sabato 11 giugno 2011

Stefano Rolando: Paese a pezzi

Il Riformista, 11 giugno 2011
Paese a pezzi. Un’ipotesi nuova dal laboratorio Milano
Stefano Rolando

Il quadro di logoramento del governo Berlusconi non deve far prendere lucciole per lanterne. Il governo che c’è – per appuntamenti parlamentari decisivi – ha la maggioranza. Quando si parla di scenario nazionale poco è cambiato rispetto alle dominanti degli ultimi due anni. La fotografia del logoramento è stata fatta dall’ambigua performance dei “servi del Cav”, condotta con eccesso di protagonismo e scarsa valutazione della percezione autodistruttiva in un centro-destra a corto di reputazione che ha mal vissuto questa inutile scossa energetica. La quale ha detto al popolo della destra che le critiche svolte da Fini all’origine della crisi politica di questo governo erano vere. In pari passo un segnale di cambiamento è venuto nel centro-sinistra. Le formule vincenti diverse a Torino, Milano, Trieste, Bologna e Napoli non autorizzano la spinta egemonica che il PD voleva ma consegnano tratti di una sinistra plurale alla quale Bersani sembra adattarsi con astuzia ma che lasciano sopiti problemi di linea, leadership e priorità nell’agenda politica. Un po’ di tempo, insomma, serve a tutti. Ed è in questo tempo che va compresa l’evoluzione contraddittoria della politica italiana. Un’evoluzione che – per dirla con una dominante – avvera la profezia di Giorgio Ruffolo sul “paese troppo lungo” a rischio di spezzarsi. Probabilmente riconsegnandoci oggi una condizione di spaccatura più marcata di sei mesi fa. Il sud ha perso i contatti con il sistema nazionale dei partiti. Tra cacicchi e vendicatori, autonomismi e giustizialismi, antileghismi e localismi, sta preparando una mappa in cui prevalgono formazioni su misura generate da poteri locali. Quanto poi queste formazioni risentano di autonomie da tutto e da collusioni con poteri sociali ed economici inquinati potrebbe apparire da analisi più approfondite dei diversi contesti. Insomma il sud risponde sempre meno a Roma. Anche il nord prende le distanze da Roma. Qui i partiti con radicamento nazionale resistono a metà. Per l’altra metà – Milano ma anche Trieste o Bologna – vanno a patti con un “risveglio sociale” caratterizzato da sistemi professionali, imprenditoriali e culturali indisponibili a vedere le istituzioni occupate da partiti con classi dirigenti non all’altezza. Una reattività che mette anche in difficoltà la Lega che pure – dice Giuseppe De Rita – ha svolto da sola compiti di “sindacato del territorio” trasferendo consensi e voti da destra e da sinistra, ma che in questa tornata perde diffusamente. E che obbliga i partiti con riferimenti nazionali a inedite mezzadrie di potere, salvo vedere che poi quei “presidi sociali” abbiano tenuta civile e politica, cosa per nulla certa. Imprenditori, borghesi e cattolici (si, sulla scena ora in quanto tali) schierano eserciti bi-fronti, con varianti di centro-destra e centro-sinistra che dimostrano appunto la sfiducia circa il fatto che i due schieramenti politici da soli sappiano affrontare e risolvere problemi della casa comune.
Nord e sud sembrano tuttavia illeggibili dai soggetti della connessione nazionale che agiscono nella capitale. Il governo – da sempre il principale di questi soggetti – per le citate ragioni di consunzione e per quella condizione autoreferenziale che i giornali che lo fiancheggiano ora dichiarano come un dramma pressoché irreversibile. La Confindustria che non esprime più una proposta economica di sistema, capace di indirizzare ceti produttivi non solo verso gli affari ma anche verso un quadro di responsabilità organiche mentre la definitiva fuoriuscita di Fiat – magari chiarificatrice – arriva come segno di ulteriore indebolimento. La Rai (da non sottovalutare come soggetto della connessione, soprattutto nei processi di rappresentazione generale identitaria) che ha mostrato il peggio in questi anni, a causa di un management (consiglio compreso) pensato per controllare e non per progettare. Resterebbe la Conferenza episcopale italiana che ha, tra tutti, il maggior controllo del contesto nazionale, esercitando tuttavia la sua influenza sostanziale su temi che investono poco il rapporto tra poteri strutturali. La provvidenza vuole che la guida di Bagnasco renda più prudente il vagheggiamento dell’ipotesi – più evidente con Ruini, in questo contesto – che tutto si risolverebbe rifacendo la DC. Ora, per il peso che ha la città nell’economia nazionale, nelle relazioni con l’Europa, nella composizione sociale con meridionali e immigrati, nell’attrazione degli investimenti, nella produzione culturale e mediatica, la situazione di Milano ha – in questo quadro – maggiore responsabilità nazionale. Se il carattere di laboratorio (patto tra politica e società, patto tra sinistra plurale e centro antiberlusconiano, patto tra possibile welfare e finanza civica per sostenere lo sviluppo) riuscirà a delinearsi e a stabilizzare il profilo “riformista” che Pisapia ha sommariamente annunciato nel giorno del successo elettorale, Milano anziché subire il degrado nazionale potrebbe avanzare utili ipotesi.

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