martedì 6 gennaio 2009

Burg: Perché l'Occidente non può vincere

Da Haaretz, 5 gennaio 2009

Perché l’Occidente non può vincere

Al di là delle due cataste di cadaveri e del pianto e del lutto di entrambi
i popoli, trapela già da frammentari discorsi dei leader d’Israele l’amaro
sentore della prossima battaglia perduta. A partire dalla Guerra dei Sei
giorni non abbiamo più vinto alcunché. Nel 1973 siamo riusciti a salvarci
dal disastro, nel 1982 siamo rimasti chiusi in trappola ma siamo
sopravvissuti, né mancano altri esempi. Per qual motivo accade ciò? Perché
le nostre guerre si concludono puntualmente in modo ambiguo?

Penso che vincere le guerre non sia più possibile. A non poter vincere non
siamo soltanto noi; l’Occidente tutt’intero è incapace di vincere. Faccio
fatica a ricordare una sola guerra degli ultimi 60 anni che sia stata vinta
dagli Stati Uniti in modo chiaro e deciso. Dresda e Berlino furono rase al
suolo, Hiroshima e Nagasaki furono distrutte, e d’allora in poi l’Occidente
ha imboccato una strada nuova.

L’Europa occidentale ha abbandonato quasi del tutto l’opzione della guerra.
L’Europa non combatte, e in ogni caso il suo peso specifico non è
commisurato alla sua abilità di vincere guerre. Gli Stati Uniti, per contro,
sono passati dall’isolazionismo all’essere il Paese occidentale maggiormente
responsabile della violenza esercitata sotto l’egida dello Stato. Dispongono
di un esercito potente, e sanno meglio di chiunque altro come schierare le
proprie forze sulla linea di partenza, ma nelle mosse successive qualcosa va
sempre di traverso. La guerra di Corea non fu una vittoria smagliante, il
Vietnam finì in modo sciagurato, e le guerre del Golfo non vengono
considerate dei grandi successi militari.

Sembra che nel DNA dell’Occidente vi sia qualcosa che non gli consente più
di dichiarare guerra com’era solito fare nel passato. La civiltà occidentale
non è più capace di combattere una guerra con l’intento di distruggere: né
in via di principio né al livello della volontà dei soldati di agire secondo
modalità considerate criminali nel loro universo civile, nel mondo dei loro
valori.

Le guerre del secolo scorso, assieme al genocidio degli ebrei d’Europa,
hanno insegnato all’Occidente parecchie lezioni, fra le quali è centrale
l’abolizione della dottrina della guerra; l’Occidente è passato dal
distruggere e umiliare il nemico al conservargli la capacità di
riabilitarsi, di salvaguardare la propria dignità, di modificarsi e
diventare un partner anziché un rivale.

L’errore compiuto nei confronti della Germania dopo la Prima Guerra mondiale
è stato metabolizzato, e la Germania si pone ora come un epicentro
importante del nuovo schieramento occidentale. Il Giappone, la cui dignità
non venne violata, è diventato un leale alleato dell’Occidente democratico.
Ed è qui che prende forma un nuovo tipo di vittoria: la vittoria che non
liquida la possibilità del dialogo con l’avversario di ieri. Inoltre, sembra
esservi un legame profondo tra l’intensità dell’impegno con cui una società
tutela i diritti umani – la dignità e la libertà garantite all’interno del
Paese – e il desiderio da parte dei soldati di quel Paese di annientare
l’altro. Quanto è più robusta la coscienza della libertà, tanto minore è la
volontà della gente di decimare il nemico. Rimane aperta la questione di
come riesca una società giusta a combattere nemici che non condividono lo
stesso sistema di valori, e di come ridefinire che cosa è vittoria.

Mi sembra che, se l’obiettivo di una guerra è la distruzione del nemico, la
guerra in questione sia destinata a fallire. Per ragioni che ci sono ben
note, non è più possibile annientare nazioni o, per lo meno, soffocare le
loro aspirazioni all’indipendenza. E per ragioni non meno importanti,
occorre sperare che i nostri soldati non si dimostrino protesi a distruggere
per il solo gusto della distruzione. L’obiettivo della guerra moderna
dev’essere quello di preparare il dialogo. E se nessun dialogo con il nemico
assume forma, allora la guerra è necessariamente condannata al fallimento.

Sembra pertanto che nella guerra di Gaza la leadership d’Israele sia
destinata a fallire nel nostro nome: esattamente come i leader religiosi dei
palestinesi, che stanno conducendo la loro gente verso un altro fallimento,
radicato nell’ignorare la metamorfosi del concetto di vittoria, che non
implica più sottomissione ma apertura di discorso, non mattanza ma
costruzione di ponti. Come ponti furono alla fine gettati sopra le acque
tempestose tra Pearl Harbor e Hiroshima, tra Dresda e Londra, e tra la
Dublino cattolica e quella protestante, così vi è un ponte tra Sderot e
Gaza. Coloro che non intendono camminarvi sopra condurranno le loro nazioni
al fallimento in tutte le loro guerre.

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