lunedì 31 agosto 2015

Franco Astengo; Praga è sola

COME OGNI ANNO E’ NECESSARIO RICORDARE: “PRAGA E’ SOLA” di Franco Astengo Come ogni anno è necessario ricordare: “Praga è sola”. Mi permetto di rammentare ancora una volta questa data indicandola come fatidica nell’intera storia europea e mondiale. 21 Agosto 1968: i carri armati del Patto di Varsavia entrano a Praga, spezzando l'esperienza della “Primavera”, il tentativo di rinnovamento portato avanti dal Partito Comunista di Dubcek. 1968: l'anno dei portenti, svolta verso il dramma l'anno della contestazione globale, del “maggio parigino”, di Berkeley, Valle Giulia, Dakar, della Freie Universitaat di Berlino. Si chiude bruscamente un capitolo importante nella storia del '900. Non è nostra intenzione rievocare, il dettaglio di quegli avvenimenti o tentarne, una interpretazione complessiva. Il nostro riferimento è rappresentato, molto più modestamente, da una riflessione sui risvolti che quell'avvenimento ebbe sulla sinistra italiana. Si compirono, in quel frangente, scelte che poi avrebbero informato la realtà politica della sinistra italiana per un lungo periodo ed, ancor oggi, si può ravvisare la presenza di “contraddizioni operanti”. Prima di tutto l'invasione di Praga spezzò lo PSIUP :a distanza di tanti anni possiamo ben dire che si trattò di un fatto politico importante. Il partito, rappresentativo dell'esperienza della sinistra socialista che aveva rifiutato nel 1963 l'esperienza di governo con la DC, aveva appena ottenuto (il 19 Maggio) un notevole risultato alle elezioni politiche (il 4,4% dei voti con 24 deputati) e su di esso si era appuntata l'attenzione di molti giovani che avevano cominciato a ritenerlo l'espressione di un avanzato rinnovamento a sinistra. Lo PSIUP si spaccò in due, da un lato il vecchio gruppo dei “carristi” approvò incondizionatamente l'invasione con toni da antico Comintern (come nessun altro settore della sinistra italiana, usando un enfasi non adoperata neppure dalla corrente del PCI vicina a Secchia); dall'altra esponenti di spicco del “socialismo libertario”, epigoni della lezione di Rosa Luxemburg, come Lelio Basso e Vittorio Foa, si misero da parte; ma soprattutto furono i giovani, al momento protagonisti del '68, a ritrarsi. Lo PSIUP iniziava così la china discendente, che sarebbe culminata nell'esclusione dal Parlamento con le elezioni del 1972: un evento ripetiamo di un peso rilevante sulle future sorti della sinistra, in particolare al riguardo delle possibilità di aggregazione, iniziativa politica, capacità di rappresentanza di quella che sarebbe stata la “nuova sinistra” di origine sessantottesca. Sul fronte di quell’analisi fu assente anche la componente socialista democratica, in quel momento riunificata nel traballante cartello della “bicicletta” (doppio simbolo alle elezioni del 1968 di PSI e PSDI con risultato molto deludente) e avviata verso una concezione quasi esaustiva della governabilità che, nel giro di qualche anno (consumata un’ulteriore scissione) avrebbe portato a quella che Riccardo Lombardi definì “mutazione genetica” (1980). La componente cattolica che poi diede vita ad importanti esperimenti sul piano politico e che, in quel momento risultava soprattutto presente nel Sindacato e in alcuni significativi soggetti associativi (la scelta “socialista” delle ACLI a Vallombrosa proprio nel 1968) risultò ancora immatura per affrontare un dibattito di quelle proporzioni, schiacciandosi alla fine su posizioni sicuramente libertarie ma non incisive sulla realtà di un possibile schieramento di dissenso rivolto sì verso l’atto proditorio compiuto dall’URSS ma anche verso una prospettiva storica alternativa nell’ambito del socialismo. Il peso più importante, però, della drammatica vicenda praghese ricadde, ovviamente, sul PCI. Il più grande partito comunista d'Occidente si trovava , in quel momento, in una fase di forte espansione elettorale (il 19 Maggio aveva raccolto 1.000.000 di voti in più rispetto all'Aprile 1963) ma in difficoltà organizzativa, in calo d'iscritti, non avendo ancora superato il trauma dell'aver svolto un congresso inusitatamente combattuto come l'XI del 1966, il primo celebratosi dopo la morte di Togliatti: Un congresso contrassegnato dallo scontro ( ovattato, ovviamente, com'era costume dell'epoca, ma vissuto intensamente in una larga fascia di quadri) tra le ragioni di Amendola e quelle di Ingrao. Inoltre il quadro europeo appariva alquanto problematico: il PCF appariva scosso dall'impeto del Maggio e si rinchiuse in una rigida ortodossia, PCE e PCP erano piccoli partiti ancora clandestini, la Lega dei Comunisti Jugoslavi obbedì, ovviamente, alla ragion di stato. La notizia dell'invasione piombò su di una deserta Roma agostana: i principali dirigenti del PCI erano in ferie, tutti al di là della cortina di ferro. I membri dell’Ufficio Politico presenti in Italia si riunirono dopo una convocazione di fortuna per varare un documento che suonò immediatamente come un punto molto avanzato di condanna dell'invasione. Tralasciamo, per brevità, la narrazione del fortissimo dibattito che si scatenò subito, alla base del partito, nelle sezioni, nei comitati federali di tutte le province: un dibattito dove si registrarono anche elementi di netta contrapposizione e di insofferenza, da parte dei settori più arretrati del partito, verso quelle che sembravano le scelte del vertice. Inoltre il PCI era chiamato a difendere le posizioni di apertura tenute verso il nuovo corso cecoslovacco. Qualche mese prima si era svolto, infatti, un incontro tra Longo e Dubcek. I problemi maggiori, come era prevedibili, vennero dall'esterno e, più precisamente, dall'URSS: la pressione del PCUS per un arretramento nelle posizioni dei comunisti italiani e, semplificando al massimo un vigore di dibattito che ripetiamo risultò altissimo e del tutto inedito per la vita del partito, si arrivò, dopo un incontro Cossutta- Suslov avvenuto a Mosca ad una sorta di rientro nell'alveo. Di quale alveo si trattava? Il PCI, nella sostanza, si assestò all'interno dei confini della linea tracciata da Togliatti, dopo il XX Congresso del PCUS e l'invasione dell'Ungheria del 1956. Alla base di tale linea c'era la convinzione secondo cui il modello staliniano, essendo collegato alle condizioni di arretratezza e di accerchiamento in cui si era sviluppata la rivoluzione russa, era destinato ad evolvere verso la democratizzazione nella misura in cui si fosse compiuto il processo di industrializzazione, urbanizzazione e alfabetizzazione nel momento in cui fosse avanzato il processo di distensione internazionale. Ancora più a fondo, c'era la convinzione che l'autoritarismo politico e la centralizzazione amministrativa, nei paesi dell'Est, fossero fenomeni prevalentemente istituzionali e rappresentassero semplicemente un ritardo e una incongruenza della sovrastruttura rispetto alla struttura. Il gruppo dirigente sovietico rimase così l'interlocutore, come protagonista necessario di una riforma graduale. Nessun altro soggetto ,anche del dissenso comunista, seppe rispondere adeguatamente su questo terreno: né trotzkisti, né maoisti, né terzomondisti. Forse soltanto in alcuni settori della socialdemocrazia di sinistra (cui si accostarono, in seguito, esuli della primavera praghese riparati in Occidente) si registrarono fermenti rivolti nel senso di una ricerca più avanzati. Nel PCI però non tutto rimase fermo su quelle posizioni. Si registrò, invece, un confronto inedito che diede origine ad un aspetto particolare di quello che, poi, per molti anni fu denominato “caso italiano”. Un gruppo di intellettuali che, nel corso dell'XI congresso avevano sostenuto le posizioni di Ingrao, aveva via, via, elaborato posizioni autonome in contrasto netto con la direzione del Partito, dando anche vita ad una rivista teorica ”Il Manifesto”, promotrice di un ampio dibattito e seguita con molto interesse anche da settori esterni al PCI. Un dibattito che, culminato qualche mese dopo, con la pubblicazione dell’articolo di Lucio Magri “Praga è sola” rappresentò una dei fattori principali della separazione forzata dal PCI (il 25 Novembre 1969 infatti il Comitato Centrale del Partito si pronunciò per la radiazione dei componenti del gruppo del Manifesto). Tralascio, ovviamente, anche la narrazione di questa vicenda perché si tratta di un'altra storia, del resto ben conosciuta, per limitarmi alle posizioni che si espressero sulla vicenda cecoslovacca in contrasto con quelle ufficiali. Le posizioni del “Manifesto” partivano dalla considerazione che ripetere “vogliamo il socialismo nella democrazia”, non bastava più. Era necessario, invece, partire dal dato che nei paesi del “socialismo reale” ci si trovava di fronte alla restaurazione di una società di classe, e che lì stava la radice dell'autoritarismo. Bisognava interrogarsi sul come mai questo dominio di classe non potesse permettersi il lusso quantomeno di un pluralismo di facciata, ed avesse bisogno di un soffocante apparato repressivo e di una ideologia autoritaria. Al PCI, alla sinistra occidentale, toccava rispondere compiendo uno sforzo serio per alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in modificazioni reali dell'economia, dello Stato , delle forme di organizzazione, così che l'egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non nel cielo della politica, o all'interno delle coscienze, e soprattutto potesse via, via, vivere come dato materiale. Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza senso pensare ad una autoriforma del sistema. Solo la crescita di un conflitto politico reale, di un'opposizione a cui dar vita dall'interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un'alternativa. Queste posizioni, sommariamente ricordate in questa sede, risultarono sconfitte, emarginate, espulse. Non è ovviamente nostra intenzione ricostruire la storia con i se e con i ma: il nostro giudizio è quello che la scelta maggioritaria assunta dal PCI in quel cruciale tornante della storia causò il formarsi di alcune contraddizioni di fondo che rimasero operanti per un lungo periodo, ben oltre la stessa fase di liquidazione del partito avvenuta nel momento della caduta del muro di Berlino e dello scioglimento dell’URSS (1989 – 1991). Proprio il mancato superamento di quelle posizioni ancora interne alla logica del XX Congresso e presenti in dimensione rilevante nel PCI al momento della caduta del muro di Berlino, nel 1989 e nonostante alcuni seri tentativi compiuti nella metà degli anni'70 dalla segreteria di Enrico Berlinguer (segretaria accantonata, nei suoi contenuti di fondo, dai “nuovisti” non tanto per i tanti e gravi errori politici commessi nel corso della sua gestione, ma per l'accusa di “moralismo”), consentirono agli “ultras estremisti” (ricordate ci sono anche gli estremisti di un presunto moderatismo; scambiato con la subalternità e la sudditanza psicologica nei confronti delle posizioni dell'avversario da unire alla bramosia di essere “ricevuti a palazzo”) del PDS e poi del PD di cacciare via l'intera tradizione ideale, storica, politica dell'area comunista italiana. Il PD trasformato in una semplicemente componente del “cartel party” che agita il teatrino televisivo e salottiero della politica italiana è diventato così soggetto “contendibile” da parte di gruppi di avventurieri legati alla logica di un potere finalizzato a sé stesso e portato avanti attraverso un impasto di populismo e nazionalismo degno della peggiore tradizione della storia politica italiana. Tutto questo è avvenuto mentre i gestori del ciclo capitalistico stanno attaccando con ferocia, ormai da molti anni, le condizioni materiali di vita dei ceti subalterni all’interno di un quadro internazionale dominato da “Signori” di una guerra endemica, in alcuni casi addirittura mascherata da guerra di religione, che sta provocando crisi di portata epocale e da una apparentemente inattaccabile tecnocrazia economicista che opera per ridurre, in Occidente, gli stessi spazi della democrazia borghese. Aver mancato una vera e battaglia politica su Praga'68 causò, quindi, nel PCI una crisi (apparentemente soffocata dai grandi successi elettorali del partito negli anni'70) che esplose vent'anni dopo ed agisce, ancor oggi, nella totale deriva che la sinistra italiana sta subendo sulla strada della sua quasi compiuta estinzione..

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