Umiliati e arrabbiati
• da La Repubblica del 4 marzo 2009, pag. 1
di Luciano Gallino
Repubblica.it ha svelato il Paese dei senza lavoro, un pezzo d´Italia che diventa sempre più grande e disperato. Le persone che raccontano le loro esperienze di senza lavoro rientrano abbastanza chiaramente in due gruppi diversi. Ci sono quelle ancora giovani, al massimo trentacinquenni, che si interrogano sul perché il mondo della produzione non riesce più a trovar loro un´occupazione; e quelle sui 45-50 anni e oltre, le quali hanno compreso che per lo stesso mondo sono ormai troppo anziane.
Del primo gruppo colpisce soprattutto il fatto che i titoli di studio elevati sembrano servire poco per trovare o mantenere un posto di lavoro qualificato, coerente con gli studi fatti. Hanno due o tre lauree, un paio di master, tre o quattro specializzazioni, significative permanenze all´estero. Speravano di far ricerca in aziende di alto profilo, quelle da cui escono le invenzioni che cambiano il mondo e migliorano la vita. Contavano di guadagnare bene e di fare prima o poi un figlio. Oppure di dedicarsi all´insegnamento. Invece si ritrovano a fare il garzone di cucina in un fast food, la badante o l´addetto alle pulizie sui vagoni delle ferrovie. Con paghe effettive da 6 euro l´ora, quando va bene 800 al mese. Naturalmente con un contratto a breve scadenza. Che alla scadenza non viene rinnovato. Con la precisazione, se si tratta di una donna, che non si può rinnovare il contratto a una che potrebbe addirittura fare un figlio. Esperienze ripetute per tre, cinque, dieci anni. Fino a quando non ci si arrende, e si ritorna a casa dai genitori, senza soldi e senza figli, portando con sé il senso di una sconfitta di cui non si ha colpa, ma che pare irrimediabile. Non è un paese per giovani, l´Italia.
Non è nemmeno un paese per vecchi; laddove vecchio, aziendalmente parlando, significa aver passato i quaranta. In questo secondo gruppo i disoccupati che si raccontano sono in prevalenza dirigenti d´azienda, funzionari della PA, tecnici con una lunga pratica di laboratorio, esperti di informatica. Rappresentano un patrimonio immenso di conoscenze, competenze professionali, abilità accumulate in decenni di lavoro. Però alle imprese non servono più. Perché ai tempi della crisi l´impresa deve dimagrire, cioè tagliare posti, e ovviamente preferisce tenersi i dipendenti più giovani. Oppure perché progetta di trasferirsi da Catania a Belluno, o da Novara a Tallin, e una che ha cinquant´anni, due figli studenti e un padre in cattiva salute magari non è troppo disponibile al trasloco. O semplicemente perché la settimana prossima l´impresa chiude, come ha deciso il proprietario che risiede non si sa bene dove, in Irlanda o in Brasile.
Di conseguenza la dirigente o il tecnico con decenni di prezioso sapere professionale, o l´amministratore che maneggiava miliardi, cominciano a spedire curricula in giro. Decine alla settimana. Centinaia al mese. Con i titoli di studio in evidenza, la carriera in aziende di primo piano, i risultati eccellenti della propria attività. In generale non ricevono nemmeno risposta. Nessun Direttore per le Risorse Umane prende oggi in conto l´assunzione di una persona che oltre ad avere già superato i 45 o i 50 anni, si è pure fatta licenziare.
Un paio di elementi accomunano i due gruppi dei disoccupati più e meno giovani. Il primo è il senso di umiliazione che traspira dai loro scritti, di ingiustizia gratuitamente subita. In una società in cui la sopravvivenza stessa dipende dal lavoro che si fa, ovvero dal reddito che ad esso è collegato, venir privati del lavoro o non riuscire trovarlo, non per demerito proprio ma per incomprensibili vicende dell´economia, è la peggiore offesa che possa colpire un essere umano. Lo rode nel profondo, ferisce la sua stima di sé, pesa sui rapporti con il prossimo. Molti di questi racconti trasmettono con dolente vivezza questo senso di offesa.
L´altro elemento in comune è il risentimento, se non la rabbia, verso chiunque svolga un ruolo in campo economico. La politica, il governo, i partiti, la pubblica amministrazione, gli enti locali, le imprese grandi e piccole, i singoli imprenditori, i manager, lo stato: tutti sono oggetto di sprezzanti giudizi. E´ vero, non si tratta d´un campione rappresentativo, a fronte dei milioni che si trovano in condizioni simili. Ma chi sottovalutasse il significato sociale e politico di questi racconti di ordinaria disoccupazione commetterebbe un madornale errore.
1 commento:
La mattina del 4 marzo è apparso su la Repubblica un articolo a firma del sociologo Luciano Gallino titolato, “umiliati e arrabbiati”, dove umiliati e arrabbiati, per lo studioso formatosi nell’Olivetti di Adriano, sono i cittadini a cui, quando va bene, viene proposto un lavoro sempre più precario e sempre più spinto al limitare di un vero e proprio sfruttamento. Giunti a sera dello stesso giorno, ospitato nel salone della Camera del Lavoro in via XXIV maggio, che la CGIL piacentina ha voluto dedicare a Nelson Mandela, si è concluso un ciclo di incontri che l’associazione politico culturale “cittàcomune” ha dedicato al “lavoro nella crisi globale”. La serata ha visto la proiezione del film documentario di Francesca Comencini “In fabbrica”, costruito avvalendosi anche di materiale cercato e trovato in diversi archivi; quello audiovisivo del movimento operaio democratico, nell’archivio nazionale del cinema d’impresa di Ivrea e nelle teche Rai. Nelle note di regia si leggono queste parole della Comencini: “Ho fatto questa ricerca negli archivi cercando di non essere animata dalla nostalgia. Secondo me la nostalgia è un’ossessione, un rovello (..) è il contrario della memoria. La nostalgia è un modo di scagliare il passato contro il presente. (…) ha a che vedere proprio con le fabbriche, (…) .Credo che sia giusto guardare al passato ma che si debba cessare di rimpiangerlo.” Sono in totale sintonia con queste parole. Come non mai oggi, sotto il peso di una crisi che ci viene spacciata come frutto del caso cinico e baro, e peggio, come conseguenza di grossolane manipolazioni e volgari mistificazioni, prima fra tutte quella per cui sarebbero i lavoratori stranieri a portare con sé la crisi, quando è di tutta evidenza che è proprio sul loro sfruttamento che al contrario, se ne contengono gli effetti. È lo stesso identico sfruttamento rappresentato con lucida efficacia dalla Comencini, che con il suo film ha scelto di mostrare l’ “orgoglio operaio” sorto dal riscatto di una precedente vita miserabile, ma troppo presto ristretto dentro i confini di un alienante benessere materiale, in cambio del quale, a partire da quella marcia dei quarantamila al centro dell’altro film proiettato nell’ambito dell’iniziativa di “cittacomune”, “La signorina effe”, si è barattato quella fondamentale integrazione fra vita e lavoro, che all’inizio degli anni settanta si era cominciato ad edificare, processo di integrazione fra vita e lavoro che dieci anni dopo, appunto nel 1980, si è di fatto arrestato per non riprendere più. Al boom economico avrebbe dovuto seguire un boom culturale, e si è invece attivato un processo di analfabetismo di ritorno, per nulla casuale, capace di istruire diplomati e laureati (comunque molti di meno della media europea), ma ai quali nessuno chiede di saper usare la lingua parlata e scritta per affermare la propria dignità di persona; un processo pensato per formare lavoratori (operai e impiegati non fa più quella gran differenza), a cui oggi si chiede di essere super specializzati, super flessibili, a cui in cambio si è data la TV a colori e il cellulare, la possibilità di sentirsi buoni telefonando a Telethon o infilando abiti smessi in un contenitore della Caritas, ma a cui contemporaneamente si è “fatto dono” di un bassissimo grado di cultura, capace di determinare in larghissime fasce di cittadini italiani, una intima vocazione alla paura e all’egoismo. C’è stato un tempo in cui si è creduto che la formazione dovesse essere permanente, che la cultura dovesse tracimare oltre le mura della scuola pubblica per rientrarvi vieppiù arricchita (mi viene alla mente il Nilo che nell’antico Egitto con le sue piene rendeva fertile la sua valle), si era pensato di aprire cunicoli che mettessero in comunicazione il mondo del lavoro, con il mondo della scuola, e penso a quel primo piccolo cunicolo che abbiamo chiamato “150 ore”. E pensare che erano tempi in cui le imprese investivano già di loro in formazione (quando sono entrato in Olivetti nel 1970 si facevano corsi anche di 11 settimane, quando ne sono uscito i più lunghi duravano tre giorni). A partire dagli anni ’80 di “permanente” nella formazione ne è rimasta solo una falsa eco, e sempre più permanente la corruttela, che è cresciuta attorno all’utilizzo di finanziamenti per corsi pensati come gusci vuoti di conoscenza. Le 150 ore, sono ancora formalmente disponibili, l’art. 10 della legge 300/70, quella conosciuta come “Statuto dei diritti dei lavoratori” e da troppi pensata oggi come un coacervo di lacci e lacci(u)oli, non è ancora stato abrogato, ma sono rimasto particolarmente colpito dalla lettura delle condizioni previste oggi nella domanda di accesso al diritto di usufruirne, dove fra l’altro appunto si legge che, “in caso di eccedenza del limite numerico del 3%, sarà necessario provvedere a stilare una graduatoria, in base ai seguenti criteri di priorità: 1) frequenza di corsi finalizzati al conseguimento del titolo di studio proprio della qualifica di appartenenza; [2),3),4),5), ….] .. 6) anzianità di servizio; 7) età.” Illuminante davvero, il diritto allo studio che doveva ampliare le conoscenze e a far crescere la personalità di un individuo, oggi quando va bene è riservato in primis al conseguimento del “pezzo di carta”, e in “ultimus” (mi sia concesso un autoironico e amaro uso del latino maccheronico), condizionato dall’età, quella per cui in questo paese si è sistematicamente o troppo giovani o troppo vecchi. Per chiudere con una nota di ottimismo di cui vengo considerato scarso portatore, voglio ricordare che “crisi” è una parola il cui significato originario non è del tutto negativo, anzi, ricordo che in greco “krísis” significa “scelta, decisione”. La parte migliore di questo paese si trova oggi dinnanzi ad una scelta da compiere ad una decisione da incarnare, quella di riprendere il cammino da là, dove era arrivata la marcia dei quarantamila alla Fiat. Perché per dirla con forzata sinteticità, in quel punto si è interrotta la crescita morale e culturale del paese, ed è cominciata la marcia trionfale di quella “P2” che è oggi arrivata sino al suo Governo. Se la crisi che attraversiamo non servirà almeno a ricominciare quel cammino interrotto, a mio parere la cosa avrà una sola spiegazione, che il trentennio passato, checché se ne blateri, ha inciso negativamente sull’Italia di più, dello schifoso ventennio fascista.
Vittorio Melandri
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