Dal sito radicalsocialismo
Come rovesciare la piramide della politica
Scritto da Francesca Palazzi Arduini
giovedì 01 gennaio 2009
«Le istituzioni libertarie sono istituzioni popolate, in senso letterale e non metaforico. Esse cioè sono strutturate attorno a relazioni dirette, faccia-a-faccia, protoplasmatiche, non attorno a relazioni meccaniche, anonime, rappresentative. Sono basate sulla partecipazione, sul coinvolgimento e su un senso di cittadinanza che stimola l’azione, non sulla delega del potere e sulla politica come spettacolo. Le istituzioni libertarie sono guidate da un principio cardinale: ci si aspetta che tutti gli individui maturi gestiscano direttamente gli affari sociali, proprio come ci si aspetta che gestiscano i loro affari privati» (Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, Eleuthera 1988 – Palo Alto 1982).
Un nuovo termine si è fatto largo di recente per descrivere lo scenario politico: “casta”. Sono state organizzate manifestazioni di piazza che hanno gettato nel panico la casta dei politici di professione: quelle dei “vaffanculo day”, per esprimere l’intenzione di non voler più sopportare il regime di malaffare politico-istituzionale che, ancor più dopo la decisione di non far scegliere più direttamente ai cittadini gli eletti, sembra avere ormai le sembianze di un tritacarne.
Certo, chi può dire di essere sicuro, anche ritornando al vecchio sistema del voto diretto dei deputati e dei senatori, che il proprio prescelto non verrà inghiottito dal sistema del “se io do una cosa a te...” e del clientelismo? La storia si ripete incessantemente: specializza e distorce nella professione anche chi era partito con buone intenzioni. Ma alle buone intenzioni, quelle cioè che esprimono democrazia e partecipazione, devono corrispondere mezzi adeguati ed adeguate energie, nonché una cultura del confronto che la nostra società sembra avere perso.
Mentre gli italiani sostano dubbiosi in questa pericolosa empasse, si va facendo strada velocemente, supportato dalla recessione e dall’uso dei mass media, uno stile di governo che cambia le regole non appena queste gli stanno strette... senza il consenso unanime ma servendosi solo dell’opinione di una maggioranza elettorale (ad esempio si presenta la maggioranza di governo, ottenuta da un candidato proprietario della maggior parte dei mass media del paese, come utile a cambiare anche le norme costituzionali). Chi si permette di dissentire viene definito “eversore”, un termine che prefigura già la presunta liceità dell’azione repressiva nei suoi confronti.
Certo, il problema dell’infantilismo dell’elettorato non è solo italiano: chi è l’ individuo maturo citato da Bookchin, che “gestisce i propri affari sociali”? La nuova politica-pubblicità rende tutti bambini. Quasi si ha paura di ammettere che basterebbe un poco di coinvolgimento personale in più, un po’ di responsabilità, per risolvere tanti problemi, come stanno dimostrando in tutta Italia i comitati cittadini che hanno deciso, viste le defezioni e le ambiguità dei partiti, di dare battaglia a scelte ingiuste. Ma la televisione ed un certo uso passivo e frammentario dei mass media e di internet ha minato profondamente il nostro stesso uso del tempo, sempre più assorbito da passatempi digitali e momenti di confronto, come quelli sui blog, che, se aggiungono informazione, non possono però certo sostituire la reale presenza fisica nei luoghi della politica e del confronto sociale.
«Come nell’Ecclesia ateniese, nelle sezioni rivoluzionarie parigine del 1793 e nelle riunioni cittadine del New England – tutte assemblee pubbliche regolarmente convocate, basate sulla democrazia diretta – ogni cittadino dev’essere libero di partecipare ai processi decisionali che riguardano la sua comunità. Quel che è fondamentale, a questo proposito, è il principio stesso: la libertà dell’individuo di partecipare, non l’obbligo e neppure il bisogno di farlo. La libertà non consiste nel numero di persone che scelgono di partecipare ai processi decisionali, ma nel fatto che esse hanno l’inalienabile possibilità di farlo, di scegliere se decidere o non decidere su questioni di pubblico interesse» (Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, Eleuthera 1988 – Palo Alto 1982).
Molti ora ribadiscono la necessità di fare politica a partire da se stessi: legandosi quindi fortemente alla propria realtà, e dunque anche al territorio. Sono state sperimentate forme di discussione e decisione assembleare che hanno dimostrato che anche in realtà nelle quali si discute alla pari si crea il rischio di maggioranze auto-imposte, di ruoli legati alla personalità e al carisma di alcuni. Spesso anzi la fretta e l’interesse di prendere alcune decisioni piuttosto che altre infrange il principio secondo il quale è giusto prendere solo le decisioni che sono condivise da tutti.
Il problema o dell’emergenza, o della disonestà o della urgenza, rompe quindi sempre la giusta disposizione all’unanimità, secondo la quale il governo migliore è quello in cui a nessuno dovrebbe deve essere imposto il volere di una maggioranza (né quella dittatoriale né quella elettorale).
Su questo problema molti hanno riflettuto, come su quello della pesantezza dei ruoli dei delegati dalle assemblee, incarichi spesso affidati a persone che, col complicarsi e l’infittirsi dei problemi e dei mandati, diventano appunto, per reazione, quei politici di professione che danneggiano la collettività.
Del resto il fantasma del totalitarismo, attraverso il quale pochi si prendono il privilegio del potere presentandosi come “servitori del popolo”, “unti del signore”, “uomini giusti e altruisti che tolgono il problema agli altri” è sempre vivo, e si nutre della de-responsabilizzazione di chi, non volendo appunto gravarsi dei problemi e delle responsabilità o non sapendolo fare, proprio agli altri si affida.
«Il fatto che le elezioni siano gestite come una kermesse da parte delle società di pubbliche relazioni ne è un esempio lampante. “La politica è l’ombra gettata sulla società dal grande capitale”, scriveva John Dewey, il più grande filosofo sociale americano del Novecento, e tale resterà finché il potere sarà in mano al business privato, attraverso il controllo privato delle banche, della terra e dell’industria, rafforzato dalla diretta influenza sui giornali, agenzie di stampa e altri strumenti di pubblicità e propaganda”. (Noam Chomsky, Il popolo è sovrano e il mercato non vuole, Internazionale, 10 ottobre 2008).
La strategia delle ombre cinesi funziona sempre, quando si tratta di governare per conto dei più forti e delle oligarchie. E’ di questi giorni la notizia che Silvio Berlusconi, come altri ricchi mondiali, ha acquistato 16 milioni di euro di azioni Mediaset quando il titolo era al minimo. Un’operazione che di per sé sancisce l’interesse personale del premier per l’azienda di famiglia, e cancella ogni residuo dubbio sul forte interesse del cavaliere per il controllo finanziario della stessa. Eppure il nostro Parlamento, anche nel momento in cui si paventa un ennesimo e più incisivo cambio delle regole a favore del più forte, continua a chiamarsi “democratico”, e il Presidente del consiglio di autodefinisce quello di “tutti gli italiani”.
«Un uomo che aderisce a un partito ha verosimilmente visto nell’azione e nella propaganda di quel partito cose che gli sono parse giuste e buone. Non ha mai studiato la posizione del partito relativamente a tutti i problemi della vita pubblica. Entrando a far parte del partito, accetta posizioni che ignora. Sottomette così il suo pensiero all’autorità del partito. Quando, a poco a poco, conoscerà le posizioni che oggi ignora, le accetterà senza esaminarle» (Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, 2008. Note sur la suppression générale des parties politiques, Paris, 1957).
La complessità delle relazioni umane e della politica ha creato strutture e legislazioni che celano cavilli e giochi di prestigio simili a quello delle tre carte, per cui viene dato ciò che poco più in là si riprende. La maggior parte dei nuovi rampanti della politica si vantano di impiegare la maggior parte della loro formazione a imparare a saper giostrare con leggi e regolamenti, come nuovi mandarini. E noi dei comitati lo sappiamo bene: quante “corse ad ostacoli” abbiamo visto nell’interpretazione di leggi che non aderivano alla volontà di certi amministratori! Che fare allora?
Il famoso “bene comune” cui si richiamano diverse formazioni politiche coincide solo una visione comunitaria che esclude comunquei segmenti sociali cui non si riconosce dignità e mette invece in primo piano altri segmenti e necessità, con la presunzione un po’ retorica quindi di definire in maniera generale la “comunità” basandosi su una visione per forza di cose limitata. Le liste civiche, se da un lato sono esempio di un rinnovato interesse alla politica sul territorio, spesso diventano un bluff nel momento in cui si trovano a non rappresentare l’elettore su temi scottanti e problematici, sui quali non hanno mai dibattuto e dei quali non si sono mai occupate ma vogliono votare (la politica del lavoro ad esempio, o la bioetica). La Lega è il caso tragico di gigantesca lista civica, basata su una presunta unità territoriale, ed addirittura etnico-culturale, che in realtà in Parlamento ha poi votato su una infinità di tematiche delle quali non sapeva assolutamente nulla, spostandosi a destra o al centro secondo come l’ispirazione, diciamo così, portava.
«Immaginiamo il membro di un partito – deputato, candidato al Parlamento o semplicemente militante - che prenda in pubblico il seguente impegno: “Ogniqualvolta esaminerò un qualunque problema politico o sociale, mi impegno a scordare completamente il fatto che sono membro del mio gruppo di appartenenza, e a preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene pubblico e la giustizia”» (Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, 2008. Note sur la suppression générale des parties politiques, Paris, 1957).
In realtà ognuno tende a rappresentare gli interessi del suo gruppo e addirittura le sue convinzioni personali su ciò che possa essere buono e giusto anche per gli altri. La tendenza dei rappresentanti dei gruppi politici è quella di essere portavoce di se stessi e di gruppi molto ristretti, allargati poi tramite la propaganda. Il fine, il raggiungimento dello scopo politico collettivo, è il mezzo: il potere. L’eletto, invece che semplice rappresentante, è il “simbolo”, e quindi diventa importante il suo look, la sua età, la sua presenza televisiva, la sua storia romanzata. Enormi facce hanno sostituito i vecchi slogan e le promesse a parole vengono sostituite da foto con rassicuranti sorrisi a 50 denti.
«Il computer offre un esempio immediato di questo mutamento. (...) Non stiamo più con un piede fuori dal mondo come utilizzatori di strumenti, lettori del libro della natura, persone con un destino eterno. Siamo diventati parte del sistema» (Ivan Illich, Pervertimento del cristianesimo, Quodlibet 2008. The Corruption of Christianity, 2000).
Non si può essere del tutto d’accordo con Illich, che critica radicalmente il web come fosse una sorta di fagocitatore; le sue considerazioni sono però in armonia con quella che sembra essere la finalità del web stesso: quella cioè di unire in un tutto unico di informazione e comunicazione l’umanità intera. Ma non si tratta di attività fagocitante, non più di quelle della tv o della carta stampata. Anzi, si tratta dell’unico mezzo che consente a tutti di creare informazione e comunicazione.
La critica a chi fa del mezzo un fine, come il politico di professione che vive del suo essere rappresentante degli altri più che del fine per raggiungere il quale è stato scelto, è valida.
Cosa se ne farà infatti la gente dello “strumento” internet, se priva di strumenti politici di analisi che orientino su cosa cercare e su chi comunicare? E soprattutto, come potremo difenderci dalla continua produzione di notizie se non sappiamo giudicarne la loro veridicità, essendo slegati dal reale, lontani dai luoghi, dissociati dai problemi e dalle vite altrui?
Il “discorso vero”, autentico, realmente presentato da una fonte certa, deve essere riconosciuto da chi ascolta. Siamo ancora capaci di distinguere tra la retorica del professionista della politica e le parole di chi pensa a finalità da condividere? I comitati dei cittadini hanno una discriminante valida per distinguere il vero dal falso: guardano al raggiungimento concreto degli obiettivi, ed hanno la forza dirompente dell’attivismo volontaristico e dello stretto legame col territorio. Chiedono verifiche sul qui ed ora, sulla certezza dei fatti, sul voto nei consigli, sulla presenza fattiva dei politici rispetto ai problemi. La nostra funzione è quella di impegnare le liste ed i candidati, gli schieramenti ed i partiti, a dare risposte precise. Ma noi non bastiamo a cambiare la politica. Solo con la partecipazione delle basi dei partiti, delle associazioni, di tutti è possibile.
E’ auspicabile che coloro che intendono candidarsi a rappresentare parti dell’elettorato siano persone coscienti della necessità di cambiamento dei modi della rappresentanza.
Sul nostro territorio, ad esempio, così non è: basti guardare al candidato alla presidenza della Provincia di Pesaro, che si è di recente presentato su grandi manifesti con solo la sua foto e le parole “niente paura”, sfruttando così la più scontata esca mediatica. O ai candidati sindaci per Fano, entrambi dediti a farsi ritrarre in affiches giganti: uno già appoggiato per stanchezza ad un tavolo e che si presenta con una biografia nella quale non dà conto del lavoro politico svolto come consigliere provinciale ma si sofferma sul suo ruolo di “manager” per importanti aziende; l’altro, a tutto volto affinché la gente si concentri sulla personalità, presenta sul suo sito una dichiarazione di intenti per il suo nuovo mandato che sembra una dichiarazione... contro la crisi delle imprese di edilizia. E la sinistra cosa propone? Tanto per definire con maggior chiarezza quanto poco contino le donne (e chi se ne frega, tanto quelle non c’hanno voglia di comandare!) candidano a sindaco proprio uno dei più noti medici anti Legge 194, strenuo difensore della parità di dignità ed esigenze tra blastocisti e donna. Vincendo sicuramente il premio Gambero Rosso.
Suggerirei di chiedere invece a vecchie e nuove organizzazioni politiche che si scavalchi ogni ostacolo formale e si esiga (e si costruisca) finalmente, una politica diversa nei metodi, nella quale non ci sia bisogno di nuove riforme elettorali o candidati subprime come i mutui, per dare voce (e non “interpretare”!) con coerenza e alla volontà popolare :
1. La fine delle liste elettorali: che non ci sia nella realtà un leader o un capolista da eleggere ma che chi vota, e quindi delega, lo faccia sapendo che dà mandato all’intero gruppo o staff di persone scelto per fare ciò cui è stato delegato per un unico periodo prefissato. Che il portavoce o la portavoce del gruppo che siederà nei Consigli istituzionali non abbia funzioni leaderistiche ma solo capacità di parola e acume adatti a mantenere sempre intatta la finalità della collettività rappresentata.
2. L’inizio di un lavoro politico da svolgere in staff e con la continua consultazione della collettività delegante, sia periodicamente (con assemblee generali e locali), che immediatamente (giovandosi della comunità informatica). Niente “tavoli” fittizi o promesse di consultazione e rendicontazione fatte da uno, chi si candida, nei confronti degli altri, gli elettori. Niente “capi-lista” che in realtà poi rispondono solo al proprio partito, del quale spesso l’elettore non sa niente se non quello che trapela sulla stampa. Consultazione e lavoro di staff vero, e non promesso o ipotetico, comprensivo della suddivisione delle spese e dei pagamenti e rimborsi.
3. La fine quindi della politica di professione e l’assoluta fine dello spostamento dei politici di professione decaduti a burocrati di professione (quanti esempi!).
4. La chiarezza sulle finalità, che non consentano ai delegati di esprimersi come portavoce della collettività su argomenti dei quali non si è discusso e sui quali non si è rilevato un soddisfacente accordo. L’apertura di un contenitore web per le discussioni ed i sondaggi, moderato sulla lunghezza degli interventi e con l’obbligo di citare le fonti... per non morir di sete.
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