la Cgil si opporrà.
"Vedremo cosa il Governo deciderà affettivamente - ha detto Epifani - stia molto attento perchè in materia di libertà, di diritto allo sciopero che è una libertà delle persone costituzionalmente garantite, bisogna procedere con grande attenzione".
Epifani ha aggiunto che "se il Governo intende, partendo dal problema del rispetto del diritto degli utenti, ridurre una libertà fondamentale la Cgil si opporrà ora e dopo". Il leader della Cgil ha comunque confermato la disponibilità della sua organizzazione a confrontarsi con l'esecutivo. "Naturalmente - ha detto - su materie come questa se il Governo decide, nella sua bontà, di discutere anche con le organizzazioni sindacali noi siamo pronti. Naturalmente, sulla base delle nostre opinioni".
Epifani ha ricordato che "il sindacato confederale italiano è sempre stato attento a conciliare il diritto di sciopero con quello degli utenti, in modo particolare nel settore dei trasporti. Se c'è da aggiustare qualcosa di una normativa pure rigida che abbiamo - ha sottolineato - eventualmente questo lo si può vedere. Ma se si vogliono introdurre forzature che limitano poteri e prerogative è un'altra questione".
Secondo il leader della Cgil "tutto dipende da cosa il Governo decide e dalle questioni che porrà. A mio modo di vedere non si può decidere uno sciopero con il 51%, mentre il 49% non può mai scioperare". Sullo sciopero virtuale, Epifani ha affermato che "può essere aggiuntivo e mai sostitutivo". Sul fatto di dichiarare l'adesione preventiva allo sciopero, il segretario generale della Cgil ha osservato che "può essere un modo per rendere inutile uno sciopero. Attorno a questi nodi è evidente che ruoterà il confronto, se il Governo intende aprirlo. Il Governo stia molto attento su questa cosa". Il numero uno di Corso Italia ha confermato che su questi temi si tenterà una intesa anche con Cisl e Uil. Ma - ha concluso - "se uno pensasse di estendere ad altri settori lo sciopero e di forzare la Costituzione è chiaro che ci sarebbe un problema di democrazia. Infatti non c'è solo il problema del diritto degli utenti, talvolta uno sciopero fatto bene aiuta a regolare il conflitto meglio di altre forme improprie".
Ma i sindacati non fanno fronte comune. La Cisl ha detto sì al progetto del governo a patto che riguardi solo i trasporti.
Plausi nel centrodestra. Il presidente della commissione di Garanzia per gli scioperi, Antonio Martone, approva il progetto di riforma che il Governo si accinge a varare, spiegando che "va bene perché raccoglie molte delle indicazioni giunte in questi anni dal Parlamento". Occorre comunque gradualità ed "è importante che i criteri sulla rappresentanza arrivino dalle parti sociali".
Netta la posizione del presidente della Camera, Gianfranco Fini: "E' auspicabile" che almeno alcuni aspetti dell'esercizio del diritto dello sciopero "possano essere riassorbiti sul terreno politico delle trattative tra datori di lavoro e sindacati, ma è sempre più urgente avviare una riflessione sulla 'tenuta' della vigente disciplina di settore per individuarne lacune e prospettare ipotesi di adeguamento alla nuova realtà". Fini, aprendo i lavori dell'Autorithy sull'attuazione della legge sullo sciopero, aggiunge: "Non si tratta di soffocare il diritto di sciopero, ma di armonizzarlo con l'esercizio degli altri diritti di tutti i cittadini, con un bilanciamento che deve tener conto dell'evoluzione sociale".
Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, afferma: "Non si può più pensare agli scioperi selvaggi. C'è l'idea del cosiddetto 'sciopero virtuale'. Oggi lo sciopero dei trasporti non punisce certo l'azienda degli autobus o dei treni, ma il pendolare e chi deve andare al lavoro. Allora perché non fare uno sciopero virtuale: si fa sapere che lo scioperante avanza delle rivendicazioni nei confronti dell'azienda, dopodiché il denaro che il lavoratore avrebbe perso a causa dello sciopero si potrà destinare alla beneficenza o ai fondi per la cassa integrazione".
E Umberto Bossi spiega così la posizione della Lega in merito all'intervento sullo sciopero che il Governo sta preparando: "Gli scioperi selvaggi non vanno bene, perchè portano via altri diritti ai cittadini. Bisogna trovare un compromesso con il diritto allo sciopero che è garantito dalla Costituzione e che è parte della nostra storia".
Il Partito democratico è atteso al varco. Di "proposta positiva", in riferimento allo sciopero virtuale, parla il giuslavorista Pietro Ichino, senatore democratico. Da lui è stata depositata a Palazzo Madama quattro mesi fa un ddl sul tema. "La nostra proposta è stata discussa a novembre con le parti sociali ivi comprese la associazioni dei consumatori, quella del governo, per ora, è solo un atto unilaterale. Ignoriamo quali consultazioni abbia fatto in proposito il governo e quali siano stati i risultati, in tutti i casi non è certo questo il modo di procedere su questa materia", spiega Ichino. "Il governo si è rifatto alla nostra elaborazione inserendo elementi di provocazione e alcune contraddizioni che non giovano alla limpidezza della sua iniziativa e rischiano di essere controproducenti sul piano dell'applicazione pratica".
Pierluigi Mantini dice "no" a forzature, ma sottolinea come "certamente c'e' la necessita' di regolamentare meglio lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, per arrecare un danno limitato all'utenza e per evitare che si arrivi a quelle forme riconducibili agli scioperi selvaggi".
Enrico Letta, Tiziano Treu e Cesare Damiano si affidano ad una nota congiunta: "La materia dello sciopero è troppo rilevante, sul piano costituzionale e politico, per essere affrontata con iniziative unilaterali del Governo, tanto più con lo strumento della legge delega, già largamente abusato dall'esecutivo", scrivono.
"Condividiamo l'esigenza che l'esercizio dello sciopero sia reso compatibile con la tutela dei cittadini e che si possano trovare regole per migliorare questa tutela, specie nel settore dei trasporti dove la regolamentazione attuale non ha impedito gravi disagi ai cittadini soprattutto per iniziative conflittuali di organizzazioni poco o niente rappresentative. La definizione di queste regole deve essere oggetto di una ricerca comune con le parti sociali che possa essere base di una soluzione legislativa".
"Riteniamo quindi urgente - proseguono i tre esponenti del Pd - che il Governo predisponga un tavolo di confronto con tutte le parti interessate per valutare gli interventi più adatti in materia: strumenti negoziali di prevenzione dei conflitti, procedure di proclamazione che verifichino l'effettiva volontà dei sindacati e dei lavoratori in ordine al conflitto, anche con ricorso al referendum, forme alternative di conflitto, come lo sciopero virtuale, non lesive dei diritti dei cittadini".
Per Rosy Bindi, il governo sbaglia tempi e modi per intervenire sulla regolamentazione del diritto di sciopero nel trasporto pubblico. "La scelta di un disegno di legge delega che incide in maniera così rilevante su questa materia appare molto problematica, sembra infatti prevalere la volontà politica di sterilizzare il dissenso che non la ricerca di contemperare i legittimi interessi dei lavoratori e degli utenti". E la vicepresidente della Camera aggiunge: "Lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito, limitarne il ricorso in presenza di una situazione economica e sociale assai difficile diventa pericoloso soprattutto se queste norme dovessero configurarsi come il nuovo tassello di una strategia che produce la divisione tra i sindacati e la contrapposizione tra lavoratori. Serve prima di tutto un confronto con le parti sociali e con il Parlamento, espressione della rappresentanza dell'interesse generale".
Netto il senatore Paolo Nerozzi, della sinistra democrats: "Nessuna legge sullo sciopero senza un accordo con Cgil, Cisl e Uil".
"E' indispensabile - aggiunge Nerozzi - lavorare contemporaneamente, in tema di regolamentazione dello sciopero, a nuove norme utili a garantire la certezza della rappresentanza sindacale, a partire della piattaforma sindacale unitaria che già prevedeva importanti innovazioni in tal senso. Il compito del legislatore, in questa materia così delicata, dovrebbe attenersi al recepimento degli accordi delle parti sociali. Naturalmente dovremo leggere attentamente quello che il governo sta predisponendo. Ma - continua il senatore del Pd - da subito desidero invitare l'esecutivo a fare molta attenzione in materia di libertà del diritto di sciopero. Si tratta della libertà delle persone, costituzionalmente garantita. E' necessario, quindi, procedere con cautela, sensibilità e coinvolgimento di tutti. Inoltre - conclude Nerozzi - un provvedimento che assumesse un taglio ideologico in tema di restringimento del diritto di sciopero, rischierebbe di aumentare la conflittualità sia nelle modalità tradizionali sia in vecchie forme corporative".
La sinistra annuncia le barricate. "Dopo aver cancellato la rappresentanza e il conflitto sul terreno politica e istituzioni, questo Governo prova a cancellare le esperienze di conflitto sociale e i diritti inalienabili dei lavoratori e lavoratrici, sia individuali che collettivi". E' quanto dichiara Franco Giordano, esponente del Movimento per la Sinistra. "E' veramente inquietante, occorre una mobilitazione democratica - dice Giordano - perchè quello che si mette in atto è una vera e propria stretta autoritaria: in un momento di crisi drammatica vogliono imbavagliare il mondo del lavoro, scaricando su di esso tutti i costi della crisi".
Per Giorgio Cremaschi della Fiom-Cgil ed esponente della Rete 28 Aprile, "il diritto allo sciopero è un diritto individuale e già esistono le leggi che lo disciplinano. Trasformarlo in un potere dei sindacati maggioritari, tra l'altro da attuare in forme virtuali, cioè inesistenti, significa semplicemente cancellare tale diritto. Né vale la tesi per cui questa misura eccezionale e antidemocratica avrebbe effetti solo nel settore dei trasporti. E' evidente, infatti, che i principi che qui vengono affermati, proprio perché affrontano temi di carattere costituzionale, non possono essere ristretti a un solo settore. Limitare la libertà, imporre autoritariamente le decisioni e reprimere il dissenso è una caratteristica tipica dei sistemi antidemocratici e, nella nostra storia, è la caratteristica autentica del fascismo", continua il sindacalista.
"Se il Governo andrà avanti su queste misure, occorrerà una risposta politica e sindacale senza precedenti, sia sul piano delle relazioni sociali e sindacali, sia sul piano del ricorso alla magistratura e alla Corte Costituzionale. E' chiaro che dopo questa scelta, con questo Governo ci puo' essere solo rottura e conflitto sociale".
Per Paolo Ferrero: "Il governo attacca il diritto di sciopero, perché vuole far pagare la crisi ai lavoratori e portare avanti un disegno complessivo di attacco e stravolgimento della Costituzione, aggredendo i sindacati dopo averlo fatto con la magistratura". Secondo il leader del Prc il governo pensa di "cominciare con i trasporti per poi cambiare il diritto di sciopero in tutti i settori perché vogliono stravolgere tutto. L'attacco a questo diritto costituzionale è sempre motivato in modo diverso- spiega - ma la verità è che i lavoratori sono costretti a scioperare perché le aziende non rispettano i contratti, soprattutto quelle dei trasporti.Il governo vuole la guerra tra i poveri per coprire le sue responsabilità".
Showdown sul diritto di sciopero
Ida Rotano, 26 febbraio 2009, 18:06
Il disegno di legge delega al governo è all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri di domani. Si accende lo scontro tra governo e Cgil: "Credo che ci sia una larga convergenza con la gran parte delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro. Temo però che manchi la Cgil", ha affermato il ministro Sacconi. Non si fa attendere la reazione di Epifani: il governo, avverte "stia attento, perché in materia di libertà del diritto di sciopero costituzionalmente garantito bisogna procedere con molta attenzione" . Le reazioni politiche
La crisi economica morde sempre più e il governo, colpevolmente cosciente del fatto che le misure anticrisi finora adottate sono assolutamente insufficienti e che l'effetto annuncio non basterà a farlo passare indenne in una recessione economica che ha appena iniziato a farsi sentire, decide di dare il colpo finale al mondo del lavoro per disinnescare il pericolo di una vasta opposizione sociale. Così, arriva lo showdown sul diritto di sciopero. Ufficialmente si tratta di "far convivere" il diritto costituzionale alla protesta dei lavoratori con quello degli interessi dei cittadini-utenti. Ufficialmente la nuova regolamentazione riguarderà solo il settore dei trasporti. Ma la realtà rischia di essere molto diversa: il governo rifiuta di legiferare sulla democrazia sindacale, respinge l'ipotesi che le lavoratrici e i lavoratori possano decidere sulle piattaforme e sugli accordi con il loro voto e, nello stesso tempo, gli impone di non scioperare o di scioperare virtualmente.
I tempi della riforma. La proposta di riforma delle leggi che regolano le agitazioni nei servizi pubblici essenziali, specificatamente nei trasporti verrà approvata domani in consiglio dei ministri.
Tre i punti chiave della bozza: l'idea di introdurre un referendum in azienda per verificare se la maggioranza dei lavoratori vuole l'agitazione, l'ipotesi di chiedere una comunicazione anticipata dell'adesione di un dipendente allo sciopero, infine, il concetto di "sciopero virtuale". In pratica una giornata di agitazione che prevede comunque il lavoro di chi aderisce e che porta in beneficenza il corrispettivo dovuto e non pagato dall'azienda a chi sciopera.
Il ministro Sacconi ha detto di "confidare in una larga convergenza con la gran parte delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro" ad eccezione della Cgil.
Poi in un confronto/scontro a distanza con Guglielo Epifani, il ministro definisce "assurde" le accuse di forzatura sul diritto di sciopero e anticipa che il governo "non accetterà veti".
"Ricordo a Epifani - dice il ministro del welfare - che il Governo ha proceduto a definire un cauto percorso di consultazione con le parti sociali relativamente all'ipotesi di regolazione delle modalità di conciliazione tra diritto di sciopero e diritto alla libera circolazione delle persone. Il Consiglio dei ministri del 17 ottobre scorso (ben oltre quattro mesi fa) ha approvato prime linee guida in materia, cui è seguita una consultazione delle parti sociali con la presenza di tutti i segretari generali (Epifani era rappresentato dal segretario confederale Solari). Sono stati richiesti contributi anche scritti e in tempi ancor più lunghi di quelli annunciati - prosegue Sacconi -. Si ritorna ora al Consiglio dei Ministri sulla base di un testo che ha recepito molte delle indicazioni presentate dalle parti sociali.
Si tratterà ovviamente di un disegno di legge (e non di un decreto legge) contenente deleghe che, una volta approvate dal Parlamento, saranno oggetto di relativa consultazione espressamente prevista dalla norma".
Il monito della Cgil. Se il Governo intende riformare il diritto di sciopero dei servizi di pubblica utilità con l'obiettivo di ridurre una libertà garantita dalla Costituzione, la Cgil si opporrà.
"Vedremo cosa il Governo deciderà affettivamente - ha detto Epifani - stia molto attento perchè in materia di libertà, di diritto allo sciopero che è una libertà delle persone costituzionalmente garantite, bisogna procedere con grande attenzione".
Epifani ha aggiunto che "se il Governo intende, partendo dal problema del rispetto del diritto degli utenti, ridurre una libertà fondamentale la Cgil si opporrà ora e dopo". Il leader della Cgil ha comunque confermato la disponibilità della sua organizzazione a confrontarsi con l'esecutivo. "Naturalmente - ha detto - su materie come questa se il Governo decide, nella sua bontà, di discutere anche con le organizzazioni sindacali noi siamo pronti. Naturalmente, sulla base delle nostre opinioni".
Epifani ha ricordato che "il sindacato confederale italiano è sempre stato attento a conciliare il diritto di sciopero con quello degli utenti, in modo particolare nel settore dei trasporti. Se c'è da aggiustare qualcosa di una normativa pure rigida che abbiamo - ha sottolineato - eventualmente questo lo si può vedere. Ma se si vogliono introdurre forzature che limitano poteri e prerogative è un'altra questione".
Secondo il leader della Cgil "tutto dipende da cosa il Governo decide e dalle questioni che porrà. A mio modo di vedere non si può decidere uno sciopero con il 51%, mentre il 49% non può mai scioperare". Sullo sciopero virtuale, Epifani ha affermato che "può essere aggiuntivo e mai sostitutivo". Sul fatto di dichiarare l'adesione preventiva allo sciopero, il segretario generale della Cgil ha osservato che "può essere un modo per rendere inutile uno sciopero. Attorno a questi nodi è evidente che ruoterà il confronto, se il Governo intende aprirlo. Il Governo stia molto attento su questa cosa". Il numero uno di Corso Italia ha confermato che su questi temi si tenterà una intesa anche con Cisl e Uil. Ma - ha concluso - "se uno pensasse di estendere ad altri settori lo sciopero e di forzare la Costituzione è chiaro che ci sarebbe un problema di democrazia. Infatti non c'è solo il problema del diritto degli utenti, talvolta uno sciopero fatto bene aiuta a regolare il conflitto meglio di altre forme improprie".
Ma i sindacati non fanno fronte comune. La Cisl ha detto sì al progetto del governo a patto che riguardi solo i trasporti.
Plausi nel centrodestra. Il presidente della commissione di Garanzia per gli scioperi, Antonio Martone, approva il progetto di riforma che il Governo si accinge a varare, spiegando che "va bene perché raccoglie molte delle indicazioni giunte in questi anni dal Parlamento". Occorre comunque gradualità ed "è importante che i criteri sulla rappresentanza arrivino dalle parti sociali".
Netta la posizione del presidente della Camera, Gianfranco Fini: "E' auspicabile" che almeno alcuni aspetti dell'esercizio del diritto dello sciopero "possano essere riassorbiti sul terreno politico delle trattative tra datori di lavoro e sindacati, ma è sempre più urgente avviare una riflessione sulla 'tenuta' della vigente disciplina di settore per individuarne lacune e prospettare ipotesi di adeguamento alla nuova realtà". Fini, aprendo i lavori dell'Autorithy sull'attuazione della legge sullo sciopero, aggiunge: "Non si tratta di soffocare il diritto di sciopero, ma di armonizzarlo con l'esercizio degli altri diritti di tutti i cittadini, con un bilanciamento che deve tener conto dell'evoluzione sociale".
Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, afferma: "Non si può più pensare agli scioperi selvaggi. C'è l'idea del cosiddetto 'sciopero virtuale'. Oggi lo sciopero dei trasporti non punisce certo l'azienda degli autobus o dei treni, ma il pendolare e chi deve andare al lavoro. Allora perché non fare uno sciopero virtuale: si fa sapere che lo scioperante avanza delle rivendicazioni nei confronti dell'azienda, dopodiché il denaro che il lavoratore avrebbe perso a causa dello sciopero si potrà destinare alla beneficenza o ai fondi per la cassa integrazione".
E Umberto Bossi spiega così la posizione della Lega in merito all'intervento sullo sciopero che il Governo sta preparando: "Gli scioperi selvaggi non vanno bene, perchè portano via altri diritti ai cittadini. Bisogna trovare un compromesso con il diritto allo sciopero che è garantito dalla Costituzione e che è parte della nostra storia".
Il Partito democratico è atteso al varco. Di "proposta positiva", in riferimento allo sciopero virtuale, parla il giuslavorista Pietro Ichino, senatore democratico. Da lui è stata depositata a Palazzo Madama quattro mesi fa un ddl sul tema. "La nostra proposta è stata discussa a novembre con le parti sociali ivi comprese la associazioni dei consumatori, quella del governo, per ora, è solo un atto unilaterale. Ignoriamo quali consultazioni abbia fatto in proposito il governo e quali siano stati i risultati, in tutti i casi non è certo questo il modo di procedere su questa materia", spiega Ichino. "Il governo si è rifatto alla nostra elaborazione inserendo elementi di provocazione e alcune contraddizioni che non giovano alla limpidezza della sua iniziativa e rischiano di essere controproducenti sul piano dell'applicazione pratica".
Pierluigi Mantini dice "no" a forzature, ma sottolinea come "certamente c'e' la necessita' di regolamentare meglio lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, per arrecare un danno limitato all'utenza e per evitare che si arrivi a quelle forme riconducibili agli scioperi selvaggi".
Enrico Letta, Tiziano Treu e Cesare Damiano si affidano ad una nota congiunta: "La materia dello sciopero è troppo rilevante, sul piano costituzionale e politico, per essere affrontata con iniziative unilaterali del Governo, tanto più con lo strumento della legge delega, già largamente abusato dall'esecutivo", scrivono.
"Condividiamo l'esigenza che l'esercizio dello sciopero sia reso compatibile con la tutela dei cittadini e che si possano trovare regole per migliorare questa tutela, specie nel settore dei trasporti dove la regolamentazione attuale non ha impedito gravi disagi ai cittadini soprattutto per iniziative conflittuali di organizzazioni poco o niente rappresentative. La definizione di queste regole deve essere oggetto di una ricerca comune con le parti sociali che possa essere base di una soluzione legislativa".
"Riteniamo quindi urgente - proseguono i tre esponenti del Pd - che il Governo predisponga un tavolo di confronto con tutte le parti interessate per valutare gli interventi più adatti in materia: strumenti negoziali di prevenzione dei conflitti, procedure di proclamazione che verifichino l'effettiva volontà dei sindacati e dei lavoratori in ordine al conflitto, anche con ricorso al referendum, forme alternative di conflitto, come lo sciopero virtuale, non lesive dei diritti dei cittadini".
Per Rosy Bindi, il governo sbaglia tempi e modi per intervenire sulla regolamentazione del diritto di sciopero nel trasporto pubblico. "La scelta di un disegno di legge delega che incide in maniera così rilevante su questa materia appare molto problematica, sembra infatti prevalere la volontà politica di sterilizzare il dissenso che non la ricerca di contemperare i legittimi interessi dei lavoratori e degli utenti". E la vicepresidente della Camera aggiunge: "Lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito, limitarne il ricorso in presenza di una situazione economica e sociale assai difficile diventa pericoloso soprattutto se queste norme dovessero configurarsi come il nuovo tassello di una strategia che produce la divisione tra i sindacati e la contrapposizione tra lavoratori. Serve prima di tutto un confronto con le parti sociali e con il Parlamento, espressione della rappresentanza dell'interesse generale".
Netto il senatore Paolo Nerozzi, della sinistra democrats: "Nessuna legge sullo sciopero senza un accordo con Cgil, Cisl e Uil".
"E' indispensabile - aggiunge Nerozzi - lavorare contemporaneamente, in tema di regolamentazione dello sciopero, a nuove norme utili a garantire la certezza della rappresentanza sindacale, a partire della piattaforma sindacale unitaria che già prevedeva importanti innovazioni in tal senso. Il compito del legislatore, in questa materia così delicata, dovrebbe attenersi al recepimento degli accordi delle parti sociali. Naturalmente dovremo leggere attentamente quello che il governo sta predisponendo. Ma - continua il senatore del Pd - da subito desidero invitare l'esecutivo a fare molta attenzione in materia di libertà del diritto di sciopero. Si tratta della libertà delle persone, costituzionalmente garantita. E' necessario, quindi, procedere con cautela, sensibilità e coinvolgimento di tutti. Inoltre - conclude Nerozzi - un provvedimento che assumesse un taglio ideologico in tema di restringimento del diritto di sciopero, rischierebbe di aumentare la conflittualità sia nelle modalità tradizionali sia in vecchie forme corporative".
La sinistra annuncia le barricate. "Dopo aver cancellato la rappresentanza e il conflitto sul terreno politica e istituzioni, questo Governo prova a cancellare le esperienze di conflitto sociale e i diritti inalienabili dei lavoratori e lavoratrici, sia individuali che collettivi". E' quanto dichiara Franco Giordano, esponente del Movimento per la Sinistra. "E' veramente inquietante, occorre una mobilitazione democratica - dice Giordano - perchè quello che si mette in atto è una vera e propria stretta autoritaria: in un momento di crisi drammatica vogliono imbavagliare il mondo del lavoro, scaricando su di esso tutti i costi della crisi".
Per Giorgio Cremaschi della Fiom-Cgil ed esponente della Rete 28 Aprile, "il diritto allo sciopero è un diritto individuale e già esistono le leggi che lo disciplinano. Trasformarlo in un potere dei sindacati maggioritari, tra l'altro da attuare in forme virtuali, cioè inesistenti, significa semplicemente cancellare tale diritto. Né vale la tesi per cui questa misura eccezionale e antidemocratica avrebbe effetti solo nel settore dei trasporti. E' evidente, infatti, che i principi che qui vengono affermati, proprio perché affrontano temi di carattere costituzionale, non possono essere ristretti a un solo settore. Limitare la libertà, imporre autoritariamente le decisioni e reprimere il dissenso è una caratteristica tipica dei sistemi antidemocratici e, nella nostra storia, è la caratteristica autentica del fascismo", continua il sindacalista.
"Se il Governo andrà avanti su queste misure, occorrerà una risposta politica e sindacale senza precedenti, sia sul piano delle relazioni sociali e sindacali, sia sul piano del ricorso alla magistratura e alla Corte Costituzionale. E' chiaro che dopo questa scelta, con questo Governo ci puo' essere solo rottura e conflitto sociale".
Per Paolo Ferrero: "Il governo attacca il diritto di sciopero, perché vuole far pagare la crisi ai lavoratori e portare avanti un disegno complessivo di attacco e stravolgimento della Costituzione, aggredendo i sindacati dopo averlo fatto con la magistratura". Secondo il leader del Prc il governo pensa di "cominciare con i trasporti per poi cambiare il diritto di sciopero in tutti i settori perché vogliono stravolgere tutto. L'attacco a questo diritto costituzionale è sempre motivato in modo diverso- spiega - ma la verità è che i lavoratori sono costretti a scioperare perché le aziende non rispettano i contratti, soprattutto quelle dei trasporti.Il governo vuole la guerra tra i poveri per coprire le sue responsabilità".
Pasqualina Napoletano: per le europee evitiamo la rissa
dal sito di sd
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Per le europee, evitiamo la rissa
di Pasqualina Napoletano*
Sarebbe veramente grave se nel nuovo Parlamento Europeo che andremo ad eleggere a giugno non vi fosse nessun parlamentare italiano che facesse riferimento alla sinistra, così come è già avvenuto nel Parlamento Italiano.
L'appello pubblicato dal vostro giornale sabato scorso e sostenuto già da numerosissime persone testimonia la preoccupazione di tanti e la volontà di reagire ad una situazione che in Italia si fa sempre più cupa e difficilmente reversibile nel breve e medio periodo.
Non è tempo di recriminazioni, per questo apprezzo la volontà di chi, anche a rischio di riproporre un cartello elettorale, invita tutte le forze democratiche, laiche, progressiste e di sinistra ad unirsi dando vita ad un'unica lista europea.
Leggo nell'intervista rilasciata Repubblica dal segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero che l'unità potrebbe farsi solo a patto di far riferimento al simbolo del suo partito e con il vincolo di aderire al gruppo europeo della Sinistra Unitaria. Capisco che la sua reazione è anche dettata dall'esito del congresso, e tuttavia essa equivale ad un No, perché, per dar vita ad un percorso comune, ciascuno dovrebbe essere disposto a rinunciare almeno ad un pizzico della propria identità.
Trovo poi riduttivo rinchiudere le potenzialità della sinistra in un solo gruppo europeo anche perché questo non tiene conto di ciò che in Europa è realmente accaduto in questi anni.
Attualmente nel Parlamento Europeo esistono due maggioranze possibili con geometria variabile. Esse hanno consentito vittorie su terreni importanti ed hanno rappresentato un argine rispetto a provvedimenti legislativi pericolosi. La prima è quella che ha prevalso quando si è trattato di difendere la laicità, i diritti civili, la libertà della scienza e della ricerca e d è composta dalla Sinistra Unitaria Europea, dai Socialisti, dai Verdi e dai Liberali.
Quando essa è stata battuta sono passate norme quali la direttiva sul rimpatrio degli immigrati irregolari, che ha portato i termini della detenzione amministrativa fino a 18 mesi.
Ricordo anche che su questo provvedimento, tanto illiberale da essere definito dalle ONG europee "la direttiva della vergogna", il PD si divise. Vi è poi un'altra maggioranza possibile ed è quella che ha consentito di cambiare sostanzialmente la direttiva Bolkenstein e di bloccare quella sull'orario di lavoro che, così come proposta dai governi, riportava l'Europa a parametri ottocenteschi.
Essa è stata fermata sempre dalla Sinistra Unitaria Europea, dai Socialisti e dai Verdi, ma i Liberali sono stati sostituiti da una parte dei Popolari europei non totalmente consegnati al liberismo.
Entrambe queste maggioranze sono state talmente risicate da far temere sul futuro orientamento del Parlamento Europeo, e questo proprio quando il gioco si farà sempre più duro, poiché si tratterà di decidere come uscire da questa crisi del capitalismo e soprattutto se e come l'Europa entrerà in campo rispetto alle politiche dell'occupazione, della riconversione ecologica, di una politica industriale e della ricerca veramente europee, che vadano in controtendenza rispetto allo spettacolo miserabile e nazionalista cui stiamo assistendo ad opera dei governi.
Sull'ambiente, poi, solo uno schieramento trasversale, centrato sempre sulla sinistra e sui verdi è riuscito a portare in porto il pacchetto sulla diminuzione delle emissioni, il risparmio energetico e la produzione di energie rinnovabili, noto come 20-20-20.
Che senso ha, allora, mettere steccati quando è tutto lo schieramento laico, progressista e di sinistra che va rafforzato?
Personalmente mi auguro che sia le forze che oggi si riferiscono alla Sinistra Unitaria, sia quelle della sinistra socialista, sia i Verdi abbiano successo e non trovo limitativa una lista che faccia riferimento a più gruppi politici nelle condizioni attuali, perché l'obiettivo è il rafforzamento quantitativo di tutte queste forze, insieme ad una loro maggiore unità.
Non so se in Italia riusciremo a dar vita ad un'unica lista di sinistra, personalmente lo auspico, in ogni caso quello che dobbiamo assolutamente evitare è entrare in un clima di rissa e delegittimazione reciproca a sinistra tale da portare una parte dei nostri elettori al non voto. Di fronte a noi vi è una destra che proprio con le elezioni europee potrebbe trasferire a livello continentale la schiacciante vittoria italiana e chiudere anche in Europa spiragli di democrazia, facendosi portabandiera del capitalismo speculativo e finanziario pronto a rigenerarsi magari anche con gli aiuti di Stato e dalle deroghe alla concorrenza che sembrano possibili solo per gli speculatori ed i banchieri.
A questo proposito voglio dare atto ai Socialisti europei del fatto che il primo tentativo istituzionale andato in porto a livello europeo contro i fondi speculativi è venuto dal lavoro svolto da Pol Nyrup Rasmussen, presidente del PSE, autore del primo rapporto su questo tema approvato dal Parlamento Europeo prima della esplosione della crisi.
Ricordo anche che esiste uno spazio politico ed elettorale alla sinistra del PD che abbiamo dissipato nelle scorse elezioni politiche tra "voto utile" e "non voto", ed è quest'ultimo il vero nemico della sinistra.
Il partito del non voto è, come ci spiega Aldo Carra nel suo interessante saggio "Mi sono perso la sinistra", il primo partito degli operai e dei giovani ed è stato mortale sia per il PD, che non ha compensato neanche con il massiccio "voto utile", che per la Sinistra Arcobaleno.
L'appello pubblicato invita i dirigenti politici a fare un passo indietro in favore di liste composte unicamente da esponenti della società civile.
Mi esprimo su questo punto con la libertà di chi, avendo deciso di non ricandidarsi, non ha alcun interesse personale in ballo, per dire che auspicherei un equilibrio tra diverse esperienze senza metterne al bando alcuna. Nel Parlamento Europeo, istituzione complessa e basata su gruppi politici, servono continuità, esperienza politica e di movimento, insieme alle necessarie competenze.
Il bilancio dell'ultima legislatura ci dice, poi, che gli eletti delle sinistre e dei verdi sono stati tra i più presenti ed attivi nel Parlamento Europeo. Sarebbe veramente un autogoal non valorizzare questo lavoro. Perfino L'Espresso nel suo servizio dedicato al ruolo degli italiani in Europa paventava il rischio di veder azzerati dallo sbarramento proprio gli esponenti di quei partiti che più e meglio hanno lavorato. Molti di loro, poi, hanno scelto di abbandonare partiti di riferimento ben più rassicuranti dal punto di vista delle carriere per disporsi ad una traversata del deserto in cui ancora non si vede alcuna oasi.
Anche per questo eviterei di accomunarli nella "casta". Detto questo, ben vengano candidature autorevoli della società, soprattutto dal mondo del lavoro e ancor di più di donne, visto che come italiani anche nella rappresentanza di genere siamo stati il fanalino di coda.
*Vice-Presidente del Gruppo PSE
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Per le europee, evitiamo la rissa
di Pasqualina Napoletano*
Sarebbe veramente grave se nel nuovo Parlamento Europeo che andremo ad eleggere a giugno non vi fosse nessun parlamentare italiano che facesse riferimento alla sinistra, così come è già avvenuto nel Parlamento Italiano.
L'appello pubblicato dal vostro giornale sabato scorso e sostenuto già da numerosissime persone testimonia la preoccupazione di tanti e la volontà di reagire ad una situazione che in Italia si fa sempre più cupa e difficilmente reversibile nel breve e medio periodo.
Non è tempo di recriminazioni, per questo apprezzo la volontà di chi, anche a rischio di riproporre un cartello elettorale, invita tutte le forze democratiche, laiche, progressiste e di sinistra ad unirsi dando vita ad un'unica lista europea.
Leggo nell'intervista rilasciata Repubblica dal segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero che l'unità potrebbe farsi solo a patto di far riferimento al simbolo del suo partito e con il vincolo di aderire al gruppo europeo della Sinistra Unitaria. Capisco che la sua reazione è anche dettata dall'esito del congresso, e tuttavia essa equivale ad un No, perché, per dar vita ad un percorso comune, ciascuno dovrebbe essere disposto a rinunciare almeno ad un pizzico della propria identità.
Trovo poi riduttivo rinchiudere le potenzialità della sinistra in un solo gruppo europeo anche perché questo non tiene conto di ciò che in Europa è realmente accaduto in questi anni.
Attualmente nel Parlamento Europeo esistono due maggioranze possibili con geometria variabile. Esse hanno consentito vittorie su terreni importanti ed hanno rappresentato un argine rispetto a provvedimenti legislativi pericolosi. La prima è quella che ha prevalso quando si è trattato di difendere la laicità, i diritti civili, la libertà della scienza e della ricerca e d è composta dalla Sinistra Unitaria Europea, dai Socialisti, dai Verdi e dai Liberali.
Quando essa è stata battuta sono passate norme quali la direttiva sul rimpatrio degli immigrati irregolari, che ha portato i termini della detenzione amministrativa fino a 18 mesi.
Ricordo anche che su questo provvedimento, tanto illiberale da essere definito dalle ONG europee "la direttiva della vergogna", il PD si divise. Vi è poi un'altra maggioranza possibile ed è quella che ha consentito di cambiare sostanzialmente la direttiva Bolkenstein e di bloccare quella sull'orario di lavoro che, così come proposta dai governi, riportava l'Europa a parametri ottocenteschi.
Essa è stata fermata sempre dalla Sinistra Unitaria Europea, dai Socialisti e dai Verdi, ma i Liberali sono stati sostituiti da una parte dei Popolari europei non totalmente consegnati al liberismo.
Entrambe queste maggioranze sono state talmente risicate da far temere sul futuro orientamento del Parlamento Europeo, e questo proprio quando il gioco si farà sempre più duro, poiché si tratterà di decidere come uscire da questa crisi del capitalismo e soprattutto se e come l'Europa entrerà in campo rispetto alle politiche dell'occupazione, della riconversione ecologica, di una politica industriale e della ricerca veramente europee, che vadano in controtendenza rispetto allo spettacolo miserabile e nazionalista cui stiamo assistendo ad opera dei governi.
Sull'ambiente, poi, solo uno schieramento trasversale, centrato sempre sulla sinistra e sui verdi è riuscito a portare in porto il pacchetto sulla diminuzione delle emissioni, il risparmio energetico e la produzione di energie rinnovabili, noto come 20-20-20.
Che senso ha, allora, mettere steccati quando è tutto lo schieramento laico, progressista e di sinistra che va rafforzato?
Personalmente mi auguro che sia le forze che oggi si riferiscono alla Sinistra Unitaria, sia quelle della sinistra socialista, sia i Verdi abbiano successo e non trovo limitativa una lista che faccia riferimento a più gruppi politici nelle condizioni attuali, perché l'obiettivo è il rafforzamento quantitativo di tutte queste forze, insieme ad una loro maggiore unità.
Non so se in Italia riusciremo a dar vita ad un'unica lista di sinistra, personalmente lo auspico, in ogni caso quello che dobbiamo assolutamente evitare è entrare in un clima di rissa e delegittimazione reciproca a sinistra tale da portare una parte dei nostri elettori al non voto. Di fronte a noi vi è una destra che proprio con le elezioni europee potrebbe trasferire a livello continentale la schiacciante vittoria italiana e chiudere anche in Europa spiragli di democrazia, facendosi portabandiera del capitalismo speculativo e finanziario pronto a rigenerarsi magari anche con gli aiuti di Stato e dalle deroghe alla concorrenza che sembrano possibili solo per gli speculatori ed i banchieri.
A questo proposito voglio dare atto ai Socialisti europei del fatto che il primo tentativo istituzionale andato in porto a livello europeo contro i fondi speculativi è venuto dal lavoro svolto da Pol Nyrup Rasmussen, presidente del PSE, autore del primo rapporto su questo tema approvato dal Parlamento Europeo prima della esplosione della crisi.
Ricordo anche che esiste uno spazio politico ed elettorale alla sinistra del PD che abbiamo dissipato nelle scorse elezioni politiche tra "voto utile" e "non voto", ed è quest'ultimo il vero nemico della sinistra.
Il partito del non voto è, come ci spiega Aldo Carra nel suo interessante saggio "Mi sono perso la sinistra", il primo partito degli operai e dei giovani ed è stato mortale sia per il PD, che non ha compensato neanche con il massiccio "voto utile", che per la Sinistra Arcobaleno.
L'appello pubblicato invita i dirigenti politici a fare un passo indietro in favore di liste composte unicamente da esponenti della società civile.
Mi esprimo su questo punto con la libertà di chi, avendo deciso di non ricandidarsi, non ha alcun interesse personale in ballo, per dire che auspicherei un equilibrio tra diverse esperienze senza metterne al bando alcuna. Nel Parlamento Europeo, istituzione complessa e basata su gruppi politici, servono continuità, esperienza politica e di movimento, insieme alle necessarie competenze.
Il bilancio dell'ultima legislatura ci dice, poi, che gli eletti delle sinistre e dei verdi sono stati tra i più presenti ed attivi nel Parlamento Europeo. Sarebbe veramente un autogoal non valorizzare questo lavoro. Perfino L'Espresso nel suo servizio dedicato al ruolo degli italiani in Europa paventava il rischio di veder azzerati dallo sbarramento proprio gli esponenti di quei partiti che più e meglio hanno lavorato. Molti di loro, poi, hanno scelto di abbandonare partiti di riferimento ben più rassicuranti dal punto di vista delle carriere per disporsi ad una traversata del deserto in cui ancora non si vede alcuna oasi.
Anche per questo eviterei di accomunarli nella "casta". Detto questo, ben vengano candidature autorevoli della società, soprattutto dal mondo del lavoro e ancor di più di donne, visto che come italiani anche nella rappresentanza di genere siamo stati il fanalino di coda.
*Vice-Presidente del Gruppo PSE
giovedì 26 febbraio 2009
Segnalazione: legalità e accoglienza, 5 marzo casa della cultura
Nell’ambito del ciclo di incontri
“Italia-Europa: quale agenda per la sinistra?”
a cura di Salvatore Veca
Giovedì 5 marzo 2009 alle ore 21
Legalità e accoglienza
versus
razzismo e paura
Intervengono:
Laura Balbo
Stefano Levi della Torre
Valerio Onida
Si ringrazia per il sostegno il Gruppo Consiliare della Regione Lombardia
del Partito Democratico
Casa della Cultura – Via Borgogna 3 – 20122 Milano – MM1 San Babila
Tel. 02 795567 – fax 02 76008247 – www.casa dellacultura.it
segreteria@casadellacultura.it
“Italia-Europa: quale agenda per la sinistra?”
a cura di Salvatore Veca
Giovedì 5 marzo 2009 alle ore 21
Legalità e accoglienza
versus
razzismo e paura
Intervengono:
Laura Balbo
Stefano Levi della Torre
Valerio Onida
Si ringrazia per il sostegno il Gruppo Consiliare della Regione Lombardia
del Partito Democratico
Casa della Cultura – Via Borgogna 3 – 20122 Milano – MM1 San Babila
Tel. 02 795567 – fax 02 76008247 – www.casa dellacultura.it
segreteria@casadellacultura.it
Paolo Michelotto: come portare la democrazia diretta nelle nostre città
il blog di paolo michelotto
lunedì 23 febbraio 2009, 19.08.59
come portare la democrazia diretta nella propria città
lunedì 23 febbraio 2009, 19.06.52 | admin
appenzeller_landsgemeinde
di Paolo Fabris e Paolo Michelotto
ci è stato richiesto uno schema su un possibile percorso per portare la democrazia diretta nella propria città. Ecco in base alla nostra esperienza a Rovereto, ciò che possiamo proporre.
In Italia le modalità di controllo dell’amministrazione pubblica sono due: la responsabilità etica individuale e la Magistratura. La prima dipende dall’onestà dell’individuo e dalla storia collettiva, la seconda intreviene a danno ormai avvenuto.
Manca, nel nostro paese, un terzo tipo di controllo: quello effettuato con i metodi di democrazia diretta dai cittadini.
Storicamente, in Europa, si sono consolidati due strumenti: i referendum, che hanno azione di freno nei confronti delle scelte effettuate dagli amministratori ma non condivise dai cittadini, e le iniziative, le quali hanno invece funzione di acceleratore per idee e proposte espresse dalla cittadinanza che non sono però condivise dagli amministratori (vi sono poi molte altre forme di democrazia diretta e partecipativa come ad es. il Bilancio Partecipativo, i Town Meeting, ecc.).
Questi due strumenti, fondamentali per il buon funzionamento della democrazia, sono efficaci solo dove il non prevedono il quorum come in Svizzera, in ventisei stati degli USA, e con quorum del 10% in Baviera.
Le motivazioni per l’abolizione del quorum sono poste a fine documento.
PERCORSO DEMOCRAZIA DIRETTA
creazione di un gruppo, anche piccolo ma ben motivato e determinato, che funga da polo attrattivo. L’azione del gruppo ha più successo se è aperto, a fisarmonica, ossia se sa gestirsi in base alla disponibilità delle persone che partecipano (ci sono momenti che il gruppo è formato da tre elementi e momenti in cui si è in venti).
La legge nazionale 267 stabilisce che tutti i comuni italiani debbano avere un referendum, non fissa però il quorum, ne la tipologia del referendum stesso (consultivo, abrogativo, propositivo).
Consultazione dello Statuto comunale per conoscere la tipologia di referendum previsti nel proprio comune e caratteristiche.
Consultazione del regolamento di attuazione del referendum che può avere nomi diversi, ad es. ” Regolamento degli Istituti di Partecipazione” (Vicenza), “Regolamento dei diritti di informazione e partecipazione” (Rovereto). Lo Statuto e ill regolamento si trovano quasi sempre nel sito ufficiale del proprio comune.
Se il quorum è previsto nel regolamento e non nello Statuto, si può attivare un referendum su di esso.
Per migliorare lo strumento esistente bisogna organizzare assemblee pubbliche per far conoscere la situazione e possibilità differenti che dà la democrazia diretta (ad esempio a Rovereto il referendum sull’abolizione del quorum è l’espressione di un’assemblea pubblica).
Interessare e sensibilizzare i consiglieri comunali, fare una iniziativa di delibera popolare.
Instaurare un rapporto con i media.
Aprire un blog che deve essere aggiornato quotidianamente, e ad ogni incontro e assemblea pubblica bisogna chiedere le mail dei partecipanti per creare una mailing-list a cui si invia periodicamente una newsletter.
Tempo, impegno, pazienza, determinazione, e tanta soddisfazione.
Per dare idea dei tempi necessari, in Svizzera hanno impiegato decenni nell’800, in Baviera dal 1989 al 1995, a Bolzano è un percorso in atto dal 1995 e che si dovrebbe concretizzare nel 2009, a Rovereto siamo partiti nel gennaio 2007 e quest’anno si voteranno i 4 referendum tra cui quello per abolire il quorum.
Si parte sempre e comunque studiando a fondo l’argomento, parlandone alla propria cerchia di amici e allargando via via la conoscenza anche con incontri formativi specifici e raccontando le esperienze funzionanti e concrete nel mondo e in Italia
Le motivazioni per abolire il quorum
Se lo strumento del referendum ha il quorum, è uno strumento azzoppato. Il boicottaggio con l’invito all’astensione spesso prevale e vince, demotivando i promotori e distruggendo la fiducia dei cittadini.
16 motivazioni per abolire il quorum (guarda anche qui)
1. Quando un referendum prevede un quorum, agli effetti pratici, chi vuole che vinca il NO, ha due modi di ottenere ciò:
a. fare campagna per il NO e quindi impegnare soldi, tempo, energie;
b. invitare i cittadini al boicottaggio e astenersi da qualunque campagna.
Questo secondo sistema è preferito da chi sostiene il NO, perché oltre a far risparmiare tempo, soldi e energie, è una strategia che fa vincere più facilmente il NO. Infatti, dal punto di vista pratico, se un referendum viene invalidato per mancato raggiungimento del quorum o se vince il NO superando il quorum, si ha lo stesso effetto.
Quindi gli astenuti vengono considerati come voti per il NO e questo non è corretto. Chi si astiene da un voto referendario può avere mille ragione personali: essere lontano da casa, non interessato, disilluso dalla politica, ammalato, aver cose più importanti da fare, essere indeciso, avere poca conoscenza dell’argomento.
Nelle elezioni per la nomina degli amministratori, gli astenuti non contano. Vince chi ottiene più voti. Nei referendum con quorum è come se si giocasse una schedina di totocalcio con 1X2, dove una parte, i SI, vincono se esce 1, mentre l’altra parte, i NO, vincono se esce X o 2. E’ un gioco sbilanciato in favore del NO e quindi non soddisfa al requisito di uguaglianza tra le parti, che sta alla base della democrazia.
2. I referendum vengono attivati dai cittadini, quando l’amministrazione non ascolta le loro richieste. Quindi la parte del SI rappresenta quasi sempre la parte dei cittadini e quella del NO, quella delle amministrazioni. La parte dei NO, ha già quindi maggiori soldi, tempo, interessi, energie, capacità e attenzioni mediatiche dei SI. Se esiste il quorum, ha anche un ingiusto vantaggio sui SI, grazie alla possibilità di far vincere i NO facilmente, chiedendo l’astensione e usando così il boicottaggio.
3. Il quorum è il metodo con cui chi ha il potere si tutela dalle possibili interferenze dei cittadini, salvando le apparenze democratiche. Infatti lo strumento del referendum in mano ai cittadini viene lasciato, ma viene svuotato del suo potere effettivo con l’introduzione del quorum, che fa sì che venga sempre o quasi invalidato.4. Finché ci sarà il quorum, la campagna elettorale sarà svolta solo dai promotori del SI, che si focalizzeranno solo sullo spingere i cittadini a partecipare al voto per superare il quorum. Dove non c’è il quorum, entrambre le campagne per il NO e per il SI si concentrano solo sulle loro argomentazioni pro e contro, aumentando la conoscenza dei cittadini e il loro impegno civico.
5. Il quorum premia chi invita all’astensione e chi accetta il boicottaggio rimanendo a casa, cioè chi non vuole impegnarsi direttamente o preferisce scorciatoie scorrette pur di far vincere la sua posizione. Chi si informa e chi va a votare, viene punito. Ciò crea un sempre maggiore distacco e disillusione dei cittadini dalla politica attiva. Esattamente quello che invece preferiscono i governanti, ossia non essere disturbati nelle loro scelte di governo.
6. La presenza del quorum e i conseguenti inviti al boicottaggio della campagna per il NO, fanno sì che vadano a votare quasi solo i favorevoli, coloro che esprimeranno un SI. E quindi il diritto alla segretezza del voto, viene meno, perché tutti coloro che si recano alle urne, vengono riconosciuti ed etichettati come votanti per il SI.
7. In Italia non è previsto il quorum nel referendum confermativo facoltativo relativo alle leggi costituzionali (art. 138, 2° comma Costituzione) e nel caso delle leggi sulla forma di governo (leggi elettorali e di democrazia diretta) a livello regionale. Interessante notare che negli ultimi referendum nazionali senza quorum, l’affluenza elettorale è stata maggiore di quelli con il quorum. Ad esempio il referendum confermativo del 25-26 giugno 2006, ha visto l’affluenza del 52,3%. Era dal referendum nazionale del 11 giugno 1995 che non si superava un’affluenza del 50%, la media delle ultime 5 tornate di voto referendario con quorum dal 1997 al 2005 era stata del 32,78%
8. Nel voto elettorale comunale, provinciale, regionale, nazionale, europeo, non è previsto il quorum. Solo chi vota decide.
9. In Svizzera, in 23 stati americani su 50, tra cui la California e l’Oregon, non è previsto il quorum nei referendum statali e locali.
10. In Irlanda, Spagna, Regno Unito e Francia non è previsto il quorum nei referendum nazionali.
11. Con sentenza del 2-12-2004 n.372 la Corte di Cassazione ha stabilito che l’art.75 della Costituzione che prevede il quorum a livello nazionale, non comporta l’obbligo del quorum per i referendum previsti negli statuti degli enti locali.
12. In Italia esistono enti locali che prevedono assenza di quorum o livelli più bassi del 50%. Ad esempio in Sardegna (referendum regionale con quorum del 33%) Ferrara (referendum comunale con quorum del 40%), Bressanone (referendum comunale con quorum del 40%), Bolzano (referendum provinciale con quorum del 40%), Toscana (referendum regionale con quorum del 50% dei partecipanti delle ultime elezioni regionali; per esempio nel 2005 l’affluenza fu del 71,35%, il quorum per 5 anni è 35,68%).
13. In Baviera nel 1995, i cittadini riuscirono con un referendum a togliere il quorum a livello locale. Per 3 anni poterono svolgere referendum senza quorum. Nel 1998, la Corte Costituzionale Bavarese, di nomina politica (si stima che l’80% dei giudici fosse simpatizzante o legato al partito che in Baviera ha la maggioranza assoluta nel parlamento), reintrodusse in il quorum, anche se in misura molto ridotta, dal 15% al 25% a seconda delle dimensioni delle città.
14. La presenza del quorum, paradossalmente scoraggia i cittadini ad andare a votare. Infatti i cittadini vanno a votare se sanno dello svolgimento del referendum in una determinata giornata e se pensano di aver capito l’argomento su cui sono invitati ad esprimersi. Ma se la campagna per il NO invita all’astensione e non promuove le proprie argomentazioni, evita di affiggere manifesti, non manda materiale informativo a casa dei votanti, non partecipa a dibattiti, non si fa intervistare dai media, non partecipa ad assemblee informative, i cittadini non vengono a sapere del referendum o ritengono di non saperne abbastanza e non si recano a votare. Ciò è dimostrato dai referendum nazionali italiani con e senza quorum e dall’esempio seguente fornito da due città tedesche negli anni ‘80.
15. Il laender tedesco del Baden - Wuerttemberg prevede i referendum municipali fin dal 1956 (negli altri laender ciò fu introdotto negli anni ‘90), ma esso ha molte restrizioni. Una delle più gravose è quella che prevede che almeno il 30% degli elettori abbiano votato SI’ al quesito referendario, pena il suo invalidamento. L’effetto distorsivo di questo quorum si vede chiaramente su 3 votazioni effettuate in 3 città vicine sullo stesso argomento.
A. Nel 1986 fu proposto a Reutlingen un referendum contro una decisione della giunta al governo, della CDU, che aveva deciso la costruzione di un rifugio aintiaereo. Il consiglio comunale e la CDU boicottò il referendum non partecipando a nessun dibattito con sistematicità. L’ultima settimana prima del voto, improvvisamente, la CDU ruppe il silenzio con una pubblicità e un fascicolo allegato al giornale locale, firmato tra gli altri anche dal sindaco. Esso diceva: “…le persone professionali e intelligenti, devono agire sensibilmente, non emozionalmente, con un comportamento elettorale intelligente. Così puoi stare a casa la prossima domenica; dopotutto ti viene solo richiesto di votare contro la costruzione di un rifugio. Anche se non voti, esprimerai la tua approvazione della decisione presa dal consiglio comunale. Hai sempre dato la tua fiducia al CDU per molti anni alle elezioni. Puoi darci fiducia su questa questione.” Il risultato fu che 16.784 su 69.932 elettori si recarono alle urne: il 24%. Di questi solo 2126 votarono a favore del rifugio e 14.658 contro. Il quorum del 30% a favore non fu raggiunto e il referendum venne invalidato.
B. A Nurtingen, una città vicina a Reutlingen, ci fu un referendum simile. Questa volta la CDU locale scelse di non boicottare:il risultato fu un’affluenza del 57% di cui il 90% votò contro il rifugio. E il referendum ebbe successo.
C. In una terza città, Schramberg, ci fu un referendum simile. Anche questa volta la CDU scelse la via del boicottaggio. Questa volta il comitato organizzatore venne a conoscenza per tempo del progetto della CDU e quindi riuscì a controbattere. Il giornale locale pubblicò critiche all’idea del boicottaggio. I risultati furono affluenza del 49,25% di cui l’88,5% votò contro il rifugio e quindi il quorum del 30% di voti a favore del referendum fu raggiunto e il referendum ebbe successo.
16. Conseguenze pericolose per la democrazia, ogni volta che un referendum viene invalidato.
A. La prima è di carattere economico: decine di migliaia di euro di soldi dei cittadini contribuenti vengono spesi per organizzare consultazioni che non portano a nessun risultato concreto.
B. La seconda è un calo di interesse e di fiducia da parte dei cittadini verso gli strumenti di democrazia e verso l’amministrazione della propria comunità.
C. La terza è che minoranze dotate di potere economico e mediatico, sfruttando il boicottaggio riescono a prevalere su maggioranze non informate adeguatamente.
lunedì 23 febbraio 2009, 19.08.59
come portare la democrazia diretta nella propria città
lunedì 23 febbraio 2009, 19.06.52 | admin
appenzeller_landsgemeinde
di Paolo Fabris e Paolo Michelotto
ci è stato richiesto uno schema su un possibile percorso per portare la democrazia diretta nella propria città. Ecco in base alla nostra esperienza a Rovereto, ciò che possiamo proporre.
In Italia le modalità di controllo dell’amministrazione pubblica sono due: la responsabilità etica individuale e la Magistratura. La prima dipende dall’onestà dell’individuo e dalla storia collettiva, la seconda intreviene a danno ormai avvenuto.
Manca, nel nostro paese, un terzo tipo di controllo: quello effettuato con i metodi di democrazia diretta dai cittadini.
Storicamente, in Europa, si sono consolidati due strumenti: i referendum, che hanno azione di freno nei confronti delle scelte effettuate dagli amministratori ma non condivise dai cittadini, e le iniziative, le quali hanno invece funzione di acceleratore per idee e proposte espresse dalla cittadinanza che non sono però condivise dagli amministratori (vi sono poi molte altre forme di democrazia diretta e partecipativa come ad es. il Bilancio Partecipativo, i Town Meeting, ecc.).
Questi due strumenti, fondamentali per il buon funzionamento della democrazia, sono efficaci solo dove il non prevedono il quorum come in Svizzera, in ventisei stati degli USA, e con quorum del 10% in Baviera.
Le motivazioni per l’abolizione del quorum sono poste a fine documento.
PERCORSO DEMOCRAZIA DIRETTA
creazione di un gruppo, anche piccolo ma ben motivato e determinato, che funga da polo attrattivo. L’azione del gruppo ha più successo se è aperto, a fisarmonica, ossia se sa gestirsi in base alla disponibilità delle persone che partecipano (ci sono momenti che il gruppo è formato da tre elementi e momenti in cui si è in venti).
La legge nazionale 267 stabilisce che tutti i comuni italiani debbano avere un referendum, non fissa però il quorum, ne la tipologia del referendum stesso (consultivo, abrogativo, propositivo).
Consultazione dello Statuto comunale per conoscere la tipologia di referendum previsti nel proprio comune e caratteristiche.
Consultazione del regolamento di attuazione del referendum che può avere nomi diversi, ad es. ” Regolamento degli Istituti di Partecipazione” (Vicenza), “Regolamento dei diritti di informazione e partecipazione” (Rovereto). Lo Statuto e ill regolamento si trovano quasi sempre nel sito ufficiale del proprio comune.
Se il quorum è previsto nel regolamento e non nello Statuto, si può attivare un referendum su di esso.
Per migliorare lo strumento esistente bisogna organizzare assemblee pubbliche per far conoscere la situazione e possibilità differenti che dà la democrazia diretta (ad esempio a Rovereto il referendum sull’abolizione del quorum è l’espressione di un’assemblea pubblica).
Interessare e sensibilizzare i consiglieri comunali, fare una iniziativa di delibera popolare.
Instaurare un rapporto con i media.
Aprire un blog che deve essere aggiornato quotidianamente, e ad ogni incontro e assemblea pubblica bisogna chiedere le mail dei partecipanti per creare una mailing-list a cui si invia periodicamente una newsletter.
Tempo, impegno, pazienza, determinazione, e tanta soddisfazione.
Per dare idea dei tempi necessari, in Svizzera hanno impiegato decenni nell’800, in Baviera dal 1989 al 1995, a Bolzano è un percorso in atto dal 1995 e che si dovrebbe concretizzare nel 2009, a Rovereto siamo partiti nel gennaio 2007 e quest’anno si voteranno i 4 referendum tra cui quello per abolire il quorum.
Si parte sempre e comunque studiando a fondo l’argomento, parlandone alla propria cerchia di amici e allargando via via la conoscenza anche con incontri formativi specifici e raccontando le esperienze funzionanti e concrete nel mondo e in Italia
Le motivazioni per abolire il quorum
Se lo strumento del referendum ha il quorum, è uno strumento azzoppato. Il boicottaggio con l’invito all’astensione spesso prevale e vince, demotivando i promotori e distruggendo la fiducia dei cittadini.
16 motivazioni per abolire il quorum (guarda anche qui)
1. Quando un referendum prevede un quorum, agli effetti pratici, chi vuole che vinca il NO, ha due modi di ottenere ciò:
a. fare campagna per il NO e quindi impegnare soldi, tempo, energie;
b. invitare i cittadini al boicottaggio e astenersi da qualunque campagna.
Questo secondo sistema è preferito da chi sostiene il NO, perché oltre a far risparmiare tempo, soldi e energie, è una strategia che fa vincere più facilmente il NO. Infatti, dal punto di vista pratico, se un referendum viene invalidato per mancato raggiungimento del quorum o se vince il NO superando il quorum, si ha lo stesso effetto.
Quindi gli astenuti vengono considerati come voti per il NO e questo non è corretto. Chi si astiene da un voto referendario può avere mille ragione personali: essere lontano da casa, non interessato, disilluso dalla politica, ammalato, aver cose più importanti da fare, essere indeciso, avere poca conoscenza dell’argomento.
Nelle elezioni per la nomina degli amministratori, gli astenuti non contano. Vince chi ottiene più voti. Nei referendum con quorum è come se si giocasse una schedina di totocalcio con 1X2, dove una parte, i SI, vincono se esce 1, mentre l’altra parte, i NO, vincono se esce X o 2. E’ un gioco sbilanciato in favore del NO e quindi non soddisfa al requisito di uguaglianza tra le parti, che sta alla base della democrazia.
2. I referendum vengono attivati dai cittadini, quando l’amministrazione non ascolta le loro richieste. Quindi la parte del SI rappresenta quasi sempre la parte dei cittadini e quella del NO, quella delle amministrazioni. La parte dei NO, ha già quindi maggiori soldi, tempo, interessi, energie, capacità e attenzioni mediatiche dei SI. Se esiste il quorum, ha anche un ingiusto vantaggio sui SI, grazie alla possibilità di far vincere i NO facilmente, chiedendo l’astensione e usando così il boicottaggio.
3. Il quorum è il metodo con cui chi ha il potere si tutela dalle possibili interferenze dei cittadini, salvando le apparenze democratiche. Infatti lo strumento del referendum in mano ai cittadini viene lasciato, ma viene svuotato del suo potere effettivo con l’introduzione del quorum, che fa sì che venga sempre o quasi invalidato.4. Finché ci sarà il quorum, la campagna elettorale sarà svolta solo dai promotori del SI, che si focalizzeranno solo sullo spingere i cittadini a partecipare al voto per superare il quorum. Dove non c’è il quorum, entrambre le campagne per il NO e per il SI si concentrano solo sulle loro argomentazioni pro e contro, aumentando la conoscenza dei cittadini e il loro impegno civico.
5. Il quorum premia chi invita all’astensione e chi accetta il boicottaggio rimanendo a casa, cioè chi non vuole impegnarsi direttamente o preferisce scorciatoie scorrette pur di far vincere la sua posizione. Chi si informa e chi va a votare, viene punito. Ciò crea un sempre maggiore distacco e disillusione dei cittadini dalla politica attiva. Esattamente quello che invece preferiscono i governanti, ossia non essere disturbati nelle loro scelte di governo.
6. La presenza del quorum e i conseguenti inviti al boicottaggio della campagna per il NO, fanno sì che vadano a votare quasi solo i favorevoli, coloro che esprimeranno un SI. E quindi il diritto alla segretezza del voto, viene meno, perché tutti coloro che si recano alle urne, vengono riconosciuti ed etichettati come votanti per il SI.
7. In Italia non è previsto il quorum nel referendum confermativo facoltativo relativo alle leggi costituzionali (art. 138, 2° comma Costituzione) e nel caso delle leggi sulla forma di governo (leggi elettorali e di democrazia diretta) a livello regionale. Interessante notare che negli ultimi referendum nazionali senza quorum, l’affluenza elettorale è stata maggiore di quelli con il quorum. Ad esempio il referendum confermativo del 25-26 giugno 2006, ha visto l’affluenza del 52,3%. Era dal referendum nazionale del 11 giugno 1995 che non si superava un’affluenza del 50%, la media delle ultime 5 tornate di voto referendario con quorum dal 1997 al 2005 era stata del 32,78%
8. Nel voto elettorale comunale, provinciale, regionale, nazionale, europeo, non è previsto il quorum. Solo chi vota decide.
9. In Svizzera, in 23 stati americani su 50, tra cui la California e l’Oregon, non è previsto il quorum nei referendum statali e locali.
10. In Irlanda, Spagna, Regno Unito e Francia non è previsto il quorum nei referendum nazionali.
11. Con sentenza del 2-12-2004 n.372 la Corte di Cassazione ha stabilito che l’art.75 della Costituzione che prevede il quorum a livello nazionale, non comporta l’obbligo del quorum per i referendum previsti negli statuti degli enti locali.
12. In Italia esistono enti locali che prevedono assenza di quorum o livelli più bassi del 50%. Ad esempio in Sardegna (referendum regionale con quorum del 33%) Ferrara (referendum comunale con quorum del 40%), Bressanone (referendum comunale con quorum del 40%), Bolzano (referendum provinciale con quorum del 40%), Toscana (referendum regionale con quorum del 50% dei partecipanti delle ultime elezioni regionali; per esempio nel 2005 l’affluenza fu del 71,35%, il quorum per 5 anni è 35,68%).
13. In Baviera nel 1995, i cittadini riuscirono con un referendum a togliere il quorum a livello locale. Per 3 anni poterono svolgere referendum senza quorum. Nel 1998, la Corte Costituzionale Bavarese, di nomina politica (si stima che l’80% dei giudici fosse simpatizzante o legato al partito che in Baviera ha la maggioranza assoluta nel parlamento), reintrodusse in il quorum, anche se in misura molto ridotta, dal 15% al 25% a seconda delle dimensioni delle città.
14. La presenza del quorum, paradossalmente scoraggia i cittadini ad andare a votare. Infatti i cittadini vanno a votare se sanno dello svolgimento del referendum in una determinata giornata e se pensano di aver capito l’argomento su cui sono invitati ad esprimersi. Ma se la campagna per il NO invita all’astensione e non promuove le proprie argomentazioni, evita di affiggere manifesti, non manda materiale informativo a casa dei votanti, non partecipa a dibattiti, non si fa intervistare dai media, non partecipa ad assemblee informative, i cittadini non vengono a sapere del referendum o ritengono di non saperne abbastanza e non si recano a votare. Ciò è dimostrato dai referendum nazionali italiani con e senza quorum e dall’esempio seguente fornito da due città tedesche negli anni ‘80.
15. Il laender tedesco del Baden - Wuerttemberg prevede i referendum municipali fin dal 1956 (negli altri laender ciò fu introdotto negli anni ‘90), ma esso ha molte restrizioni. Una delle più gravose è quella che prevede che almeno il 30% degli elettori abbiano votato SI’ al quesito referendario, pena il suo invalidamento. L’effetto distorsivo di questo quorum si vede chiaramente su 3 votazioni effettuate in 3 città vicine sullo stesso argomento.
A. Nel 1986 fu proposto a Reutlingen un referendum contro una decisione della giunta al governo, della CDU, che aveva deciso la costruzione di un rifugio aintiaereo. Il consiglio comunale e la CDU boicottò il referendum non partecipando a nessun dibattito con sistematicità. L’ultima settimana prima del voto, improvvisamente, la CDU ruppe il silenzio con una pubblicità e un fascicolo allegato al giornale locale, firmato tra gli altri anche dal sindaco. Esso diceva: “…le persone professionali e intelligenti, devono agire sensibilmente, non emozionalmente, con un comportamento elettorale intelligente. Così puoi stare a casa la prossima domenica; dopotutto ti viene solo richiesto di votare contro la costruzione di un rifugio. Anche se non voti, esprimerai la tua approvazione della decisione presa dal consiglio comunale. Hai sempre dato la tua fiducia al CDU per molti anni alle elezioni. Puoi darci fiducia su questa questione.” Il risultato fu che 16.784 su 69.932 elettori si recarono alle urne: il 24%. Di questi solo 2126 votarono a favore del rifugio e 14.658 contro. Il quorum del 30% a favore non fu raggiunto e il referendum venne invalidato.
B. A Nurtingen, una città vicina a Reutlingen, ci fu un referendum simile. Questa volta la CDU locale scelse di non boicottare:il risultato fu un’affluenza del 57% di cui il 90% votò contro il rifugio. E il referendum ebbe successo.
C. In una terza città, Schramberg, ci fu un referendum simile. Anche questa volta la CDU scelse la via del boicottaggio. Questa volta il comitato organizzatore venne a conoscenza per tempo del progetto della CDU e quindi riuscì a controbattere. Il giornale locale pubblicò critiche all’idea del boicottaggio. I risultati furono affluenza del 49,25% di cui l’88,5% votò contro il rifugio e quindi il quorum del 30% di voti a favore del referendum fu raggiunto e il referendum ebbe successo.
16. Conseguenze pericolose per la democrazia, ogni volta che un referendum viene invalidato.
A. La prima è di carattere economico: decine di migliaia di euro di soldi dei cittadini contribuenti vengono spesi per organizzare consultazioni che non portano a nessun risultato concreto.
B. La seconda è un calo di interesse e di fiducia da parte dei cittadini verso gli strumenti di democrazia e verso l’amministrazione della propria comunità.
C. La terza è che minoranze dotate di potere economico e mediatico, sfruttando il boicottaggio riescono a prevalere su maggioranze non informate adeguatamente.
Gad Lerner: a Matrix il festival della ronda
A “Matrix” il festival della ronda
Ieri 25 febbraio 2009, 2.17.13 | Gad
Il dopo Mentana è stato inaugurato ieri sera nello studio di “Matrix” con un vero e proprio festival della ronda, celebrato dal nuovo conduttore Alessio Vinci fra servizi truculenti e ospiti tutti a senso unico, se si esclude una balbettante senatrice Franco del Pd, e qualche lievissimo distinguo del professor Marzio Barbagli. Bisognerà tornare su questo bisogno ormai diffuso di fare la conta etnica dei reati che avvengono in questo paese, non si capisce bene per trarne quale conclusione se non alimentare l’ostilità peraltro già dilagante contro alcune comunità immigrate. Appena ne avrò il tempo, vi proporrò un’”esegesi” di Luca Ricolfi, il professore molto affezionato a un ruolo di neutralità che nei giorni scorsi su “La Stampa” calcolava: un rumeno ha 26 volte le probabilità di essere uno stupratore rispetto a un italiano. Così come varrà la pena di riflettere sull’ideologizzazione delle ricerche di Barbagli. Per ora mi limito a rilevare che nonostante Alessio Vinci sia un buon professionista, la successione al “Matrix” di Mentana si annuncia come previsto in una logica di allineamento politico alla volontà del proprietario.
Volontà, sia detto per inciso, che nel frattempo si è fatta sentire anche nella prestigiosa Einaudi, divenuta da anni ormai marchio posseduto dalla berlusconiana Mondadori. Come ha rivelato ieri il “Corriere della Sera”, l’Einaudi non se l’eè sentita di pubblicare un libro del suo autore Marco Belpoliti. Titolo: “Il corpo del capo”. Dedicato alla presenza fisica di Silvio Berlusconi. Ora il saggio, corredato di fotografie, è uscito per i tipi dell’editore Guanda. Ma si capisce che un certo nervosismo censorio ha ripreso a serpeggiare dalle parti del padrone d’Italia.
Ieri 25 febbraio 2009, 2.17.13 | Gad
Il dopo Mentana è stato inaugurato ieri sera nello studio di “Matrix” con un vero e proprio festival della ronda, celebrato dal nuovo conduttore Alessio Vinci fra servizi truculenti e ospiti tutti a senso unico, se si esclude una balbettante senatrice Franco del Pd, e qualche lievissimo distinguo del professor Marzio Barbagli. Bisognerà tornare su questo bisogno ormai diffuso di fare la conta etnica dei reati che avvengono in questo paese, non si capisce bene per trarne quale conclusione se non alimentare l’ostilità peraltro già dilagante contro alcune comunità immigrate. Appena ne avrò il tempo, vi proporrò un’”esegesi” di Luca Ricolfi, il professore molto affezionato a un ruolo di neutralità che nei giorni scorsi su “La Stampa” calcolava: un rumeno ha 26 volte le probabilità di essere uno stupratore rispetto a un italiano. Così come varrà la pena di riflettere sull’ideologizzazione delle ricerche di Barbagli. Per ora mi limito a rilevare che nonostante Alessio Vinci sia un buon professionista, la successione al “Matrix” di Mentana si annuncia come previsto in una logica di allineamento politico alla volontà del proprietario.
Volontà, sia detto per inciso, che nel frattempo si è fatta sentire anche nella prestigiosa Einaudi, divenuta da anni ormai marchio posseduto dalla berlusconiana Mondadori. Come ha rivelato ieri il “Corriere della Sera”, l’Einaudi non se l’eè sentita di pubblicare un libro del suo autore Marco Belpoliti. Titolo: “Il corpo del capo”. Dedicato alla presenza fisica di Silvio Berlusconi. Ora il saggio, corredato di fotografie, è uscito per i tipi dell’editore Guanda. Ma si capisce che un certo nervosismo censorio ha ripreso a serpeggiare dalle parti del padrone d’Italia.
Gabriele Oliviero: il Governo vuol comprimere i diritti
Il Governo vuole comprimere i diritti, dimenticandosi (dei suoi) doveri.
E' di poche ore fa la notizia che il Governo sta preparando un disegno di legge per regolamentare il diritto allo sciopero. Questa iniziativa non può lasciarci tranquilli perché le informazioni che si hanno in merito al testo - che sarà presentato al prossimo consiglio dei Ministri - sono tutt'altro che rassicuranti. L'impressione è che si voglia intervenire in modo repressivo su quello che è un diritto sancito dalla Costituzione. Come al solito non mancano neppure le idee balzane come ad esempio quella dello "sciopero virtuale" in settori definiti strategici come il trasporto pubblico.
In poche parole gli scioperanti non potranno astenersi, per legge, dal lavoro. Un concetto alquanto distorto del significato della parola sciopero!
Non sembra volersi smentire neppure il Ministro Brunetta che ha lanciato ai quattro venti la proposta che siano i cittadini a valutare i dipendenti del pubblico impiego, salvo poi astenersi dall'enunciare con quali modalità questo possa e debba avvenire. Forse pensa alla delazione oppure all'invio di sms direttamente sul suo telefono cellulare.
Durante l'approntamento del sistema a suo parere più idoneo, gli consigliamo di occuparsi di ciò che sta avvenendo al Comune di Palermo, amministrato dai suoi colleghi di coalizione, che sta rischiando seriamente il default a causa dei debiti contratti dalla società che si occupa dello smaltimento dei rifiuti. Secondo la logica del Ministro, le amministrazioni poco virtuose debbono essere commissariate. Benissimo, un'idea sicuramente efficace, ma allora Sig. Ministro, proceda.
Si adoperi affinché venga accertato il reale stato del bilancio comunale e se verrà confermato che i conti sono così disastrosi come sembra, inizi le pratiche necessarie per il commissariamento.
Non si dimentichi però di spiegare le motivazioni che hanno indotto il Governo, tramite il decreto "milleproroghe" a ripianare il deficit di bilancio della società in questione!
Altro scempio sembra avvenire nel settore dei beni culturali che hanno visto ridursi i fondi a disposizione di diverse decine di milioni di Euro, senza che il Ministro Bondi si mobilitasse in alcun modo per impedirlo. In un Paese come l'Italia che dovrebbe puntare alla maggior valorizzazione possibile del suo patrimonio culturale ed ambientale, si procede riducendo le risorse per gli interventi e la promozione turistica. Paesi come Francia e Spagna stanno puntando proprio sul turismo per cercare di contenere i danni della crisi mentre l'Italia mortifica ancora una volta un settore che dovrebbe e potrebbe esserne la punta di diamante.
Gli slogan del governo deflagrano quotidianamente, come bombe (ovviamente nucleari, visto che siamo in tema) e alzano una cupa coltre che ha lo squallido compito di coprire gli occhi dell'opinione pubblica.
Ma noi neoazionisti, Presidente, non siamo e non vogliamo essere ciechi.
Gabriele Oliviero
Membro del Coordinamento nazionale N.P.A.
E' di poche ore fa la notizia che il Governo sta preparando un disegno di legge per regolamentare il diritto allo sciopero. Questa iniziativa non può lasciarci tranquilli perché le informazioni che si hanno in merito al testo - che sarà presentato al prossimo consiglio dei Ministri - sono tutt'altro che rassicuranti. L'impressione è che si voglia intervenire in modo repressivo su quello che è un diritto sancito dalla Costituzione. Come al solito non mancano neppure le idee balzane come ad esempio quella dello "sciopero virtuale" in settori definiti strategici come il trasporto pubblico.
In poche parole gli scioperanti non potranno astenersi, per legge, dal lavoro. Un concetto alquanto distorto del significato della parola sciopero!
Non sembra volersi smentire neppure il Ministro Brunetta che ha lanciato ai quattro venti la proposta che siano i cittadini a valutare i dipendenti del pubblico impiego, salvo poi astenersi dall'enunciare con quali modalità questo possa e debba avvenire. Forse pensa alla delazione oppure all'invio di sms direttamente sul suo telefono cellulare.
Durante l'approntamento del sistema a suo parere più idoneo, gli consigliamo di occuparsi di ciò che sta avvenendo al Comune di Palermo, amministrato dai suoi colleghi di coalizione, che sta rischiando seriamente il default a causa dei debiti contratti dalla società che si occupa dello smaltimento dei rifiuti. Secondo la logica del Ministro, le amministrazioni poco virtuose debbono essere commissariate. Benissimo, un'idea sicuramente efficace, ma allora Sig. Ministro, proceda.
Si adoperi affinché venga accertato il reale stato del bilancio comunale e se verrà confermato che i conti sono così disastrosi come sembra, inizi le pratiche necessarie per il commissariamento.
Non si dimentichi però di spiegare le motivazioni che hanno indotto il Governo, tramite il decreto "milleproroghe" a ripianare il deficit di bilancio della società in questione!
Altro scempio sembra avvenire nel settore dei beni culturali che hanno visto ridursi i fondi a disposizione di diverse decine di milioni di Euro, senza che il Ministro Bondi si mobilitasse in alcun modo per impedirlo. In un Paese come l'Italia che dovrebbe puntare alla maggior valorizzazione possibile del suo patrimonio culturale ed ambientale, si procede riducendo le risorse per gli interventi e la promozione turistica. Paesi come Francia e Spagna stanno puntando proprio sul turismo per cercare di contenere i danni della crisi mentre l'Italia mortifica ancora una volta un settore che dovrebbe e potrebbe esserne la punta di diamante.
Gli slogan del governo deflagrano quotidianamente, come bombe (ovviamente nucleari, visto che siamo in tema) e alzano una cupa coltre che ha lo squallido compito di coprire gli occhi dell'opinione pubblica.
Ma noi neoazionisti, Presidente, non siamo e non vogliamo essere ciechi.
Gabriele Oliviero
Membro del Coordinamento nazionale N.P.A.
Francesco Maria Mariotti: piccole luci di buon senso
Un piccolo elenco di citazioni: non con tutte sono d'accordo al 100% (sul testamento biologico per esempio sono più vicino a Ignazio Marino, ma ora è imperativo evitare una brutta legge); un piccolo programma, minimo, per evitare conflitti inutili al Paese, per indirizzarlo pian piano a una politica - da ambedue le parti - più "lieve" e realmente liberale.
Miei sono solo i "titoli".
Sperando che le piccole luci resistano e vengano aiutate da tutti noi.
Francesco Maria Mariotti
http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/
>>Testamento biologico: meglio nessuna legge che una cattiva legge, meglio rimandare, in ogni caso...
(...) Una legge che va fatta a mente fredda, senza l'emotività generata dal caso di Eluana Englaro. Senatori sia del Pd che del Pdl sono i firmatari di un appello bipartisan per chiedere di rinviare la discussione sul testamento biologico a dopo le elezioni europee. A firmarlo sono, per il Pd, Emma Bonino, Pietro Ichino, Stefano Ceccanti ed Enzo Bianco e, per il Pdl, hanno firmato Ferruccio Saro, Antonio Paravia e Lamberto Dini. Lo scopo, spiega uno dei firmatari, è non solo di lasciar decantare l'ondata emotiva scatenata dalla vicenda di Eluana Englaro «ma soprattutto evitare al Paese nuove, pericolose lacerazioni: per questo chiederemo ai gruppi parlamentari se non sia il caso di rinviare la discussione e l'esame degli emendamenti a dopo il voto del 6 giugno».(...)
http://www.corriere.it/politica/09_febbraio_26/proposta_bipartisan_rinvio_legge_testamento_biologico_d7f3933a-0400-11de-8e80-00144f02aabc.shtml
24 febbraio 2009 - Pisanu: «Non voterò la legge»
Giuseppe Pisanu non voterà il ddl sul testamento biologico che attualmente vieta la sospensione della nutrizione e della idratazione forzata. In una intervista al Tg3, l'ex ministro dell'Interno, senatore di Forza Italia, ha detto di essere convinto che «la politica e lo Stato debbano rimanere a rispettosa distanza da questi problemi, per due motivi essenziali: i primo è che in una materia come questa diventano decisive le ragioni più profonde del cuore e dell'intelligenza. E la politica non è in grado di comprenderle appieno. Anzi, è spesso tentata di strumentalizzarle, come abbiamo visto nel corso della discussione a tratti disumana che riguarda il caso Englaro».
Il secondo motivo, ha spiegato Pisanu «è che con la pretesa di disciplinare per legge il fine vita si afferma la forza dello stato sul valore della persona umana. Ma questo è in contrasto con l'art. 2 della nostra Costituzione che prevede appunto il primato della persona sullo Stato. Prima viene la persona, poi viene lo stato».
http://www.unita.it/news/82118/pisanu_non_voter_la_legge
>>Ronde o "associazioni", che dir si voglia...
25 febbraio 2009 -(...)Il rischio non viene sottovalutato neppure dal presidente del Veneto, Giancarlo Galan. "Non vedo nulla di male nel fatto che ci siano persone che invece di andare a giocare a carte all'osteria si interessino degli altri - premette - vedo invece qualche cosa di male nello spontaneismo esasperato, nel fai da te e nell'utilizzo politico di queste ronde. Credo debbano essere coordinate e fatte da persone istruite e che siano soprattutto carabinieri in pensione e alpini, cioè gente che ha una preparazione. Dilettanti allo sbaraglio in questo paese ne abbiamo visti un po' troppi". Poi sul finanziamento privato delle ronde, aggiunge: "È un rischio da evitare a tutti i costi. La privatizzazione delle ronde non sarebbe una cosa giusta. Il fenomeno deve essere istituzionalizzato e controllato dall'amministrazione pubblica".
http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/politica/dl-sicurezza-2/ronde-con-sponsor/ronde-con-sponsor.html
>>Sulle province e sul federalismo (ma è un po' vecchiotta, ma le province esistono ancora, purtroppo...)
9 dicembre 2008 - “Ho il sospetto che il federalismo così com’è stato congegnato rischia di moltiplicare i centri di spesa”.
Lo ha affermato il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini nel filo diretto con Radio Anch’io. “Il federalismo come quello che la Lega vuole impostare — aggiunge — avrebbe bisogno di qualche atto di buona volontà: ad esempio abolizione delle province e creazione di un riordino vero delle autonomie locali è fondamentale anche per dare credibilità” al disegno di legge. Tra le altre, “la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Questo significa — aggiunge — smantellare quei monopoli, quelle tante piccole Iri che nascono all’ombra dei comuni. Significa — incalza Casini — abbassare le tariffe per i cittadini di gas, acqua, luce, trasporti”.
Per il leader centrista, questa liberalizzazione “non solo è arenata, ma i contenuti che in questa legislatura vengono portati avanti, sembrano quasi peggiori di quelle che Rifondazione comunista nella scorsa legislatura impose al governo Prodi” invece “siamo con un governo di destra. Dovrebbe essere un governo che attraverso la liberalizzazione e la conseguente competizione tariffaria degli enti locali fa il suo vademecum”.
http://newscontrol.repubblica.it/item/529744/federalismo-casini-no-province-e-liberalizzare-servizi
>>RAI (quest'altra è vecchissima, ma fa effetto leggerla oggi...)
RAI DELLA VEDOVA, PRIVATIZZARE AL PIU’ PRESTO.
Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato europeo della Lista Bonino - Roma, 9 febbraio 2001
“Le dimissioni di Celli non aggiungono né tolgono nulla alla penosa vicenda della Rai, un’azienda-zombie tenuta artificialmente in vita grazie ai 2.500 miliardi di canone ma il cui declino è segnato. Il valzer delle poltrone è solo uno degli aspetti dell’occupazione partitocratrica che da decenni fa del servizio pubblico uno strumento privato di lotta politica per le segreteria di partito.
L’unica decisione seria, a questo punto, sarebbe quella di una rapida privatizzazione della Rai che consegni definitivamente e totalmente al mercato l’azienda di Viale Mazzini. I progetti fino ad oggi messi in campo dall’Ulivo puntano, attraverso l’alibi della public company, al mantenimento di un controllo statale, e quindi partitico, dell’azienda e per questo vanno respinti.
Alla privatizzazione della Rai è legata ogni possibilità di piena liberalizzazione del settore radiotelevisivo italiano, oggi soffocato dal duopolio Rai/Mediaste che impedisce la nascita di un mercato libero e concorrenziale.
Ulivo e Casa della Libertà, Rutelli e Berlusconi dicano subito e pubblicamente se sono favorevoli o contrari alla privatizzazione della Rai”
http://forum.radicali.it/content/rai-della-vedova-privatizzare-al-piu%E2%80%99-presto
Miei sono solo i "titoli".
Sperando che le piccole luci resistano e vengano aiutate da tutti noi.
Francesco Maria Mariotti
http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/
>>Testamento biologico: meglio nessuna legge che una cattiva legge, meglio rimandare, in ogni caso...
(...) Una legge che va fatta a mente fredda, senza l'emotività generata dal caso di Eluana Englaro. Senatori sia del Pd che del Pdl sono i firmatari di un appello bipartisan per chiedere di rinviare la discussione sul testamento biologico a dopo le elezioni europee. A firmarlo sono, per il Pd, Emma Bonino, Pietro Ichino, Stefano Ceccanti ed Enzo Bianco e, per il Pdl, hanno firmato Ferruccio Saro, Antonio Paravia e Lamberto Dini. Lo scopo, spiega uno dei firmatari, è non solo di lasciar decantare l'ondata emotiva scatenata dalla vicenda di Eluana Englaro «ma soprattutto evitare al Paese nuove, pericolose lacerazioni: per questo chiederemo ai gruppi parlamentari se non sia il caso di rinviare la discussione e l'esame degli emendamenti a dopo il voto del 6 giugno».(...)
http://www.corriere.it/politica/09_febbraio_26/proposta_bipartisan_rinvio_legge_testamento_biologico_d7f3933a-0400-11de-8e80-00144f02aabc.shtml
24 febbraio 2009 - Pisanu: «Non voterò la legge»
Giuseppe Pisanu non voterà il ddl sul testamento biologico che attualmente vieta la sospensione della nutrizione e della idratazione forzata. In una intervista al Tg3, l'ex ministro dell'Interno, senatore di Forza Italia, ha detto di essere convinto che «la politica e lo Stato debbano rimanere a rispettosa distanza da questi problemi, per due motivi essenziali: i primo è che in una materia come questa diventano decisive le ragioni più profonde del cuore e dell'intelligenza. E la politica non è in grado di comprenderle appieno. Anzi, è spesso tentata di strumentalizzarle, come abbiamo visto nel corso della discussione a tratti disumana che riguarda il caso Englaro».
Il secondo motivo, ha spiegato Pisanu «è che con la pretesa di disciplinare per legge il fine vita si afferma la forza dello stato sul valore della persona umana. Ma questo è in contrasto con l'art. 2 della nostra Costituzione che prevede appunto il primato della persona sullo Stato. Prima viene la persona, poi viene lo stato».
http://www.unita.it/news/82118/pisanu_non_voter_la_legge
>>Ronde o "associazioni", che dir si voglia...
25 febbraio 2009 -(...)Il rischio non viene sottovalutato neppure dal presidente del Veneto, Giancarlo Galan. "Non vedo nulla di male nel fatto che ci siano persone che invece di andare a giocare a carte all'osteria si interessino degli altri - premette - vedo invece qualche cosa di male nello spontaneismo esasperato, nel fai da te e nell'utilizzo politico di queste ronde. Credo debbano essere coordinate e fatte da persone istruite e che siano soprattutto carabinieri in pensione e alpini, cioè gente che ha una preparazione. Dilettanti allo sbaraglio in questo paese ne abbiamo visti un po' troppi". Poi sul finanziamento privato delle ronde, aggiunge: "È un rischio da evitare a tutti i costi. La privatizzazione delle ronde non sarebbe una cosa giusta. Il fenomeno deve essere istituzionalizzato e controllato dall'amministrazione pubblica".
http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/politica/dl-sicurezza-2/ronde-con-sponsor/ronde-con-sponsor.html
>>Sulle province e sul federalismo (ma è un po' vecchiotta, ma le province esistono ancora, purtroppo...)
9 dicembre 2008 - “Ho il sospetto che il federalismo così com’è stato congegnato rischia di moltiplicare i centri di spesa”.
Lo ha affermato il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini nel filo diretto con Radio Anch’io. “Il federalismo come quello che la Lega vuole impostare — aggiunge — avrebbe bisogno di qualche atto di buona volontà: ad esempio abolizione delle province e creazione di un riordino vero delle autonomie locali è fondamentale anche per dare credibilità” al disegno di legge. Tra le altre, “la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Questo significa — aggiunge — smantellare quei monopoli, quelle tante piccole Iri che nascono all’ombra dei comuni. Significa — incalza Casini — abbassare le tariffe per i cittadini di gas, acqua, luce, trasporti”.
Per il leader centrista, questa liberalizzazione “non solo è arenata, ma i contenuti che in questa legislatura vengono portati avanti, sembrano quasi peggiori di quelle che Rifondazione comunista nella scorsa legislatura impose al governo Prodi” invece “siamo con un governo di destra. Dovrebbe essere un governo che attraverso la liberalizzazione e la conseguente competizione tariffaria degli enti locali fa il suo vademecum”.
http://newscontrol.repubblica.it/item/529744/federalismo-casini-no-province-e-liberalizzare-servizi
>>RAI (quest'altra è vecchissima, ma fa effetto leggerla oggi...)
RAI DELLA VEDOVA, PRIVATIZZARE AL PIU’ PRESTO.
Dichiarazione di Benedetto Della Vedova, deputato europeo della Lista Bonino - Roma, 9 febbraio 2001
“Le dimissioni di Celli non aggiungono né tolgono nulla alla penosa vicenda della Rai, un’azienda-zombie tenuta artificialmente in vita grazie ai 2.500 miliardi di canone ma il cui declino è segnato. Il valzer delle poltrone è solo uno degli aspetti dell’occupazione partitocratrica che da decenni fa del servizio pubblico uno strumento privato di lotta politica per le segreteria di partito.
L’unica decisione seria, a questo punto, sarebbe quella di una rapida privatizzazione della Rai che consegni definitivamente e totalmente al mercato l’azienda di Viale Mazzini. I progetti fino ad oggi messi in campo dall’Ulivo puntano, attraverso l’alibi della public company, al mantenimento di un controllo statale, e quindi partitico, dell’azienda e per questo vanno respinti.
Alla privatizzazione della Rai è legata ogni possibilità di piena liberalizzazione del settore radiotelevisivo italiano, oggi soffocato dal duopolio Rai/Mediaste che impedisce la nascita di un mercato libero e concorrenziale.
Ulivo e Casa della Libertà, Rutelli e Berlusconi dicano subito e pubblicamente se sono favorevoli o contrari alla privatizzazione della Rai”
http://forum.radicali.it/content/rai-della-vedova-privatizzare-al-piu%E2%80%99-presto
Alessandro Litta Modignani: risposta a Panebianco
Dall'Opinione del 26 febbraio 2009
Testamento biologico, risposta a Panebianco
I veri liberali costretti a schierarsi
di Alessandro Litta Modignani
Angelo Panebianco non intende “in alcun modo partecipare a questo surreale referendum sull’esistenza o l’inesistenza di Dio” verso il quale “guelfi e ghibellini” starebbero spingendo il paese. “Due ragioni, o due torti, si fronteggiano” scrive sul Corriere il politologo, che afferma di stare “da tutt’altra parte”. Questo giocare agli opposti estremismi di Marco Pannella e Giuliano Ferrara, da parte di un intellettuale di cultura liberale, suona bene e ha facile presa, specie in coloro – e sono tanti – che vorrebbero sottrarsi tanto all’integralismo cattolico quanto al conformismo di sinistra, in nome di un’autonomia personale che potrebbe esercitarsi meglio “in privato”, cioè al riparo dai riflettori dei media e dai rigori astratti del diritto scritto.
Purtroppo le cose non stanno affatto così. Sul testamento biologico gli autentici liberali, se tali vogliono restare, sono costretti a schierarsi. La libertà individuale e la laicità dello Stato sono pesantemente minacciati da un disegno politico-culturale che mira a restaurare, a partire dall’Italia, uno Stato etico confessionale di tipo pre-moderno.
Panebianco ammette che i neo-guelfi “attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale”, però aggiunge che “sbagliano anche i fautori della libertà di scelta, perché.... pretendono di far prevalere la loro concezione della vita e della morte”. Questo ragionamento è debolissimo. Cosa impongono i laici, rivendicando la libertà di scelta? Nulla a nessuno. La libertà comporta un diritto, una facoltà, non un obbligo. Cosa impongono viceversa i “guelfi”, se passa il loro progetto ? Che a un individuo incapace di intendere e di volere, venga obbligatoriamente bucato lo stomaco per infilarvi un tubo, o che in alternativa che lo stesso tubo venga inserito nello stomaco dal naso. Cioè di alimentare forzatamente una persona anche contro la sua espressa volontà. Lo Stato obbliga a questo trattamento e nessuno può rifiutarsi, perché “la vita è indisponibile”. Sarebbero questi gli opposti estremismi ? Uno dei due porta a violare la libertà dell’individuo e l’integrità del suo corpo, l’altro urta la sensibilità di un convincimento religioso. Non pare proprio che questi due fattori possano essere posti sullo stesso piano. Dunque, dal punto di vista liberale, Pannella ha ragione e Ferrara ha torto.
Panebianco sostiene che il diritto a rifiutare le cure non sarebbe “qualitativamente simile” agli altri, ma non spiega perché. Non lo è forse rispetto alla morale cattolica, ma da un punto di vista laico mancano le motivazioni di questa distinzione. Certo che sarebbe preferibile una zona grigia al riparo dalla legge, quella “ipocrisia necessaria” (stretta parente del “velo di ignoranza” sulle vita pubblica) auspicabile in molte circostanze della democrazia. Ma se il diritto di una persona a disporre di sé viene negato e conculcato, questo auspicio non vale più, altrimenti esso si tradurrebbe semplicemente nell’accettazione di un arbitrio. La democrazia della nostra epoca, fondata sulla comunicazione di massa, impone scelte nuove, coraggiose e liberali, non solo sulla vita ma anche sulla morte delle persone. E’ necessario prenderne atto e agire di conseguenza: questo insegnano i casi Coscioni, Welby, Englaro.
Infine, risulta intollerabile l’affermazione di Panebianco secondo la quale “il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza e nessuno per favore se ne lamenti: è la democrazia, bellezza”. Ma democrazia non significa dittatura della maggioranza: la libertà personale è inviolabile! Se il Parlamento voterà una legge contro il testamento biologico (perché di questo si tratta), la Corte costituzionale potrebbe verosimilmente dichiararla illegittima, come già è accaduto con parti significative della legge 40 sulla fecondazione assistita. Nella democrazia liberale, i diritti fondamentali della persona non sono nella disponibilità della maggioranza parlamentare: è lo Stato di diritto, bellezza...!
Testamento biologico, risposta a Panebianco
I veri liberali costretti a schierarsi
di Alessandro Litta Modignani
Angelo Panebianco non intende “in alcun modo partecipare a questo surreale referendum sull’esistenza o l’inesistenza di Dio” verso il quale “guelfi e ghibellini” starebbero spingendo il paese. “Due ragioni, o due torti, si fronteggiano” scrive sul Corriere il politologo, che afferma di stare “da tutt’altra parte”. Questo giocare agli opposti estremismi di Marco Pannella e Giuliano Ferrara, da parte di un intellettuale di cultura liberale, suona bene e ha facile presa, specie in coloro – e sono tanti – che vorrebbero sottrarsi tanto all’integralismo cattolico quanto al conformismo di sinistra, in nome di un’autonomia personale che potrebbe esercitarsi meglio “in privato”, cioè al riparo dai riflettori dei media e dai rigori astratti del diritto scritto.
Purtroppo le cose non stanno affatto così. Sul testamento biologico gli autentici liberali, se tali vogliono restare, sono costretti a schierarsi. La libertà individuale e la laicità dello Stato sono pesantemente minacciati da un disegno politico-culturale che mira a restaurare, a partire dall’Italia, uno Stato etico confessionale di tipo pre-moderno.
Panebianco ammette che i neo-guelfi “attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale”, però aggiunge che “sbagliano anche i fautori della libertà di scelta, perché.... pretendono di far prevalere la loro concezione della vita e della morte”. Questo ragionamento è debolissimo. Cosa impongono i laici, rivendicando la libertà di scelta? Nulla a nessuno. La libertà comporta un diritto, una facoltà, non un obbligo. Cosa impongono viceversa i “guelfi”, se passa il loro progetto ? Che a un individuo incapace di intendere e di volere, venga obbligatoriamente bucato lo stomaco per infilarvi un tubo, o che in alternativa che lo stesso tubo venga inserito nello stomaco dal naso. Cioè di alimentare forzatamente una persona anche contro la sua espressa volontà. Lo Stato obbliga a questo trattamento e nessuno può rifiutarsi, perché “la vita è indisponibile”. Sarebbero questi gli opposti estremismi ? Uno dei due porta a violare la libertà dell’individuo e l’integrità del suo corpo, l’altro urta la sensibilità di un convincimento religioso. Non pare proprio che questi due fattori possano essere posti sullo stesso piano. Dunque, dal punto di vista liberale, Pannella ha ragione e Ferrara ha torto.
Panebianco sostiene che il diritto a rifiutare le cure non sarebbe “qualitativamente simile” agli altri, ma non spiega perché. Non lo è forse rispetto alla morale cattolica, ma da un punto di vista laico mancano le motivazioni di questa distinzione. Certo che sarebbe preferibile una zona grigia al riparo dalla legge, quella “ipocrisia necessaria” (stretta parente del “velo di ignoranza” sulle vita pubblica) auspicabile in molte circostanze della democrazia. Ma se il diritto di una persona a disporre di sé viene negato e conculcato, questo auspicio non vale più, altrimenti esso si tradurrebbe semplicemente nell’accettazione di un arbitrio. La democrazia della nostra epoca, fondata sulla comunicazione di massa, impone scelte nuove, coraggiose e liberali, non solo sulla vita ma anche sulla morte delle persone. E’ necessario prenderne atto e agire di conseguenza: questo insegnano i casi Coscioni, Welby, Englaro.
Infine, risulta intollerabile l’affermazione di Panebianco secondo la quale “il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza e nessuno per favore se ne lamenti: è la democrazia, bellezza”. Ma democrazia non significa dittatura della maggioranza: la libertà personale è inviolabile! Se il Parlamento voterà una legge contro il testamento biologico (perché di questo si tratta), la Corte costituzionale potrebbe verosimilmente dichiararla illegittima, come già è accaduto con parti significative della legge 40 sulla fecondazione assistita. Nella democrazia liberale, i diritti fondamentali della persona non sono nella disponibilità della maggioranza parlamentare: è lo Stato di diritto, bellezza...!
Attilio Mangano: Riaprire la catena dei perché
( sul blog < http://isintellettualistoria2.myblog.it/> )
25/02/2009
attilio mangano, Riaprire la catena dei perchè
E' cosi raro nella nostra storia che un leader politico abbia la franchezza di
chiedere scusa per non essere riusciito a realizzare il suo disegno, di
ammettere apertamente il proprio stesso errore e la propria sconfitta che una
dichiarazione del genere, fatta con modestia e onestà da Walter Veltroni, è
stata subito dimenticata. Si sa, chi perde ha sempre torto, gli si può
concedere l'onore delle armi ma perchè soffermarsi sul problema se egli
stesso si riconosce come perdente e si mette da parte? C' è stato però chi ha
osservato,credo Furio Colombo, come sia sembrato a momenti "di assistere
alla scena di un thriller in cui, insieme al protagonista, vedi un groviglio di fili
e non sai quale di tutti quei fili devi tagliare per salvarti. Veltroni ha tagliato il
suo, e in apparenza non è accaduto niente. Non ancora. Ma il film continua e,
come tutti i thriller, promette di tenerci col fiato sospeso."In altre parole chi
dice di aver sbagliato e si dichiara pronto a mettersi da parte lancia
comunque un segnale e un interrogativo silenzioso: siete sicuri che la colpa
sia mia? Nel thriller è buona regola farsi traversare dal dubbio e interrogarsi
sul colpevole. In questo caso ciò che è stato detto segnala ciò che non è
stato detto,le domande si fanno più complicate. Tanto più se appunto il
perdente fa capire o dichiara apertamente , come in una storia d'amore fallita,
che esiste pur sempre una catena di eventi e di responsabilità. Anche il
nostro. "Basta con la sinistra salottiera, giustizialista, pessimista e
conservatrice. Noi dobbiamo costruire una forza fuori dalle stanze, vicina alle
persone» Quattro aggettivi nudi e crudi, ognuno dei quali definisce un limite
di fondo, poco importa se uno solo di questi aggettivi non
basta,Veltroni indica chiaramente le pratiche che hanno paralizzato e
bloccato il suo stesso progetto e il richiamo di fondo a quella " vocazione
maggioritaria" con cui ha perseguito il suo stesso tentativo di svolta senza
riuscirvi. Naturalmente è in discussione l'insieme delle sue scelte, delle sue
responsabilità, dei suoi condizionamenti e dei suoi errori. Egli stesso lo sa
ma sa anche che forse non è il momento di interrogarsi retrospettivamente, ci
sono urgenze, decisioni, impegni organizzativi, scadenze elettorali ormai
vicine e a tutti conviene in qualche modo mettere da parte il problema,
affrontare le prossime scelte senza fratture, apparire uniti. Ma se tutto questo
si può capire e in nome del " realismo" subire, non è affatto detto che si tratti
della decisione migliore e non di una tregua e di un rinvio che prelude a
una ennesima resa dei conti interni che può rivelarsi ancor più distruttiva.
Vien voglia di chiedere a Veltroni stesso perchè mai allora proclamare le sue
dimissioni se esse non servono nè a lui , per una chiarificazione di fondo
sulle prospettive, nè al suo partito che si limita a correre ai ripari e far finta
che non sia successo niente, solo un passaggio di consegne. Invece se
iututto ciò ha un senso lo ha proprio nella misura in cui consente e perfino
obbliga, con sincerità e intelligenza, a interrogarsi sulle cause della sconfitta,
aprire quella che è stata chiamata " la catena dei perchè".
Ho tirato in ballo volutamente questa formula che risale a un intervento di
Franco Fortini nel 1955, all'indomani della sconfitta della CGIL alle elezioni
per la commissione interna all per a Fiat, in cui il sindacato perse per la
prima volta la sua maggioranza a favore del sindacato " giallo", rivelazione e
segnale d'allarme di uno stato di crisi che sarebbe emerso di lì a poco,nel
1956, con la rivoluzione ungherese.Quella dei perchè è una catena," e di
grado in grado è possibile risalire dal singolo errore alla critica dell'attività di
questi ultmi anni" scriveva allora Fortini, aggiungendo che era venuto il
momento di fare la storia politica e sindacale dell' iimmediato ieri . "Questo, e
solo questo, è il compito politico culturale del presente.Bisogna prendere in
mano dieci anni di giornali e dirisoluzioni, di azioni, di battaglie compiute,
criticarli, criticare uomini e metodi, e trarre le conseguenze. Nella stretta
interrelazione di teoria e prassi si potrà così , elaborando quella, preparare il
futuro di questa: che nulla è fatale e l'astuzia della ragione può diseredare
per sempre i figli troppo prodighi o troppo certi dei propri diritti ereditari".
Sono parole quasi sconvolgenti per il loro carattere quasi profetico e sono
parole amarissime se, a rileggerle oggi, si prova a riandare indietro agli ultimi
cinquant'anni per scoprire o constatare che questa è una storia vecchia, la
storia di una malattia e del suo tratto inguaribile, la storia di una sconfitta che
in stagioni diverse ha continuato a ripetersi senza che si ricollegasse alle
radici e se ne cogliesse la profondità. Il fatto che si trattava allora della
guerra fredda, del togliattismo, della nuova trasformazione del capitalismo e
della fine del dopoguerra, non deve confondere le piste come se si trattasse
di qualcosa di così lontano che non ci riguarda e che fa riferimento a una "
sinistra" che da allora ha visto tanta altra acqua passare sotto i ponti. Si dirà
infatti che questa ripresa di interrogativi e questa ricostruzione di una catena
dei perchè è più che altro
la fissazione di un tipico " intellettuale" che si ostina nelle prediche e nelle
rivisitazioni del passato senza capire che i problemi sono altri e che la
situazione stessa non consente questa retrospettiva, che i problemi della
lotta attuale sono altri, a partire da come sconfiggere il centro-destra etc.
Leggo però oggi un intervento di un autorevole osservatore e studioso di
scienze politiche come Giovanni Sartori che arriva a conclusioni e
osservazioni analoghe . quando scrive che" l`onda lunga che l`ha portata al
tracollo viene da lontano, da molto più lontano di quanto i commentatori
ricordino." e che la crisi di leadership della sinistra è una realtà dietro la
quale non è detto che si nascondano geni incompresi, geni repressi.
"Il guaio risale al fatto che per una trentina di anni abbiamo avuto la più
grande sinistra dell`Occidente, che era però egemonizzata dal Pci e forgiata;
dallo stalinismo di Palmiro Togliatti. Non era una sinistra addestrata a
pensare con la sua testa, ma invece ingabbiata nel preconfezionato di un
dogmatismo ideologico. Caduta la patria sovietica, quel pensare e pensarsi
che altrove ha rifondato la sinistra su basi socialdemocratiche da noi non si è
risvegliato. La fede comunista si è semplicemente trasformata in un puro e
semplice cinismo di potere; e il non pensare ideologico, il sonno dogmatico
del marxismo, si è semplicemente trasformato nella sconnessa brodaglia del
«politicamente corretto». Una brodaglia nella quale anche il semplice
buonsenso brilla per la sua assenza. Dunque la malattia è grave e di vecchia
data. Una malattia che coinvolge anche - passando al versante pratico del
problema - l`erosione dei bacini elettorali tradizionali della sinistra. In passato
la sinistra era, in tutta semplicità, il partito del proletariato operaio. Quel
proletariato non esiste più. Lo ha sostituito un sindacalismo che in passato
obbediva al partito, ma che ora lo condiziona."
Sartori ha un suo linguaggio particolarissimo ma coglie i nodi centrali
riferendosi a "quel pensare e pensarsi che altrove ha rifondato la sinistra su
basi socialdemocratiche" da noi non c'è stato, ma è proprio quel riaprire la
catena dei perchè di cui si parlava da parte nostra. E quando fa riferimento al
passaggio non risolto da " partito del proletariato operaio" a un sindacalismo
sui generis che in larga misura poggia su statali e pensionati allude al
passaggio da quello che in termini gramsciani si sarebbe chiamato blocco
storico e sociale a una modifica della " composizione di classe"( per usare il
linguaggio degli anni cinquanta e sessanta) che già cominciava a essere
visibile nel 1955 e ha conosciuto a sua volta una tale serie di crisi di
trasformazione ( dall'operaio massa all'irruzione di una identità non più
fondata sul lavoro , prima coi nuovi " soggetti sociali", poi con quel
doppio mercato del lavoro che ha distinto garantiti e non garantiti, infine col
lavoro nero, il precariato, il lavoro degli extracomunitari e dei " clandestini" da
far saltare del tutto gli schemi interpretativi. Così ancora la domanda su
come, quando e perchè non si sia realizzata quella cultura politica su basi
socialdemocratiche, quel tipo di riformismo di cui si parla sempre e che non
esiste nei fatti rinvia ad altri aspetti non meno cruciali: lo scontro a sinistra fra
il modello egemonico che il Pci ha posto in essere ( accanto al modello di
mediazione e compromesso col partito democristiano ) e le pratiche che si
ispiravano a una " alternativa", ( laico-socialista o anche radical-antagonista.,
" movimentista" per ricordare la stagione sessantottina) non merita certo una
risposta univoca che addebiti le colpe al solo Pci,ma rimane il fatto che il suo
gruppo dirigente ha fatto di tutto, nel bene e nel male, per mantenere la sua
stessa egemonia (al punto di costruire partiti nuovi dopo il crollo del
comunismo e mantenere comunque intatto il gruppo dirigente pci fin dentro
le nuove formazioni dai Ds allo stesso partito democratico. )
Altro ancora è il discorso sulle alleanze e la politica delle alleanze, che
Sartori non affronta: le politiche di fronte , dal fronte antifascista ai fronti
popolari alle oscillazioni tra politiche del compromesso storico alle coalizioni
ampie degli anni recenti di Prodi e dell'Ulivo, sarebbe ora di interrogarsi sul
come e il perchè la stessa vocazione maggioritaria indicata da Veltroni non
sia mai stata presa in considerazione. Ma se forse non è questa l'occasione
per un saggio storico politico sulla sinistra dal dopoguerra ad oggi rimane
decisivo tornare a chiedersi perchè dai tempi di cui parla Fortini ai giorni
nostri non sia mai pensato di riaprire la catena dei perchè, nella convinzione
di poterne fare a meno cercando di non cambiare . Chi ritiene che tutto
questo sia ancora possibile con operazioni di accomodamento e di
riverniciatura è oggi di nuovo invitato a rilfettere seriamente sulle parole di
Fortini" nulla è fatale e l'astuzia della ragione può diseredare per sempre i
figli troppo prodighi o troppo certi dei propri diritti ereditari".
25/02/2009
attilio mangano, Riaprire la catena dei perchè
E' cosi raro nella nostra storia che un leader politico abbia la franchezza di
chiedere scusa per non essere riusciito a realizzare il suo disegno, di
ammettere apertamente il proprio stesso errore e la propria sconfitta che una
dichiarazione del genere, fatta con modestia e onestà da Walter Veltroni, è
stata subito dimenticata. Si sa, chi perde ha sempre torto, gli si può
concedere l'onore delle armi ma perchè soffermarsi sul problema se egli
stesso si riconosce come perdente e si mette da parte? C' è stato però chi ha
osservato,credo Furio Colombo, come sia sembrato a momenti "di assistere
alla scena di un thriller in cui, insieme al protagonista, vedi un groviglio di fili
e non sai quale di tutti quei fili devi tagliare per salvarti. Veltroni ha tagliato il
suo, e in apparenza non è accaduto niente. Non ancora. Ma il film continua e,
come tutti i thriller, promette di tenerci col fiato sospeso."In altre parole chi
dice di aver sbagliato e si dichiara pronto a mettersi da parte lancia
comunque un segnale e un interrogativo silenzioso: siete sicuri che la colpa
sia mia? Nel thriller è buona regola farsi traversare dal dubbio e interrogarsi
sul colpevole. In questo caso ciò che è stato detto segnala ciò che non è
stato detto,le domande si fanno più complicate. Tanto più se appunto il
perdente fa capire o dichiara apertamente , come in una storia d'amore fallita,
che esiste pur sempre una catena di eventi e di responsabilità. Anche il
nostro. "Basta con la sinistra salottiera, giustizialista, pessimista e
conservatrice. Noi dobbiamo costruire una forza fuori dalle stanze, vicina alle
persone» Quattro aggettivi nudi e crudi, ognuno dei quali definisce un limite
di fondo, poco importa se uno solo di questi aggettivi non
basta,Veltroni indica chiaramente le pratiche che hanno paralizzato e
bloccato il suo stesso progetto e il richiamo di fondo a quella " vocazione
maggioritaria" con cui ha perseguito il suo stesso tentativo di svolta senza
riuscirvi. Naturalmente è in discussione l'insieme delle sue scelte, delle sue
responsabilità, dei suoi condizionamenti e dei suoi errori. Egli stesso lo sa
ma sa anche che forse non è il momento di interrogarsi retrospettivamente, ci
sono urgenze, decisioni, impegni organizzativi, scadenze elettorali ormai
vicine e a tutti conviene in qualche modo mettere da parte il problema,
affrontare le prossime scelte senza fratture, apparire uniti. Ma se tutto questo
si può capire e in nome del " realismo" subire, non è affatto detto che si tratti
della decisione migliore e non di una tregua e di un rinvio che prelude a
una ennesima resa dei conti interni che può rivelarsi ancor più distruttiva.
Vien voglia di chiedere a Veltroni stesso perchè mai allora proclamare le sue
dimissioni se esse non servono nè a lui , per una chiarificazione di fondo
sulle prospettive, nè al suo partito che si limita a correre ai ripari e far finta
che non sia successo niente, solo un passaggio di consegne. Invece se
iututto ciò ha un senso lo ha proprio nella misura in cui consente e perfino
obbliga, con sincerità e intelligenza, a interrogarsi sulle cause della sconfitta,
aprire quella che è stata chiamata " la catena dei perchè".
Ho tirato in ballo volutamente questa formula che risale a un intervento di
Franco Fortini nel 1955, all'indomani della sconfitta della CGIL alle elezioni
per la commissione interna all per a Fiat, in cui il sindacato perse per la
prima volta la sua maggioranza a favore del sindacato " giallo", rivelazione e
segnale d'allarme di uno stato di crisi che sarebbe emerso di lì a poco,nel
1956, con la rivoluzione ungherese.Quella dei perchè è una catena," e di
grado in grado è possibile risalire dal singolo errore alla critica dell'attività di
questi ultmi anni" scriveva allora Fortini, aggiungendo che era venuto il
momento di fare la storia politica e sindacale dell' iimmediato ieri . "Questo, e
solo questo, è il compito politico culturale del presente.Bisogna prendere in
mano dieci anni di giornali e dirisoluzioni, di azioni, di battaglie compiute,
criticarli, criticare uomini e metodi, e trarre le conseguenze. Nella stretta
interrelazione di teoria e prassi si potrà così , elaborando quella, preparare il
futuro di questa: che nulla è fatale e l'astuzia della ragione può diseredare
per sempre i figli troppo prodighi o troppo certi dei propri diritti ereditari".
Sono parole quasi sconvolgenti per il loro carattere quasi profetico e sono
parole amarissime se, a rileggerle oggi, si prova a riandare indietro agli ultimi
cinquant'anni per scoprire o constatare che questa è una storia vecchia, la
storia di una malattia e del suo tratto inguaribile, la storia di una sconfitta che
in stagioni diverse ha continuato a ripetersi senza che si ricollegasse alle
radici e se ne cogliesse la profondità. Il fatto che si trattava allora della
guerra fredda, del togliattismo, della nuova trasformazione del capitalismo e
della fine del dopoguerra, non deve confondere le piste come se si trattasse
di qualcosa di così lontano che non ci riguarda e che fa riferimento a una "
sinistra" che da allora ha visto tanta altra acqua passare sotto i ponti. Si dirà
infatti che questa ripresa di interrogativi e questa ricostruzione di una catena
dei perchè è più che altro
la fissazione di un tipico " intellettuale" che si ostina nelle prediche e nelle
rivisitazioni del passato senza capire che i problemi sono altri e che la
situazione stessa non consente questa retrospettiva, che i problemi della
lotta attuale sono altri, a partire da come sconfiggere il centro-destra etc.
Leggo però oggi un intervento di un autorevole osservatore e studioso di
scienze politiche come Giovanni Sartori che arriva a conclusioni e
osservazioni analoghe . quando scrive che" l`onda lunga che l`ha portata al
tracollo viene da lontano, da molto più lontano di quanto i commentatori
ricordino." e che la crisi di leadership della sinistra è una realtà dietro la
quale non è detto che si nascondano geni incompresi, geni repressi.
"Il guaio risale al fatto che per una trentina di anni abbiamo avuto la più
grande sinistra dell`Occidente, che era però egemonizzata dal Pci e forgiata;
dallo stalinismo di Palmiro Togliatti. Non era una sinistra addestrata a
pensare con la sua testa, ma invece ingabbiata nel preconfezionato di un
dogmatismo ideologico. Caduta la patria sovietica, quel pensare e pensarsi
che altrove ha rifondato la sinistra su basi socialdemocratiche da noi non si è
risvegliato. La fede comunista si è semplicemente trasformata in un puro e
semplice cinismo di potere; e il non pensare ideologico, il sonno dogmatico
del marxismo, si è semplicemente trasformato nella sconnessa brodaglia del
«politicamente corretto». Una brodaglia nella quale anche il semplice
buonsenso brilla per la sua assenza. Dunque la malattia è grave e di vecchia
data. Una malattia che coinvolge anche - passando al versante pratico del
problema - l`erosione dei bacini elettorali tradizionali della sinistra. In passato
la sinistra era, in tutta semplicità, il partito del proletariato operaio. Quel
proletariato non esiste più. Lo ha sostituito un sindacalismo che in passato
obbediva al partito, ma che ora lo condiziona."
Sartori ha un suo linguaggio particolarissimo ma coglie i nodi centrali
riferendosi a "quel pensare e pensarsi che altrove ha rifondato la sinistra su
basi socialdemocratiche" da noi non c'è stato, ma è proprio quel riaprire la
catena dei perchè di cui si parlava da parte nostra. E quando fa riferimento al
passaggio non risolto da " partito del proletariato operaio" a un sindacalismo
sui generis che in larga misura poggia su statali e pensionati allude al
passaggio da quello che in termini gramsciani si sarebbe chiamato blocco
storico e sociale a una modifica della " composizione di classe"( per usare il
linguaggio degli anni cinquanta e sessanta) che già cominciava a essere
visibile nel 1955 e ha conosciuto a sua volta una tale serie di crisi di
trasformazione ( dall'operaio massa all'irruzione di una identità non più
fondata sul lavoro , prima coi nuovi " soggetti sociali", poi con quel
doppio mercato del lavoro che ha distinto garantiti e non garantiti, infine col
lavoro nero, il precariato, il lavoro degli extracomunitari e dei " clandestini" da
far saltare del tutto gli schemi interpretativi. Così ancora la domanda su
come, quando e perchè non si sia realizzata quella cultura politica su basi
socialdemocratiche, quel tipo di riformismo di cui si parla sempre e che non
esiste nei fatti rinvia ad altri aspetti non meno cruciali: lo scontro a sinistra fra
il modello egemonico che il Pci ha posto in essere ( accanto al modello di
mediazione e compromesso col partito democristiano ) e le pratiche che si
ispiravano a una " alternativa", ( laico-socialista o anche radical-antagonista.,
" movimentista" per ricordare la stagione sessantottina) non merita certo una
risposta univoca che addebiti le colpe al solo Pci,ma rimane il fatto che il suo
gruppo dirigente ha fatto di tutto, nel bene e nel male, per mantenere la sua
stessa egemonia (al punto di costruire partiti nuovi dopo il crollo del
comunismo e mantenere comunque intatto il gruppo dirigente pci fin dentro
le nuove formazioni dai Ds allo stesso partito democratico. )
Altro ancora è il discorso sulle alleanze e la politica delle alleanze, che
Sartori non affronta: le politiche di fronte , dal fronte antifascista ai fronti
popolari alle oscillazioni tra politiche del compromesso storico alle coalizioni
ampie degli anni recenti di Prodi e dell'Ulivo, sarebbe ora di interrogarsi sul
come e il perchè la stessa vocazione maggioritaria indicata da Veltroni non
sia mai stata presa in considerazione. Ma se forse non è questa l'occasione
per un saggio storico politico sulla sinistra dal dopoguerra ad oggi rimane
decisivo tornare a chiedersi perchè dai tempi di cui parla Fortini ai giorni
nostri non sia mai pensato di riaprire la catena dei perchè, nella convinzione
di poterne fare a meno cercando di non cambiare . Chi ritiene che tutto
questo sia ancora possibile con operazioni di accomodamento e di
riverniciatura è oggi di nuovo invitato a rilfettere seriamente sulle parole di
Fortini" nulla è fatale e l'astuzia della ragione può diseredare per sempre i
figli troppo prodighi o troppo certi dei propri diritti ereditari".
mercoledì 25 febbraio 2009
Ferruccio Capelli: di ritorno dal Social Forum
Dal sito della casa della cultura
Milano, 15 febbraio 2009
I media italiani quest’anno hanno oscurato il Social Forum: gli articoli e i commenti dedicati a questo evento si contano quasi sulle dita di una mano. L’attenzione dei nostri commentatori si è concentrata solo su Davos: davvero curioso nel momento in cui la “superélite” del mondo può recitare solo il “mea culpa” per tante scelte e previsioni sbagliate.
Il problema è che qui, nel cuore della vecchia Europa, abbondano inquietudini e preoccupazioni, ma si è perso il gusto di guardare a cose nuove, di cercare di capire se nel mondo circolano altre idee e altre proposte. A me sembra invece buona cosa continuare a tenere lo sguardo aperto su tutto il mondo per afferrare, dovunque si manifestino, idee e processi politici e sociali nuovi. Il Social Forum, dopo otto anni, continua ad essere uno stimolo potente a guardare la realtà con occhi diversi e aperti: per questa ragione ho ritenuto opportuno anche questa volta non perdere l’occasione di parteciparvi.
E’ la terza volta che stacco il biglietto aereo per partecipare a un Worl Social Forum: non me ne sono mai pentito. Sono stato a Porto Alegre, a Nairobi, ora a Belem: tre realtà diverse, ma sempre pulsanti di vita. Questa volta c’era qualche preoccupazione fra gli organizzatori: incontri che si svolgono sistematicamente dal 2001 corrono il rischio di inaridirsi o ritualizzarsi. Invece l’evento è stato anche quest’anno denso di stimoli culturali, sociali e politici.
Iniziamo con una prima constatazione. Nel tradizionale confronto con Davos, la località sulle montagne svizzere dove, nello stesso periodo di tempo, si incontra la “superélite” del mondo, Belem ha potuto mettere in tavola un asso pigliatutto. Le critiche alla globalizzazione deragliata, tradizionale motivo conduttore dei Social Forum, si sono dimostrate drammaticamente fondate. La “logica di Davos”, la fiducia illimitata nella liberalizzazione e nell’autoregolamentazione dei mercati finanziari, ha portato il mondo alla più grave crisi finanziaria e economica del secolo. I movimenti sociali e le organizzazioni dei lavoratori che avevano dato vita al Social Forum avevano visto giusto: la liberalizzazione assoluta della finanza mondiale, senza regola alcuna, era destinata a provocare sconquassi di rara intensità. Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti: crollo dei mercati finanziari e fallimenti a catena di grandi istituti finanziari.
La baldanza e l’arroganza della “superélite” sono stati ridimensionati: i banchieri del mondo intero si prodigano oggi in imbarazzati “I’m sorry”. Il problema ormai si è spostato: il focus della discussione oggi è come fronteggiare una crisi di cui tutti riconoscono la virulenza e la gravità. In tanti sperano che, passata la nottata, tutto torni come prima: Belem ha invece abbozzato un ragionamento diverso. La crisi, si è detto al Social Forum può essere l’occasione per mettere in campo idee nuove e per il protagonismo di altre forze sociali. Ovvero: la crisi può essere l’occasione per cambiare lo sviluppo del mondo nel segno della giustizia sociale, dell’espansione dei diritti e della compatibilità ambientale. Con ogni probabilità sarà proprio questa la vera sfida degli anni futuri.
Seconda questione: il Forum ha fatto toccare con mano ancora una volta la vitalità e la speranza che attraversa tanti paesi del Sud del mondo. Nonostante la crisi economica sindacati e movimenti di questa parte del mondo trasmettono fiducia e speranza: essi sono convinti di partecipare a una stagione di crescita, di redistribuzione del reddito e delle risorse, di ampliamento delle libertà e delle opportunità individuali e sociali. L’America Latina in particolare appare oggi l’epicentro o quanto meno la parte più sicura e dinamica delle forze progressiste del mondo intero. I risultati elettorali di questo decennio sono stati semplicemente sbalorditivi: la sinistra ha prevalso in libere elezioni in quasi tutta l’America Latina, eccezione fatta per la sola Colombia. L’onda progressista ha coinvolto perfino il Paraguai, un paese con alle spalle una lunghissima dominanza della destra più retriva, dove nelle ultime elezioni ha prevalso l’ex vescovo Lugo.
Il Forum ha fatto toccare con mano questa realtà sorprendentemente dinamica e in evoluzione: l’evento centrale è stato senza dubbio l’incontro dei cinque Presidenti di Brasile, Venezuela, Bolivia, Equador e Paraguai. Anche qui vi è di che riflettere seriamente: il Forum poggia sulla rete dei movimenti, ma non disdegna l’incontro e l’interazione con i governi progressisti. Viceversa questi governi esibiscono la ricerca di rapporti fecondi con i movimenti sociali progressisti. Morales, Correa e Lugo, Presidenti rispettivamente di Bolivia, Equador e Paraguai, hanno addirittura voluto sottolineare che lì stanno le radici del blocco sociale e elettorale che ha permesso la loro vittoria elettorale.
Ovviamente questa considerazione si presta anche a una lettura in controluce: alla baldanza dei movimenti progressisti del Sud del mondo corrisponde la difficoltà e il silenzio delle forze progressiste della vecchia Europa. L’Europa ha difficoltà a inserirsi nella nuova lunghezza d’onda delle froze progresiste. Il continente deve fare i conti con una caduta di ruolo economico e politico internazionale: la risposta che oggi si intravede porta il segno di inquietanti populismi rancorosi. L’Europa e le sue forze progressiste, è il messaggio indiretto del Forum, hanno dinnanzi a sè una strada lunga e difficile per recuperare voce e funzione.
Terzo nodo propostoci dal Forum: un rapporto alla pari con gli Stati Uniti. A dicembre i democratici hanno sconfitto i neocon, hanno punito elettoralmente W.Bush e hanno imposto al paese una nuova leaderschip. Le forze convenute al Forum hanno apprezzato questa grande svolta. C’è però una diversità di tono e di misura rispetto a quanto si è sentito in Italia e in Europa nelle scorse settimane. Finalmente, si è detto, anche l’America dà il segno di volere tornare a partecipare a un coro progressista e Barack Obama sarà un nuovo assai importante interlocutore: nessuna carta in bianco però e nessun ruolo di guida riconosciuto a priori. Obama potrà e dovrà incontrarsi e interagire con forze che si sentono orgogliose del cammino e della direzione imboccata: dovrà trattarsi di un incontro alla pari. Il processo storico di ridimensionamento dell’egemonia del Nord del mondo e di costruzione di nuovi equilibri non si arresta alle soglie della nuova Casa Bianca.
E infine: Belem è la capitale di uno stato dell’Amazzonia. Il Forum ha dedicato grande spazio all’immenso bacino del più grande fiume del mondo. Questa scelta ha permesso di focalizzare in un colpo solo due grandi questioni: il futuro ambientale del pianeta e il destino delle popolazioni indigene. Le foreste dell’Amazzonia sono il polmone del mondo: le politiche per la loro salvaguardia sono essenziali per garantire un futuro al momdo intero. Il Forum ha fatto emergere la ricchezza e la vastità del movimento per la difesa del più grande patrimonio di biodiversità che l’umanità ha a sua disposizione. Ma, si è aggiunto, ed è una precisazione non da poco, le foreste possono essere difese e salvaguardate solo se questa scelta va di pari passo con la valorizzazione di quelle comunità indigene che abitano il suolo amazzonico da millenni.
Da qui la grande novità di Belem: migliaia di rappresentanti delle comunità indigene convenuti e riuniti al Forum. Durante l’incontro con i cinque Presidenti la prima parte dell’immensa sala era tutta occupata dagli indigeni nei loro costumi e nei loro colori tradizionali. Mai nel mondo capi di stato moderni avevano parlato davanti a una platea di indigeni così rappresentativa e mai nella storia autorevoli capi di stato si erano presentati anche come interpreti dei bisogni e dei sogni delle popolazioni indigene! Si tratta di una vera e propria svolta storica, a distanza di cinquecento anni da quello sbarco di Colombo che dette avvio ai lunghi secoli di espansione e di dominio dell’Occidente.
Le popolazioni indigene oggi sembrano avere trovato la forza per rivendicare ruoli e diritti. Belem ha dato al mondo intero un chiaro segnale in questa direzione. E’ il naturale punto di arrivo di un sommovimento tanto silenzioso quanto profondo: gli eredi delle antiche popolazioni indie in questi anni erano stati i protagonisti dei movimenti che hanno scosso la geografia politica di paesi quali la Bolivia, il Perù, perfino il Messico. Si tratta di una svolta nel segno del risarcimento storico, del rispetto e della valorizzazione delle diversità culturali, dell’espansione dei diritti umani. Sarebbe bastata questa vicenda, da sola, per caricare di valore e di alto significato anche l’incontro di Belem del World Social Forum.
Ferruccio Capelli
Milano, 15 febbraio 2009
I media italiani quest’anno hanno oscurato il Social Forum: gli articoli e i commenti dedicati a questo evento si contano quasi sulle dita di una mano. L’attenzione dei nostri commentatori si è concentrata solo su Davos: davvero curioso nel momento in cui la “superélite” del mondo può recitare solo il “mea culpa” per tante scelte e previsioni sbagliate.
Il problema è che qui, nel cuore della vecchia Europa, abbondano inquietudini e preoccupazioni, ma si è perso il gusto di guardare a cose nuove, di cercare di capire se nel mondo circolano altre idee e altre proposte. A me sembra invece buona cosa continuare a tenere lo sguardo aperto su tutto il mondo per afferrare, dovunque si manifestino, idee e processi politici e sociali nuovi. Il Social Forum, dopo otto anni, continua ad essere uno stimolo potente a guardare la realtà con occhi diversi e aperti: per questa ragione ho ritenuto opportuno anche questa volta non perdere l’occasione di parteciparvi.
E’ la terza volta che stacco il biglietto aereo per partecipare a un Worl Social Forum: non me ne sono mai pentito. Sono stato a Porto Alegre, a Nairobi, ora a Belem: tre realtà diverse, ma sempre pulsanti di vita. Questa volta c’era qualche preoccupazione fra gli organizzatori: incontri che si svolgono sistematicamente dal 2001 corrono il rischio di inaridirsi o ritualizzarsi. Invece l’evento è stato anche quest’anno denso di stimoli culturali, sociali e politici.
Iniziamo con una prima constatazione. Nel tradizionale confronto con Davos, la località sulle montagne svizzere dove, nello stesso periodo di tempo, si incontra la “superélite” del mondo, Belem ha potuto mettere in tavola un asso pigliatutto. Le critiche alla globalizzazione deragliata, tradizionale motivo conduttore dei Social Forum, si sono dimostrate drammaticamente fondate. La “logica di Davos”, la fiducia illimitata nella liberalizzazione e nell’autoregolamentazione dei mercati finanziari, ha portato il mondo alla più grave crisi finanziaria e economica del secolo. I movimenti sociali e le organizzazioni dei lavoratori che avevano dato vita al Social Forum avevano visto giusto: la liberalizzazione assoluta della finanza mondiale, senza regola alcuna, era destinata a provocare sconquassi di rara intensità. Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti: crollo dei mercati finanziari e fallimenti a catena di grandi istituti finanziari.
La baldanza e l’arroganza della “superélite” sono stati ridimensionati: i banchieri del mondo intero si prodigano oggi in imbarazzati “I’m sorry”. Il problema ormai si è spostato: il focus della discussione oggi è come fronteggiare una crisi di cui tutti riconoscono la virulenza e la gravità. In tanti sperano che, passata la nottata, tutto torni come prima: Belem ha invece abbozzato un ragionamento diverso. La crisi, si è detto al Social Forum può essere l’occasione per mettere in campo idee nuove e per il protagonismo di altre forze sociali. Ovvero: la crisi può essere l’occasione per cambiare lo sviluppo del mondo nel segno della giustizia sociale, dell’espansione dei diritti e della compatibilità ambientale. Con ogni probabilità sarà proprio questa la vera sfida degli anni futuri.
Seconda questione: il Forum ha fatto toccare con mano ancora una volta la vitalità e la speranza che attraversa tanti paesi del Sud del mondo. Nonostante la crisi economica sindacati e movimenti di questa parte del mondo trasmettono fiducia e speranza: essi sono convinti di partecipare a una stagione di crescita, di redistribuzione del reddito e delle risorse, di ampliamento delle libertà e delle opportunità individuali e sociali. L’America Latina in particolare appare oggi l’epicentro o quanto meno la parte più sicura e dinamica delle forze progressiste del mondo intero. I risultati elettorali di questo decennio sono stati semplicemente sbalorditivi: la sinistra ha prevalso in libere elezioni in quasi tutta l’America Latina, eccezione fatta per la sola Colombia. L’onda progressista ha coinvolto perfino il Paraguai, un paese con alle spalle una lunghissima dominanza della destra più retriva, dove nelle ultime elezioni ha prevalso l’ex vescovo Lugo.
Il Forum ha fatto toccare con mano questa realtà sorprendentemente dinamica e in evoluzione: l’evento centrale è stato senza dubbio l’incontro dei cinque Presidenti di Brasile, Venezuela, Bolivia, Equador e Paraguai. Anche qui vi è di che riflettere seriamente: il Forum poggia sulla rete dei movimenti, ma non disdegna l’incontro e l’interazione con i governi progressisti. Viceversa questi governi esibiscono la ricerca di rapporti fecondi con i movimenti sociali progressisti. Morales, Correa e Lugo, Presidenti rispettivamente di Bolivia, Equador e Paraguai, hanno addirittura voluto sottolineare che lì stanno le radici del blocco sociale e elettorale che ha permesso la loro vittoria elettorale.
Ovviamente questa considerazione si presta anche a una lettura in controluce: alla baldanza dei movimenti progressisti del Sud del mondo corrisponde la difficoltà e il silenzio delle forze progressiste della vecchia Europa. L’Europa ha difficoltà a inserirsi nella nuova lunghezza d’onda delle froze progresiste. Il continente deve fare i conti con una caduta di ruolo economico e politico internazionale: la risposta che oggi si intravede porta il segno di inquietanti populismi rancorosi. L’Europa e le sue forze progressiste, è il messaggio indiretto del Forum, hanno dinnanzi a sè una strada lunga e difficile per recuperare voce e funzione.
Terzo nodo propostoci dal Forum: un rapporto alla pari con gli Stati Uniti. A dicembre i democratici hanno sconfitto i neocon, hanno punito elettoralmente W.Bush e hanno imposto al paese una nuova leaderschip. Le forze convenute al Forum hanno apprezzato questa grande svolta. C’è però una diversità di tono e di misura rispetto a quanto si è sentito in Italia e in Europa nelle scorse settimane. Finalmente, si è detto, anche l’America dà il segno di volere tornare a partecipare a un coro progressista e Barack Obama sarà un nuovo assai importante interlocutore: nessuna carta in bianco però e nessun ruolo di guida riconosciuto a priori. Obama potrà e dovrà incontrarsi e interagire con forze che si sentono orgogliose del cammino e della direzione imboccata: dovrà trattarsi di un incontro alla pari. Il processo storico di ridimensionamento dell’egemonia del Nord del mondo e di costruzione di nuovi equilibri non si arresta alle soglie della nuova Casa Bianca.
E infine: Belem è la capitale di uno stato dell’Amazzonia. Il Forum ha dedicato grande spazio all’immenso bacino del più grande fiume del mondo. Questa scelta ha permesso di focalizzare in un colpo solo due grandi questioni: il futuro ambientale del pianeta e il destino delle popolazioni indigene. Le foreste dell’Amazzonia sono il polmone del mondo: le politiche per la loro salvaguardia sono essenziali per garantire un futuro al momdo intero. Il Forum ha fatto emergere la ricchezza e la vastità del movimento per la difesa del più grande patrimonio di biodiversità che l’umanità ha a sua disposizione. Ma, si è aggiunto, ed è una precisazione non da poco, le foreste possono essere difese e salvaguardate solo se questa scelta va di pari passo con la valorizzazione di quelle comunità indigene che abitano il suolo amazzonico da millenni.
Da qui la grande novità di Belem: migliaia di rappresentanti delle comunità indigene convenuti e riuniti al Forum. Durante l’incontro con i cinque Presidenti la prima parte dell’immensa sala era tutta occupata dagli indigeni nei loro costumi e nei loro colori tradizionali. Mai nel mondo capi di stato moderni avevano parlato davanti a una platea di indigeni così rappresentativa e mai nella storia autorevoli capi di stato si erano presentati anche come interpreti dei bisogni e dei sogni delle popolazioni indigene! Si tratta di una vera e propria svolta storica, a distanza di cinquecento anni da quello sbarco di Colombo che dette avvio ai lunghi secoli di espansione e di dominio dell’Occidente.
Le popolazioni indigene oggi sembrano avere trovato la forza per rivendicare ruoli e diritti. Belem ha dato al mondo intero un chiaro segnale in questa direzione. E’ il naturale punto di arrivo di un sommovimento tanto silenzioso quanto profondo: gli eredi delle antiche popolazioni indie in questi anni erano stati i protagonisti dei movimenti che hanno scosso la geografia politica di paesi quali la Bolivia, il Perù, perfino il Messico. Si tratta di una svolta nel segno del risarcimento storico, del rispetto e della valorizzazione delle diversità culturali, dell’espansione dei diritti umani. Sarebbe bastata questa vicenda, da sola, per caricare di valore e di alto significato anche l’incontro di Belem del World Social Forum.
Ferruccio Capelli
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