martedì 13 ottobre 2015

Franco Astengo: Miseria e nobiltà

MISERIA E NOBILTA’ di Franco Astengo “Il Manifesto” di oggi titola “ La legge costituzionale che il Senato voterà oggi dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza”. E’ vero: oggi si cancella d’imperio un pezzo di storia d’Italia e soprattutto si segna la resa senza condizioni al nuovo corso del “personalismo autoritario” di quella parte del PD di provenienza dall’asse ereditario PCI PDS -DS. Una resa senza condizioni avvenuta, per ironia della sorte, proprio nei giorni in cui si scatenava un profluvio di parole in memoria di Pietro Ingrao, probabilmente il teorico più attento ai temi della “democrazia progressiva” anche grazie alla forza delle elaborazioni sviluppate dal Centro di Riforma dello Stato. Una lezione, quella arrivata attraverso il CRS, completamente dimenticata se si pensa che, nel corso di questo disgraziato dibattito, a nessuno è venuto in mente che le vere riforme costituzionali da fare erano altre, muovendosi nel senso delle grandi novità intervenute nel tempo cercando di assicurare a tutti il rispetto dei temi della difesa dell’ambiente, la possibilità di usufruire ed esercitare le nuove tecnologie comunicative, l’estensione dei diritti civili derivanti da una importante stagione di mutamento nel costume, di difesa dei consumatori. Una resa senza condizioni che ha dimostrato ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, tutta la fragilità culturale e politica degli esponenti di quell’area come del resto si era ben dimostrata già quasi trent’anni fa nella fase di liquidazione del Partito avvenuta, è bene ricordarlo sempre, al di fuori da un preciso indirizzo di carattere ideologico e politico ma all’insegna di un genericissimo “sblocco del sistema politico” che, in pratica, non significava altro che “liberi tutti” sulla via del tanto agognato approdo alla logica della governabilità. L’assenza di un vero dibattito politico all’interno del PCI che durava ormai da molti anni (almeno dall’XI congresso, il primo celebratosi in assenza di Togliatti) aveva rappresentato la causa prima di questa assenza d’indirizzo politico apparsa in una fase culminante della Storia d’Europa (quasi contemporaneamente si verificarono, infatti, la caduta del Muro di Berlino e la stipula del trattato di Maastricht: due avvenimenti accolti con assoluta passività e, in assenza, di una analisi approfondita e realistica dei mutamenti in atto). Il PCI era così imploso e nessuna delle due parti emerse da quel frangente, PDS e Rifondazione, poteva rivendicarne l’eredità concreta essendo esse, per certi versi, omologate alla subalternità al pensiero dominante: il PDS alla logica della governabilità maggioritaria, Rifondazione al movimentismo globalistico. Gli amari frutti di questo stato di cose non tardarono mostrarsi influenzando tutta la lunga fase della “transizione italiana” protrattasi per circa 20 anni nella ricerca affannosa di un impossibile equilibrio all’interno delle mutate condizioni dello scambio economico e politico a livello internazionale e, specificatamente, rispetto al tema dell’allargamento di una Unione Europea rivelatasi incapace di costituzionalizzarsi quale soggetto politico. Nel frattempo si verificava il prevalere, soprattutto sul piano culturale a dimensioni egemoniche, della destra che imbracciava l’arma della distruzione della soggettività e della rappresentatività politica in favore della spettacolarizzazione personalistica dell’azione di governo. Un vero e proprio disastro culturale e politico al riguardo del quale non si è verificata alcuna seria opposizione alternativa, neppure nel momento in cui appariva chiaro l’obiettivo del superamento del modello di democrazia costituzionale che aveva retto la difficile fase della ricostruzione del Paese nel post – seconda guerra mondiale e dentro la difficile temperie del dominio della logica dei blocchi (mutamento che si verificava anche nello stesso linguaggio politico: seconda repubblica, governatori, leadership, ecc..). Intanto svanivano, all’interno del dibattito politico, gli stessi elementi portanti del confronto di classe (che pure avrebbero avuto ragione di essere esaltati, nell’acutizzarsi evidente delle logiche di sfruttamento capitalistico collocate ben oltre gli usati confini del rapporto classico struttura/sovrastruttura ed emergevano nuove fortissime e drammatiche contraddizioni sociali e territoriali: guerra, ambiente, genere, migranti). Si chiudeva così definitivamente quel rapporto tra identità ed egemonia che aveva rappresentato il nesso portante della presenza dei comunisti in Italia, ben oltre l’appartenenza e i legami ai tentativi d’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani che avevano attraversato il ‘900. Eliminando questi elementi dal proprio bagaglio culturale gli esponenti del PD che erano appartenuti al filone PCI PDS ~DS, non sono riusciti a comprendere quale fosse, in effetti, la posta in palio rispetto alle modifiche elettorali e costituzionali propugnate dal governo: si tratta, infatti, del compimento di un passaggio definitivo dal tipo di democrazia repubblicana disegnato dalla Costituzione (dalla quale Togliatti pensava di poter muoversi in avanti verso la “democrazia progressiva”) a un sistema “governante” fondato sulla centralità di un Partito Unico fondato sull’essenza di una leadership personalistica, scambiando il momento elettorale (a tutti i livelli) in una sorta di costante plebiscito sulla persona (e sulle persone, andando giù per li rami ai livelli territoriali di governo). Insomma una “cosa” che se può essere definita secondo gli antichi canoni di pura destra classica, ben al di là dei riferimenti sociali: una destra di regime. L’area comunista è rimasta così presidiata, in Italia, da forze, sicuramente nobili nei loro intenti, ma legate a filoni minoritari e parziali (se non contrari) a quello che era stato il movimento complessivo della presenza dei comunisti nella storia d’Italia attraverso tre grandi passaggi storici: l’antifascismo, la Resistenza e la Costituzione, il ruolo progressivo della classe operaia in diretta relazione con i settori portanti della modernità dell’intellighenzia italiana (il cinema, le grandi case editrici, lo sviluppo delle arti visive). Il partito a integrazione di massa, nell’accezione specifica realizzata concretamente dal PCI per un periodo non breve della storia d'Italia (si è discusso a lungo tra “socialdemocrazia” e “espressione del sistema sovietico”: andrebbe ricordato anche lo “strano animale” identificato nella giraffa) e originalmente inseritosi nella realtà della sinistra europea dell'epoca, ha svolto una funzione fondamentale dal punto di vista pedagogico. Non si tratta, qui, di richiamare semplicemente il lavoro dei grandi centri studi (CRS, CESPE, CESPI) e le scuole di partito, all'interno delle quali la funzione pedagogica era esercitata con grande rigore e qualità (Frattocchie, in primis, ma anche Albinea, Faggeto Lario, ecc) ma soprattutto di pensare alla funzione di “alfabetizzazione di massa” che il partito aveva svolto, non soltanto al riguardo della “identificazione politica” ma, più complessivamente rispetto alla cultura nel suo insieme, agli aspetti storici, filosofici, letterari, artistici. Non si accenna qui al ruolo degli intellettuali ma, piuttosto, a quello della classe operaia: laddove, ad esempio (un esempio che svolgiamo soltanto per circoscrivere il nostro discorso) la classe operaia appariva davvero “forte, stabile e concentrata” la penetrazione del partito non si limitava a essere semplicemente ideologico – organizzativa; la frequentazione delle sue sedi, le scadenze di incontro, di discussione, anche la ritualità stessa del suo concreto agire politico aveva, senza dubbio, fornito la realtà di un “partito pesante” ma anche di una comunità “pensante”, di un agire collettivo rispetto a temi fondamentali della vita civile associata. La tensione culturale della base comunista (soddisfatta anche da una produzione imponente dal punto di vista editoriale: collane, riviste, ecc) risultava essere una tensione complessiva: non solo finalizzata strumentalmente all'agire politico. Si trattava di una tensione di “crescita” verso una dimensione etica, sicuramente molto “includente” se non totalizzante (su questo ci sarebbe da analizzare ancora adesso con attenzione), ma capace di fornire ai singoli e al collettivo un bagaglio tale che, alla fine, consentiva all'universo comunista di esprimere sul serio una dimensione da “intellettuale collettivo”. Certo, esistevano limiti importanti in questa azione: limiti evidenziatisi poi nel momento dell'esplosione della modernità e del superamento – oggettivo – di una “dimensione di classe” che faceva fatica ad accettare e comprendere nuovi valori, di quelli del tipo definito “post- materialista”. Era quella però la vera forza del partito, unita a quella di una grande qualità intellettuale complessiva del gruppo dirigente: una forza, quella dell'intellettuale collettivo, che ha permesso di costruire anche una rete di “intellettualità diffusa” che si esprimeva a livello di quadri intermedi, essenzialmente nelle Federazioni che rappresentavano un cuore pulsante. L'alto livello culturale e politico dei quadri intermedi rappresentava il terzo punto su cui poggiava la struttura complessiva del PCI (gruppo dirigente, quadri intermedi appunto, e base in grado di esprimere “intellettualità diffusa”) secondo lo schema poi raccolto da Maurice Duverger negli anni'50. Dunque, tra limiti, errori, interrogativi si è discusso a lungo su quando questa storia sia finita davvero: ci permettiamo un accenno interpretativo, sotto questo aspetto. Forse quando l'intreccio tra queste tre realtà è finito e il “quadro intermedio” ha pensato che fosse il momento di liberarsi del “fardello” lavorando all'obiettivo del “liberi tutti”, dello “sblocco del sistema politico, nel momento in cui appariva possibile vivere “di politica” e non più “per la politica”. Oggi, imperversante la personalizzazione si esalta il dialogo diretto tra il capo e le masse quale sintomo di corretta interpretazione della modernità (senza alcuna accenno agli anni'20 e '30 del XX secolo) potrà apparire del tutto inutile rievocare i temi che abbiamo cercato di riprendere in questo intervento. La pensiamo esattamente al contrario: rievocare i tratti salienti dell'originalità specifica rappresentata dal PCI proprio nel suo essere “partito di massa” ( comprensivo al suo interno, ovviamente nel bene e nel male soprattutto per chi ne ha patito concretamente le contraddizioni, di una applicazione molto rigida della “teoria dell'elite”, da Weber a Michels, da Mosca a Pareto) significa compiere assieme una operazione controcorrente sul piano storiografico, ma anche portare avanti una iniziativa politica. La sinistra italiana appare ormai da molti anni del tutto squassata da una crisi verticale, senza precedenti, che potrebbe portarla alla definitiva estinzione: forse varrebbe la pena tornare ai fondamenti di quella che è stata, prima ancora di un’imponente presenza politica, una fortissima espressione di carattere pedagogico – culturale tralasciando la miseria del politicismo attuale , tornando invece senza alcun timore ad esaltare la nobiltà della cultura politica.

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