giovedì 1 dicembre 2011

Stefano Fassina: Per un neo-umanesimo laburista

Stefano Fassina : PER UN NEO-UMANESIMO LABURISTA.



PER UN NEO-UMANESIMO LABURISTA.





Stefano Fassina - Relazione introduttive al seminario

“Il lavoro nella riflessione della Chiesa di Benedetto XVI”



Siamo nel vivo di una fase straordinaria. Il termine “crisi” è sempre meno utile a fotografare il passaggio in corso. Siamo, in realtà, in una “grande transizione” articolata lungo quattro fondamentali assi: geo-economico e geo-politico; demografico; economico e sociale; ambientale. L’asse geo-economico e geo-politico del pianeta si sposta ad est e a sud. Le economie mature invecchiano a fronte di interi continenti segnati da giovani generazioni in movimento. Le disuguaglianze all’interno dei singoli stati nazionali si ampliano oltre il limite di funzionamento degli ordinamenti democratici, oltre che delle economie. La natura da straordinaria risorsa per il benessere dell’uomo è sempre più in sofferenza e si vendica con effetti sempre più pesanti in termini di vite perse.



È forte in ciascuno di noi il desiderio e il senso di urgenza di capire meglio quanto avviene. Il paradigma egemone nell’ultimo trentennio, il neo-liberismo, appare inadeguato. Anzi, la continua riproposizione di quel paradigma interpretativo e delle connesse ricette di policy è alla base delle difficoltà nelle quali siamo drammaticamente prigionieri.

Nell’impianto liberista affondano anche le radici delle difficoltà a trovare risposte convincenti per la salvaguardia ed il rilancio dell’euro e, con esso, del progetto di rivitalizzazione del primato della politica, ossia della democrazia, nell’Unione Europea nel quadro dell’economia globale. Infatti, nonostante la presenza di culture progressiste forti e di culture democratico-cristiane e liberali ispirate all’economia sociale di mercato, interpretate da alcuni padri fondatori, da Delors a Mitterand, da Ciampi a Prodi, da Kohl a Monti, l’euro è prigioniero di interessi nazionali declinati secondo i precetti neo-liberisti: mercato unico e neutralizzazione ai fini anticiclici delle politiche monetarie e di bilancio.



È evidente che il soccorso per segnare in senso progressivo la transizione non può venire dalla semplice riproposizione di quanto vigeva ancora prima degli anni ‘80. Siamo in un quadro profondamente mutato rispetto al secondo dopo guerra. Ma gli insegnamenti di fondo del post ’29 hanno ancora un valore rilevante. Primo fra tutti, l’incapacità di misure dal lato dell’offerta a rimettere il moto la macchina. Quindi, il rilancio della domanda aggregata come variabile decisiva per lo sviluppo e per la riduzione del debito pubblico. Qualche giorno fa, sul Financial Times, Larry Summers, non proprio un vetero-keynesiano, scriveva che “il problema principale di fronte agli Stati Uniti e all’Unione Europea è una caduta del Pil dovuta alla carenza di domanda”.

Per capire come segnare in senso progressivo la transizione, è decisivo fare un’analisi adeguata delle cause della rottura dell’equilibrio insostenibile sul piano macroeconomico, sociale ed ambientale del quarto di secolo alle nostre spalle.

Qual è la ragione profonda della rottura del precario equilibrio dell’ultimo trentennio? È colpa della finanza? Oppure, la finanza ha oliato per lungo tempo un meccanismo mal funzionante e precario? Qual è, allora, il mal funzionamento? Il difetto ha riguardato soltanto la politica economica o il problema riguarda la visione dell’uomo e della società e le condizioni della persona che lavora?

Per rispondere a tali domande, abbiamo trovato di grande interesse le riflessioni contenute nel’ultima enciclica di Benedetto XVI, la Caritas in veritate (29 Giugno, 2009), in particolare intorno al paradigma del “neo-umanesimo integrale”.



Non è una riflessione improvvisata, come è ovvio, data la fonte. È, come ha ricordato recentemente il Card Bagnasco, una riflessione secolare. Dopo la Rerum Novarum di Leone XIII (15 Maggio 1891), “Pio XI, Giovanni XXIII, Paolo VI, il Beato Giovanni Paolo II hanno continuato con approfondimenti concentrici fino all’enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas in veritate, che rappresenta non solo il punto più aggiornato del Magistero sociale fino ad oggi, ma anche il riferimento più alto e profetico per leggere e poter traguardare con fiducia l’ inedita congiuntura mondiale.”

Quali sono i punti essenziali proposti dalla riflessione del pontefice e nei più importanti interventi sulle questioni economico-sociali? Mi riferisco, in particolare, al documento predisposto dal Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace” (Ottobre 2011) per il G20 di Cannes (“Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”) e alla Prolusione del Cardinale Bagnasco al Convegno Nazionale dei Direttori della Pastorale Sociale svolta il 25 Ottobre scorso a Rimini (“Educare al lavoro dignitoso. Quaranta anni di pastorale sociale in Italia”).



Senza essere esperto di cultura della Chiesa cattolica, a me pare che, per spiegare la rottura dell’equilibrio in essere nel trentennio alle nostre spalle, la riflessione di Benedetto XVI metta in discussione alla radice il paradigma liberista. Metta in discussione il primato dell’economia sulla politica. Metta in discussione la logica di funzionamento dell’ordine economico e sociale stratificatosi a partire dall’inizio degli anni ‘80. E, soprattutto, metta al centro della prospettiva una visione dell’uomo incompatibile con l’impianto dell’individualismo metodologico, ossia con la visione fondativa del liberismo.



Quali sono i pilastri del neo-liberismo con i quali fare i conti? Primo: l’economia fa da se e, quando servono regole, le fa da sola. Secondo e conseguente pilastro: meno regole uguale più sviluppo, in particolare, meno regole nel mercato del lavoro uguale più sviluppo. Terzo pilastro: l’economia tende sempre alla piena occupazione. Sono le interferenze della politica e della politica economica a portare il sistema fuori equilibrio. Tra le interferenze c’è il sindacato e le associazioni delle imprese, come ricordava qualche giorno fa il prof Giavazzi sul Corriere della Sera ed oggi ripete Dario Di Vico. Tra le interferenze c’è il contratto collettivo nazionale di lavoro che impedisce la riduzione dei salari nominali necessaria ad occupare quanti si offrono sul mercato del lavoro ma la soglia dei minimi contrattuali rende inutilizzabili a causa della loro scarsa produttività. Tra le interferenze c’è un diritto del lavoro che ancora assume una irriducibile asimmetria nei rapporti di forza sul mercato del lavoro e che, nella nostra Costituzione, ancora prevede qualche protezione per i lavoratori. Tra le interferenze può esserci una politica monetaria impegnata ad andare oltre il controllo diretto dell’inflazione oppure una politica di bilancio attratta da funzioni anti-cicliche. Tra le interferenze, infine, ci sono le politiche redistributive, la fiscalità progressiva, distorsiva della sempre ottimale allocazione delle risorse umane affidata alle dinamiche “naturali” dell’economia.

Sul piano filosofico, il liberismo propone l’uomo come individuo indifferenziato, concentrato a massimizzare la propria funzione di utilità. Soprattutto, il liberismo propone il bene comune come risultato meccanico dell’interazione degli individui nella dimensione economica.



In un passaggio del documento preparato per il G20 di Cannes è scritto che “Alla base delle disparità e delle distorsioni dello sviluppo capitalistico c’è, in gran parte, oltre all’ideologia del liberismo economico, l’ideologia utilitarista, ossia quella impostazione teorico-pratica per cui: «l’utile personale conduce al bene della comunità».” E continua qualche riga più avanti: “Negli anni venti del secolo scorso alcuni economisti avevano già messo in guardia dal dare eccessivamente credito, in assenza di regole e controlli, a quelle teorie oggi divenute ideologie e prassi dominanti a livello internazionale. Un effetto devastante di queste ideologie, soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso e i primi anni del nuovo secolo, è stato lo scoppio della crisi nella quale il mondo si trova tuttora immerso. Benedetto XVI, nella sua enciclica sociale, ha individuato in maniera precisa la radice di una crisi che non è solamente di natura economica e finanziaria, ma prima di tutto di natura morale, oltre che ideologica.”



Sono valutazioni impegnative, mi ha stupito non leggere commenti ad esse nel dibattito di politica economica degli ultimi mesi, soprattutto da quanti si considerano più attenti alle riflessioni del Pontefice. Sono valutazioni di rilevante portata politica. Infatti, data la logica di funzionamento dell’economia “riconosciuta” dal paradigma liberista, è evidente lo status ancillare della politica. Il bene comune non viene definito attraverso un compromesso democratico tra diverse visioni morali e diversi interessi materiali ad esse legati presenti nella polis. Il bene comune è il prodotto naturale delle forze economiche. È evidente, quindi, che la polis può essere governata al meglio dalla tecnocrazia.



È evidente che se il bene comune è il risultato della massimizzazione di utilità strettamente individuale, ossia di interazioni di individui senza legame sociale (“la società non esiste”, proclamava a metà degli anni ’80 miss Thatcher) la politica è strumentale all’economia. È evidente che la politica è sostanzialmente inutile o finanche dannosa perché introduce principi morali, ossia di inefficienza, nella fisiologia perfetta ma strettamente economica della società. È inevitabile, pertanto, la negazione alla radice dell’intervento pubblico a qualunque finalità. In particolare per correggere le disuguaglianze. È conseguente la predica, nonostante i risultati prodotti, della flat tax e della cancellazione della progressività. Non a caso, nei principi della Delega per la riforma del sistema fiscale predisposta dal Governo Berlusconi è assente il principio della progressività pur previsto nell’art 53 della nostra insuperabile Costituzione. Non a caso, il richiamo alla progressività era assente dal Disegno di Legge Delega per il federalismo fiscale, poi corretto da un emendamento voluto dal Partito Democratico.



La disuguaglianza secondo il principio liberista è prodotto esclusivo dell’impegno individuale e della dote naturale di ciascuno. Le condizioni familiari, sociali, territoriali, di genere non rilevano. La remunerazione di mercato senza distorsione di welfare o sindacali consente di riconoscere la produttività di ciascuno. Correggere la disuguaglianza implica perdere produttività, quindi ricchezza. Quindi, meno benessere per tutti, poiché l’altro assunto forte della matrice neo-liberista è la legge del trickle down: lasciate arricchire i più ricchi, in quanto più ricchi sono, evidentemente, i più produttivi. La torta aumenta e fette più ampie arrivano a tutti. Pertanto, è al di fuori di valutazioni di moralità la remunerazione del dott Marchionne che, nel 2011, soltanto per i capital gains su azioni Fiat riceve un reddito pari ai salari e agli stipendi dei “suoi” 5000 operai ed impiegati di Mirafiori.



Noi abbiamo una visione alternativa, radicalmente alternativa, ossia alternativa nelle sue radici filosofiche. La nostra visione radicalmente alternativa risuona nelle parole del Pontefice sintetizzate nel documento scritto per il G20 di Cannes: “L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento, non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona.” “Il pontefice –sottolinea il documento del Consiglio Giustizia e Pace- denuncia anche il ruolo svolto dall’utilitarismo e dall’individualismo, nonché le responsabilità di chi li ha assunti e diffusi come parametro per il comportamento ottimale di coloro – operatori economici e politici – che agiscono e interagiscono nel contesto sociale.”



Le conseguenze del trionfo liberista e degli interessi materiali ad esso sottostanti sono sotto gli occhi di tutti. Il primato dell’economia sulla politica ha portato al rattrappimento delle democrazie delle classi medie, non solo ad enormi disuguaglianze ed alla conseguente paralisi economica. Ha portato alla regressione delle condizioni del lavoro e allo svuotamento della civiltà del lavoro caratteristica di fondo dell’economia sociale di mercato.



È la regressione delle condizioni del lavoro e la conseguente disuguaglianza nella distribuzione del reddito, della ricchezza e delle opportunità di mobilità sociale la causa prioritaria della rottura dell’equilibrio dell’ultimo trentennio. La regressione del lavoro nel suo insieme, incluse le classi medie. È la regressione delle condizioni del 99% della società, come scritto sui cartelli portati in giro dai ragazzi e dalle ragazze di Occupy Wall Street a Zuccotti Park a Manhattan. [I dati sono inequivocabili. Nel 2007, la distribuzione del reddito negli Stati Uniti torna a coincidere con quella degli anni ’20 del secolo scorso, quella pre-New Deal. Nei 30 anni precedenti al crollo di Lehman Brothers, l’andamento dei redditi da lavoro delle classi medie americane è sostanzialmente piatto in termini reali. Non solo i lavoratori a bassa qualifica sono sempre più in affanno. Sono in affanno ampie porzioni delle classi medie, le lavoratrici ed i lavoratori diplomati e laureati, occupati a tempo pieno. Negli USA, ma il fenomeno ad intensità leggermente attenuata e comune a tutti i Paesi a capitalismo maturo, tra il 1979 ed il 2005, il reddito da lavoro dei diplomati occupati a tempo pieno, depurato dall'inflazione, ha una variazione media annua inferiore o pari a zero. Per i laureati, la performance è stata analoga. Nello stesso arco di tempo, la produttività negli Stati Uniti è aumentata, in media, di quasi il 2% all'anno. In sostanza, il reddito di un lavoratore diplomato che nel 1979 era di circa 30.000 dollari (a prezzi 2005) sarebbe dovuto arrivare a quasi 50.000 dollari nel 2005. Invece, è sceso a 25.000 dollari! Per un laureato, il reddito è rimasto sostanzialmente fermo. Dov’è è andata a finire la differenza? La differenza è finita ad alimentare i redditi da lavoro e da capitale del decile più ricco della forza lavoro. Anzi, è andata a moltiplicare la ricchezza dell’1% più ricco delle famiglie.] Raghuram Rajam, professore di finanza a Chicago, economista mainstream già a capo del Dipartimento Ricerca del Fondo Monetario Internazionale, nel suo ultimo libro “Fault lines”, ha calcolato che dal 1976 al 2007 per ogni dollaro di ricchezza reale prodotto negli Usa, 58 centesimi sono andati al percentile più ricco delle famiglie. Insomma, l’american dream per la stragrande maggioranza della famiglie è rimasto dream.

Data la stagnazione dei redditi da lavoro in un ambiente in rapida crescita (la ricchezza del Paese più che raddoppiava) come stupirsi se il debito delle famiglie degli Stati Uniti aumenta dal 40% del Pil all'inizio degli anni ‘70 ad oltre il 100% del Pil alla fine del 2007? Un'impennata dovuta non solo alla necessità di risorse per l'acquisto della casa. Una quota consistente del debito origina dalle carte di credito per il finanziamento dei consumi. Debito al consumo per dare alle classi medie miglioramenti dei loro stili di vita impossibili da conseguire o conservare dato l’andamento dei redditi da lavoro.

Degenerazione della finanza e polarizzazione nella distribuzione del reddito sono facce della stessa medaglia. Qualcuno avido di denaro ha offerto denaro senza scrupoli. Qualcun altro, però, ha dovuto domandare o è stato indotto a domandare. I subprime sono stati operazioni finanziarie irresponsabili. Però, hanno consentito a milioni di famiglie di comprare la casa di abitazione. Con la distribuzione del reddito caratteristica degli anni '60, le stesse famiglie avrebbero potuto permettersi mutui prime.



Oggi, il lavoro subisce rapporti di forza sfavorevoli come mai è stato nel secolo alle nostre spalle. Il capitale fa shopping globale di lavoro. Gli strumenti istituzionali, politici e sindacali per affermare il lavoro sono spuntati in quanto chiusi nello Stato nazionale. Così, in nome della possibilità di lavorare, le persone, prima che le organizzazioni sindacali, devono accettare ulteriore regressione delle condizioni del lavoro. Questa è la chiave per comprendere la vicenda Fiat e tante altre vicende, avvenute ovunque senza titoli di apertura dei media, nel ventennio alle nostre spalle. L’a.d. di Fiat-Chrysler fa il suo mestiere. Tuttavia, l’interesse legittimo della proprietà dell’impresa non è l’interesse generale. L’interesse dell’impresa diventa interesse generale quando è combinazione virtuosa di due interessi distinti: la proprietà dell’impresa ed il lavoro. È un patto, non è un atto unilaterale in nome di una modernità integralista.

Oggi, siamo di fronte ad una "emergenza giovani". Non solo precarietà, ma disoccupazione ed inoccupazione. Il bassissimo tasso di occupazione giovanile, riflesso di chi cerca lavoro e non lo trova e di chi non lo cerca più perché scoraggiato, deve diventare la nostra ossessione quotidiana. Le condizioni delle giovani generazioni sono drammatiche.

Tuttavia, ecco un punto rilevante di discussione tra di noi, i giovani sono l'area di sofferenza più acuta di uno smottamento che ha segnato l'insieme del variegato universo del lavoro del settore privato. Non soltanto le fasce più in basso, ma anche, ecco la novità economica e politica, la stragrande maggioranza delle classi medie. Il 90% dei lavoratori ha perso reddito e ricchezza a vantaggio del 10% più in alto.



L'interpretazione duale delle condizioni del lavoro non regge la prova dei dati di realtà. L'universo del lavoro del settore privato e, dopo l’ultima Legge di Stabilità, del lavoro pubblico, non é divisibile in figli precari e padri garantiti. I padri garantiti, se mai sono esistiti nel settore privato, sono estinti da tempo. I garantiti non sono i lavoratori con qualche residua ed illusoria tutela, come indicano le centinaia e centinaia di gravi crisi di grandi aziende. Ma, aree estese di rendita resistono tenacemente nell’economia. Lo dimostrano i dati vergognosi sulla mobilità sociale. Da noi, la metà dei figli eredita la posizione sociale ed economica della famiglia. Insomma, la principale linea di conflitto nelle nostre società è sociale, prima che generazionale. Il vento del cambiamento deve portare concorrenza e merito.

Allora, per rispondere davvero alle sempre più angosciate domande di futuro delle generazioni più giovani dobbiamo affrontare il nodo del sentiero di sviluppo e dell’ordine sociale promosso dalle politiche liberiste per un trentennio. Per rispondere alle aspettative delle giovani generazioni dobbiamo alzare lo sguardo.



La nostra sfida è valorizzare il lavoro come fonte di identità della persona e fondamento della democrazia. La nostra sfida è il “senso del lavoro”. “Il lavoro come questione di senso”, secondo il titolo di una bella raccolta di saggi curata da Francesco Totaro. La nostra stella polare è l'art 1, l'art 3 e l’art 4 della prima parte della nostra Costituzione. Il lavoro inteso nella sua generalità. Innanzitutto, l’anello più debole della catena, l’area sociale che più ha sofferto l’offensiva liberista: il lavoro subordinato, in tutte le sue forme esplicite o coperte dal contratto a progetto o dalla Partita Iva. Poi, il lavoro autonomo vero. Il lavoro professionale. Il lavoro dell'imprenditore datore di lavoro.



La nostra sfida è per la dignità del lavoro, decent work secondo il lessico dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Anche qui, la Caritas in veritate offre spunti interessanti di riflessione nell’interpretazione dell’aggettivo “decente” riferito al lavoro: “Che cosa significa la parola “decenza” applicata al lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli senza che questi siano essi stessi costretti a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare, e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 63). Si può conciliare il lavoro decente di Benedetto XVI con la modernità unidimensionale e deterministica narrata dall’a.d. della Fiat o con l’ “antropologia positiva” e la “Big society” sventolata dall’ex Ministro Sacconi e dai conservatori alla moda?



La fine della finanza facile ha messo a nudo le conseguenze economiche della regressione delle condizioni del lavoro e la drammaticità di una inedita questione sociale, sempre più intrecciata ad una rischiosa questione democratica. Il documento del Consiglio Pontificio Giustizia e Pace affronta il nodo: “Per interpretare con lucidità l’attuale nuova questione sociale, occorre senz’altro evitare l’errore, figlio anch’esso dell’ideologia neoliberista, di ritenere che i problemi da affrontare siano di ordine esclusivamente tecnico. Come tali, essi sfuggirebbero alla necessità di un discernimento e di una valutazione di tipo etico. Ebbene, l’enciclica di Benedetto XVI mette in guardia contro i pericoli dell’ideologia della tecnocrazia, ossia di quell’assolutizzazione della tecnica che «tende a produrre un’incapacità di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia» ed a minimizzare il valore delle scelte dell’individuo umano concreto che opera nel sistema economico-finanziario, riducendole a mere variabili tecniche. La chiusura ad un «oltre», inteso come un di più rispetto alla tecnica, non solo rende impossibile trovare soluzioni adeguate per i problemi, ma impoverisce sempre più, sul piano materiale e morale, le principali vittime della crisi.”



La “nuova questione sociale” è impossibile da affrontare senza andare “oltre” il paradigma liberista e senza assumere una visione radicalmente alternativa dell’uomo, inteso non più come monade che massimizza la propria utilità individuale, ma come persona e, in particolare, persona che lavora. Come chiariscono Bockenforde e Bazoli in “Chiesa e capitalismo”, il principio di solidarietà, decisivo per affermare l’antropologia della persona, non può essere principio correttivo di una logica di funzionamento esclusivamente fondata sul principio dell’individualismo proprietario. Il principio di solidarietà deve essere principio ordinante, definitorio. Per essere tale, non si può affermare secondo una logica auto correttiva, alimentata da una spinta morale o, almeno, non soltanto. È necessaria la ricostruzione di una eticamente autonoma funzione e posizione del lavoro. È necessaria una soggettività politica culturalmente autonoma del lavoro.





Attenzione l’innovazione lessicale segnala una discontinuità culturale decisiva. La persona che lavora non è sul piano culturale ed etico il lavoratore o la lavoratrice. Qui si compie un’evoluzione rispetto alla tradizione socialista, socialdemocratica, laburista del movimento operaio. Un ventaglio di tradizioni decisive per l’emancipazione dell’uomo nel corso del ‘900, ma un ventaglio di tradizioni concentrate sulle relazioni economiche e sociali della persona, non sulla sua irriducibile unicità. Era la “classe operaia”, l’ “operaio massa”, l’aggregato sociale di riferimento. Non la persona che lavora.

Il Cardinale Bagnasco a Rimini a fine ottobre ha posto con una certa ruvidità, ma chiarezza, il punto. Il riferimento diretto è stato al “socialismo reale”, ma la valutazione era a valenza generale. “Com’è noto –scrive il Card. Bagnasco- l’errore fondamentale del socialismo non è stato innanzitutto di carattere economico, ma antropologico. Non è stata la decrepitezza economica o una modernizzazione ritardata ad essere la causa primaria della sua fine, ma la negazione della verità sull’uomo. Se la persona non è riducibile a molecola della società e dello Stato, il bene del singolo non può essere del tutto subordinato al meccanismo economico-sociale, né è possibile pretendere che il bene economico si possa realizzare prescindendo dalla responsabilità individuale. L’uomo sarebbe ridotto ad una serie di relazioni economiche, e scomparirebbe la persona come soggetto autonomo di decisione morale. Ma è proprio grazie all’esercizio della moralità – cioè il suo agire libero e responsabile – che la persona costruisce la giustizia e quindi l’ordine sociale. Questo errore genetico del socialismo è proprio anche del consumismo e quindi della nostra civiltà, che sembra essere malata di questo morbo che, se non corretto, la porta alla decadenza.”



Il Cardinale Bagnasco ribadisce “il primato dell’uomo sul lavoro e il primato del lavoro sul capitale” e coglie una contraddizione vera nell’impianto culturale ed etico di matrice socialista. Tuttavia, le tradizioni socialista, socialdemocratica e laburista non possono essere liquidate come uno sfortunato e sgradevole incidente del “secolo breve”. Sono state, nell’Europa occidentale, motori di progresso, di civilizzazione del lavoro e di costruzione delle democrazie effettive. Hanno colto la rilevanza della dimensione economica e sociale nella definizione della persona, dell’effettività dei suoi diritti e delle sue libertà. Hanno ecceduto in determinismo economicistico. Ma gli squilibri nella dimensione economico-sociale non possono essere rimossi. La presenza di interessi materiali diversi nella società delle persone non può essere ignorata.



Assunta tale discontinuità etica, mettere al centro dell’identità culturale e politica del Pd il lavoro inteso come attività della persona che lavora non è ritorno indietro, è sguardo al futuro. È la via maestra, anzi, l’unica via possibile per costruire il Pd come partito a vocazione maggioritaria.



Valorizzare la persona che lavora è condizione per promuovere lo sviluppo sostenibile, per l’affermare un’idea di sviluppo inteso come promozione dei beni comuni e dei consumi di cittadinanza. Qualità del lavoro e qualità dello sviluppo sono le due facce della stessa medaglia. Valorizzare la persona che lavora è condizione per segnare in senso progressivo la transizione in corso e rivitalizzare le democrazie delle classi medie e, così, uscire dal tunnel buio della recessione.



L'impianto culturale della nostra posizione sul lavoro, la posizione proposta alla Conferenza per il lavoro a Genova a Giugno scorso e alla recente Conferenza per il lavoro autonomo e la micro e piccola impresa a Monza settimana scorsa, è incentrato sul rapporto persona-lavoro-democrazia. Sarebbe stata una scelta impossibile da fare senza il contributo della pluralità di culture presenti nel Pd. Di tutte le culture presenti nel Pd. L'amalgama qui pare riuscire.



Allora qui sta la sfida affascinante per il Pd, per ciascuno di noi. Possiamo mettere al centro della nostra visione la persona che lavora, come nella tradizione del cattolicesimo sociale, senza perdere l’attenzione alle asimmetriche relazioni economiche e sociali al centro delle culture socialista e laburista? Possiamo partire dal paradigma del “neo-umanesimo integrale” e provare a costruire il profilo culturale e programmatico del Pd lungo il sentiero da esplorare di un neo-umanesimo laburista?



In conclusione, formulo la domanda centrale: il neo-umanesimo laburista può essere una traiettoria di ricerca culturale e politica, prima che programmatica, lungo la quale costruire l’identità del Pd e la tessitura di una inedita alleanza sociale, di uomini e donne, di soggetti ed interessi, sia a livello nazionale, sia a livello europeo e globale?



Stefano Fassina, Roma, 29 Novembre 2011



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