Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
domenica 30 settembre 2012
Felice Besostri: I socialisti e le primarie
I SOCIALISTI E LE PRIMARIE:UNA PROPOSTA UNITARIA
Da Bruxelles il segretario del PSI, compagno Nencini, che ha sempre la mia
ammirazione e il mio rispetto per aver assunto l'onere di guidare il PSI, anche
se raramente sono stato d'accordo politicamente con lui, ha annunciato che alle
Primarie il PSI avrebbe sostenuto Bersani. Una posizione legittima e
probabilmente maggioritaria nel Partito, forse addirittura unanime se le
primarie fossero ad un turno: Renzi rappresenta un'opzione centrista di
continuismo con la politica impopolare del montismo, oltre che essere un
antisocialista viscerale. Avrei preferito che in omaggio allo Statuto, che
avesse dichiarato che avrebbe proposto alla Direzione convocata per il 4
ottobre di sostenere Bersani. Molto prima avevo predisposto un documento che
proponeva che si riunisse l'area socialista che comprende il PSI, ma che non si
esaurisce nel PSI per discutere se fosse opportuna una candidatura socialista
alle primarie. Tutte le opzioni restano aperte. Il PSI, come unico membro
italiano del PSE ( pur temporaneamente sospeso dal diritto di voto) e
dell'Internazionale socialista ha il compito di favorire l'aggregazione di
tutti quei socialisti, che hanno in comune l'obiettivo di costruire anche in
Italia il Socialismo Europeo. Se a riunione era aperta sarebbe stato meglio, ma
credo che il PSI sia in grado di motivare la sua scelta di sostenere Bersani,
che nel PD rappresenta la posizione più in sintonia con un'opzione
socialdemocratica, e quindi di convincere le altre sensibilità socialiste. In
questo senso e con questo spirito mantengo il documento aperto a sottoscrizioni
e integrazioni. Segue il testo:
Le Primarie e i Socialisti
Nelle nostre file, e con questo intendo l’area socialista larga - di cui il
PSI è parte essenziale (appartiene al PSE e all'Internazionale Socialista) e
imprescindibile ma che non la esaurisce -, ci sono atteggiamenti molto
differenziati sulle primarie, compreso un rifiuto di principio.
In effetti, gli istituti provenienti da altri ordinamenti politici e
costituzionali sono come gli organi in caso di trapianto: spesso non
compatibili. Tuttavia, stanno segnando profondamente questa fase politica e si
proietteranno sull'intero periodo che ci separa dalle elezioni del 2013.
Non si conosce ancora la legge elettorale e soltanto con il porcellum ha un
senso l’indicazione del capo della lista o della coalizione come virtuale
futuro Primo Ministro, come se di fatto non esistessero le prerogative
presidenziali fissate dall'art. 92 della Costituzione.
L’indicazione del futuro Premier è poi legata all'abnorme premio di
maggioranza, svincolato da ogni soglia in voti e seggi e perciò di dubbia
costituzionalità (Corte Costituzionale sentenze n.15 e 16 del 2008). Per
completare il desolante quadro istituzionale, non si conoscono le regole delle
primarie e neppure chi le debba adottare.
Sono partite come primarie di coalizione per individuare il miglior candidato
di un centro-sinistra, ma sono diventate, di fatto, una contesa per la
leadership del PD, partito che ha finora espresso almeno 5/6 candidati, di cui
uno, il Sindaco di Firenze , nella veste di sfidante ufficiale.
Non importa che un sindaco sia ineleggibile: per fare il primo Ministro non
occorre essere parlamentari (se hai l’età giusta ti possono sempre fare
senatore a vita) e, a legge elettorale invariata, per essere indicato come capo
della lista o coalizione non è necessario essere candidati alla Camera o al
Senato.
Non si sa se saranno primarie aperte ai passanti o a truppe cammellate, ovvero
a elettori registrati come votanti del centro-sinistra, come prevedrebbe l’
istituto originale, che è statunitense e non sovietico.
Non si sa se saranno a uno o a due turni, pur essendo il fatto decisivo per i
comportamenti elettorali.
Ebbene, malgrado tutte queste premesse, sono un fatto politico, e un fatto
politico rilevante che non può essere ignorato se si ha un ruolo da giocare o
uno spazio da conquistare.
Tutti concordano nell'esistenza di una dimensione europea prevalente, tanto
che ci si fanno scrivere lettere dall'Europa.
Tutti sanno che non c’è una soluzione nazionale alla crisi, se vogliamo stare
nella zona Euro e contrastare le speculazioni dei mercati: speculazioni, tra l’
altro, le cui regole possono essere date soltanto a livello internazionale,
neppure solo europeo, ma almeno atlantico, dal nome dell’oceano che divide la
borsa di Londra da quella di Wall Street e la Fiat dalla Chrysler.
Eppure, l’integrazione del sistema politico italiano in quello europeo è
scarsa. Nel PPE stanno partiti in competizione tra loro in Italia e nel PSE sta
il solo PSI, mentre PD e SEL ne sono formalmente fuori, benché il problema non
sia quello di un’affiliazione, ma di riconoscersi pienamente in una storia e in
un sistema di valori, quello del socialismo democratico, verso il quale la
sinistra italiana, eccezione nel panorama europeo, appare avere una certa
idiosincrasia o essere particolarmente allergica.
Nei gruppi dirigenti di PD e SEL, i loro stati maggiori, la presenza
socialista non c’è e comunque non è visibile o percepibile nelle proposte
programmatiche. Questo vuoto va colmato nell’interesse del Centro-sinistra che
nel raccordo con il fronte progressista e di sinistra europeo,
maggioritariamente rappresentato dai partiti del PSE, deve avere uno dei suoi
punti di forza.
Se si impongono questi temi e riflessioni, l’area socialista italiana ha molto
di più da dire delle semplici proposte di rottamazione di una classe politica,
che ormai è concepita come composta da tanti Lusi, Belsito e Fiorito.
L’offensiva neo-liberista ha come obiettivo la destrutturazione del welfare
state , un modello di economia sociale di mercato, sul quale si fonda la
coesione sociale: chi la può contrastare a livello continentale se non quelle
forze che l’hanno conquistata in un secolo di lotte politiche, sindacali e
sociali, e in unione con loro?
Portare questo messaggio, cioè la necessità di una scomposizione e
ricomposizione della sinistra nel segno di un diverso e più ugualitario modello
di sviluppo, ecologicamente compatibile e come attuazione del titolo III
Rapporti economici della Parte Prima della Costituzione, sarebbe la prova della
forza rivoluzionaria di un riformismo determinato e intransigente.
Nenni ci ricordava sempre che le idee camminano sulle gambe degli uomini e
quindi dovremmo, come socialisti nell'accezione più ampia, dovunque ci troviamo
o siamo stati, chiederci se è opportuno che un esponente socialista sia
candidato alle Primarie del centro- sinistra. Una decisione in tal senso
presuppone un riavvicinamento tra le varie anime del mondo socialista, nella
consapevolezza che bisogna unire chi lo è stato, chi lo è, ma soprattutto chi
lo vorrà essere in futuro, per sempre, für ewig.
La ricomposizione e il rinnovamento non sono riusciti con la Costituente
Socialista, anzi, ne è seguita una spirale di reciproca delegittimazione. È il
momento di invertire la rotta.
Se saremo capaci di decidere insieme sulla presenza socialista nelle Primarie,
sarà poi più semplice individuare le procedure per l’individuazione del
candidato, che per qualità politiche, integrità personale e capacità di
suscitare consenso nell'opinione pubblica possa rappresentare al meglio una
storia e valori, la cui scarsa presenza ha indebolito la sinistra italiana. La
questione socialista non è la questione del destino personale dei socialisti,
ma di quello politico della sinistra italiana nel suo complesso, compresa
quella che non ne ha ancora preso coscienza.
24 settembre 2012
Vittorio Melandri: Il grande assente
IL GRANDE ASSENTE
Mi ripeto, sono un lettore ed estimatore di Eugenio Scalfari da almeno quarant’anni, ma nel mio piccolo piccolo, sono fieramente contrario a qualsiasi tipologia di “culto della personalità”, ed ho la fortuna di non essere mai stato in vita mia “tri-nariciuto”, ergo chiedo non mi venga rimproverato di “avercela” con “Barbapapà-Scalfari”, se da qualche tempo a questa parte, la lettura dei suoi “domenicali”, mi fa sobbalzare di delusione e qualche volta di mesta delusione, come in questo ultimo caso.
Oggi 30 settembre 2012 il “Comandante Eugenio” chiude il suo pezzo con il seguente “coming-out”:
“Io sono liberale di sinistra per mia formazione culturale. Ho votato per molti anni per il partito di Ugo La Malfa. Poi ho votato il Pci di Berlinguer, il Pds, i Ds e il Pd.”
Or bene, al “nostro” è capitato di essere eletto Consigliere comunale a Milano nel 1963 nelle fila del PSI, e poi risulta eletto Deputato della V legislatura, quella che si consumò fra il 1968 ed il 1972, periodo durante il quale arrivò a termine la cosiddetta “unificazione socialista”, che aveva preso avvio nel 1966 ed era stata salutata su l’Espresso, sempre dal “nostro Eugenio”, con un articolo uscito il 30 ottobre 1966 dal titolo…..
NASCE IL TERZO GRANDE
Che così iniziava ….
“Roma. Si compie domenica prossima, con la riunione della Costituente socialista, un processo politico che ebbe inizio molti anni fa e che ha trovato finalmente il logico sbocco.”
E che così si concludeva …
“Comincia oggi una nuova impresa politica che richiede impegno, spirito di sacrificio, lunga lena ed alte ambizioni. Dopo tanti anni di sconfitte e di sbandamenti, la sinistra italiana incontra di nuovo la grande occasione.”
Non riesco a capire se l’indipendente Scalfari (non mi risulta abbia mai preso la tessera di alcun partito) sia stato eletto nelle fila del PSI senza votarsi, per estrema coerenza, e quindi sia in linea con il suo “coming-out” odierno, oppure abbia dei blocchi “freudiani” che gli impediscano di ricordarsene, oppure ancora, che ...
…. “dopo tanti anni di sconfitte e di sbandamenti della sinistra italiana, che anche con l’aiuto degli 'Scalfari', tutte le grande occasioni incontrate le ha lasciate passare, …… essendo a sua volta passato dal socialismo liberale di un tempo, al comunismo dimenticato dei Napolitano e dei D’Alema, nonché al vuoto pragmatico ed emiliano dei Bersani, il tutto in salsa liberista alla Monti”….
….ricordarsi che in Italia il GRANDE ASSENTE (altro che GRANDE TERZO), anche per colpa grave dei socialisti, è appunto il…… SOCIALISMO”.....
.... forse gli turba il mirabile equilibrio che con l’età e la ‘gloria-meridiana’ ha raggiunto.
sabato 29 settembre 2012
Felice Besostri: Il filo nero
Lo scandalo dei fondi consiliari del Lazio non è un episodio di immoralità personale, ma diretta conseguenza di riforme istituzionali e di sistema politico ed elettorale:rafforzamento degli esecutivi a scapito degli organi assembleari, elezioni/designazioni dirette, svuotamento dei partiti politici, ruolo dei tecnici, servitori di due padroni(pubblico e privato) in società complesse. La fine della democrazia rappresentativa sarà la conseguenza obiettiva, perché voluta. La sua sostituzione con i mercati, le indagini demoscopiche, i referendum, i plebisciti, le votazioni online e le mobilitazioni di piazza( "indignados", "no-global", "no tav") è una tendenza in crescita. Il tutto con la complicità di una casta politica destinata a essere travolta dallo tsunami dell'anti-politica, alla cui testa, però, ci saranno politici riciclati e/o di nuova generazione mediatica, travestiti da rottamatori e vaffanculisti. Non limitiamoci alla cronaca, ma ragioniamoci sopra.
venerdì 28 settembre 2012
Pierpaolo Pecchiari: Sulla delibera Sea-Serravalle
Sulla delibera SEA-Serravalle.
pubblicata da Pierpaolo Pecchiari il giorno Venerdì 28 settembre 2012 alle ore 14.27 ·
.
Credo di non sbagliare rivendicando di essere stato, all'interno del mio partito, SEL, tra i più accaniti avversari dello schema che prevedeva la cessione di SEA a F2I-CdP. Uno schema che, peraltro, tra i partiti di maggioranza aveva diversi oppositori. E che per fortuna è saltato quando, oltre alla politica, ci si è messa di mezzo anche la magistratura. Quindi penso di aver titolo per parlare senza essere etichettato come "servo di partito".
Ciò detto, le delibere bisognerebbe leggerle attentamente, soprattutto prima di indire Crociate. Cosa rende questa delibera "potabile"?
Il fatto che
..."l'assetto azionario post quotazione, con riferimento agli attuali azionisti, risulterà così articolato: flottante 25% del capitale sociale; Comune di Milano 48,1%; F2I 26,1%; piccoli azionisti 0,8%"...
Per la verità Borsa Italiana questo assetto si realizzera se la Provincia seguirà il Comune di Milano sulla strada della quotazione in borsa di SEA, ma una situazione simile la si avrebbe anche se ciò non avvenisse. Borsa Italiana riassume in questo comunicato ("Sea: Consiglio Comune Mi approva delibera per Ipo") l'assetto azionario post-quotazione nei diversi casi, a seconda di cosa farà la Provincia.
Sostenere che SEA è stata privatizzata, quando invece il Comune mantiene il pacchetto azionario di maggioranza e il sostanziale controllo della società, è una forzatura.
Come oggi spiega il Sole 24 ore ("Sea, via libera all'Ipo in Borsa Valutazione di oltre 900 milioni" ), che in futuro F2I rastrelli azioni in borsa non si può escludere; ma è improbabile, visto che se salisse sopra il 30% dovrebbe lanciare un'OPA, operazione particolarmente costosa, per ritrovarsi comunque comunque in casa un socio di minoranza con il 48% delle azioni, e quindi con ottime possibilità di bloccare, secondo il nostro diritto societario, molte delle operazioni più sgradite.
Restano ancora sul tappeto, invece, tutti i problemi che solo la politica può affrontare:
1.soluzione del "falso dualismo" tra Linate e Malpensa, soluzione facilissima perché basta rifarsi, secondo logica, al Decreto Bersani
2.rilancio di Malpensa attraverso la collaborazione con almeno un vettore di rilievo internazionale interessato a farne la sua base d'operazioni europea (visti i chiari di luna, probabilmente proveniente dal Golfo o dal Far East)
3.smantellamento definitivo delle protezioni e dei favoritismi di cui gode Alitalia, con la definitiva liberalizzazione del mercato dei servizi di trasporto aereo
4.riassetto del sistema aeroportuale del Nord - per il quale, però, sarebbe più che sufficiente lasciare operare il mercato, ragion per cui ho sempre visto l'ipotesi di un ingresso della Regione nell'azionariato di SEA come il fumo negli occhi, visto che avrebbe privilegiato convenienze e campanilismi per proteggere Bergamo e Brescia. Se vogliamo discutere di politiche si settore - razionalizzazione del sistema aeroportuale e mercato dei servizi di trasporto aereo - di questo dobbiamo occuparci.
Se vogliamo proprio "buttarla in politica", non posso non osservare che l'intera vicenda fa tornare in mente il paradosso dello scimpanzé che, lasciato davanti a una macchina da scrivere per un tempo sufficiente, riscrive "Guerra e Pace". La delibera approvata ieri sarà anche "potabile", ma al momento la Giunta non pare avere le idee molto chiare nè sugli investimenti da effettuare nel prossimo futuro, nè sulla sua strategia complessiva riguardo alle partecipate. Lo scrivo con spirito costruttivo, perché proprio la confusione di idee è alla radice degli ultimi sondaggi negativi circa l'operato del Sindaco e della Giunta. E poco importa se questa comnfusione di idee è reale solo "percepita" da osservatori e cittadini.
Tralascio invece ogni commento sulle penose sceneggiate cui ci hanno fatto assistere alcuni esponenti di maggioranza. In maggioranza si sta, consapevoli dei rapporti di forza. A volte anche sperimentando tutte le possibili strade per modificare temporaneamente, su una singola battaglia, quelli usciti dalle urne, avvalendosi della propria capacità di rapportarsi con la società e gli attori sociali ed economici. Ma sempre tenendo conto che una cosa è, appunto, stare in una maggioranza, altra cosa è fare opposizione. Sostenere tesi bislacche - tipo quella del referendum cittadino sul destino di SEA, giustamente osteggiata soprattutto dai lavoratori di SEA e dal sindacato, e non penso solo alla Camera del Lavoro, ma anche a tutte le sigle, confederali e non, attive in SEA... - e dissociarsi dalla maggioranza di cui si fa parte per un po' di pubblicità non è proprio segno di grande intelligenza e affidabilità politica.
Ed è curioso che Basilio Rizzo disquisisca sulle conseguenze politiche ed elettorali della posizione assunta ieri in Consiglio da SEL. Probabilmente Basilio ieri era poco lucido: è stata una seduta difficile e impegnativa, soprattutto per il Presidente del Consiglio Comunale. Perciò lo perdoniamo; sappiamo che era in buona fede, anche se troviamo singolare che si preoccupi del nostro elettorato chi un suo non ce l'ha più... Peccato, perché proprio dai più validi aspiranti "difensori dei lavoratori" non ho ancora sentito nulla, almeno per ora, su nessuno dei punti di politica industriale su cui, invece, sin da oggi dobbiamo rimetterci a lavorare.
giovedì 27 settembre 2012
Felice Besostri: Stati maggiori contro Stati generali
Stati Maggiori vs. Stati Generali
E’ in ogni caso apprezzabile che questa sia un’iniziativa dal basso: la passività dei militanti è un riflesso condizionato da modelli organizzativi del tempo passato, quando il centro dava a linea. Ora i gruppi dirigenti delle formazioni politiche di sinistra sono più che mai smarriti, non hanno certezze, spesso hanno perso uno status politico e un ruolo nelle istituzioni, sono preoccupati per il loro futuro e i migliori, ce ne sono, anche del paese. In comune con i gruppi dirigenti del passato hanno un’idea di autosufficienza e una concezione oligarchica della gestione del potere. A fronte della drammatica situazione del paese, con una crisi, che non sarà sconfitta, anzi aggravata, dalle ricette neo-liberiste dell’austerità e una sfiducia montante nelle formazioni politiche “tradizionali” l’unico prova di vitalità sarebbe stata una mobilitazione straordinaria. Bisognava convocare congressi straordinari sia per definire una linea politica, che per rinnovare gli organismi a tutti i livelli. Non si può criticare Grillo e i grillini per la mancanza di democrazia o il qualunquismo anti-politico e poi non credere nei propri iscritti e militanti.
Da più parti si è lanciata la proposta di convocare gli Stati Generali della Sinistra, per alcuni una riconvocazione avendo in mente quelli di Firenze del febbraio 1998, neanche 15 anni fa, che portarono alla costruzione dei DS. Non per rivendicare primogeniture -in politica non esiste il monopolio delle idee e le proposte sono tanto più forti quanti più compagni e compagne si sentono padri e madri della proposta-, ma vi è un passo reciso della mia relazione introduttiva al Convegno di Genova del 30 giugno sul 120° anniversario della fondazione del Partito dei Lavoratori: “S’impone una nuova e più ambiziosa edizione degli Stati Generali della Sinistra, che raccolga partiti, movimenti, esperienze associative e di mobilitazione civica, chiusa a ogni forma di violenza, senza primi della classe per meriti storici od organizzativi o per godere di finanziamenti pubblici o privati di “finanzieri democratici”. Nella ricerca di rappresentare al meglio una società ricca senza mistica di nuovismo e apoliticismo, ci sono esperienze con cui confrontarsi, come la lista arancione di Milano o esperienze concrete di lavoro nella società, come Libera di don Ciotti.”. Le parole non erano scelte a caso, fino ad allora si era parlato di stati generali del Centro-sinistra. Un altro significato ed un’altra valenza: dare concretezza ai programmi di un rinnovato centro-sinistra, un corpo tridimensionale alla “Foto di Vasto”. Gli Stati Generali della Sinistra di cui si ha bisogno sono per un’esigenza di identità, di sperimentare una comunanza di valori, darsi una missione, un progetto di solidarietà, di estensione della libertà e di riduzione drastica delle diseguaglianze da condividere. In quella sede noi avremmo portato le nostre proposte di scomposizione e ricomposizione della sinistra italiana, come presupposto ed effetto del suo rinnovamento in un orizzonte sovranazionale, che implica una sua integrazione nel socialismo europeo, interlocutore principale ancorché non esclusivo per una rinnovata Unione Europea. Nel nostro continente dobbiamo mettere fine alla convinzione che il socialismo sia vietato a causa delle fallimentari esperienze del modello sovietico e dell’incapacità di cogliere le valenze rivoluzionarie, che un coerente riformismo socialista moderno poteva avere. Prassi e teoria non hanno interagito nei partiti socialisti democratici dei paesi capitalisti avanzati ed ora si deve misurare con una crisi senza precedenti. Ma nel modo di affrontarle e risolverla si confronteranno le forze in campo e si stabilirà chi avrà l’egemonia. Un approccio è importante non considerare questa crisi come la loro crisi: è la nostra crisi, ma per uscirne ci sono le loro soluzioni e dovrebbero esserci le nostre, come sinistra per la PERIMA VOLTA CONVINTA DI POTER GOVERNARE QUESTO PAESE CON SUOI PROGRAMMI E CON PROPRI UOMINI E DONNE NELL’ESECUTIVO PER LA LORO ATTUAZIONE.
In conclusione, altrimenti si esce dalla dimensione di un contributo esterno non iscritto a SEL, ma che la segue con attenzione e talvolta partecipata preoccupazione, non a caso il titolo del mio contributo è Stati maggiori contro(versus) Stati Generali e non Stati Generali contro Stati Maggiori: gli stati generali della sinistra non sono contro, ma per un rinnovamento della politica nell’interesse di tutti, base e gruppi dirigenti
Milano 26 settembre 2012i.
Felice Besostri, Circolo LA RIFORMA, aderente al Gruppo di Volpedo e al Network per il Socialismo Europeo .
Contributo scritto per l’assemblea di SEL del 30 settembre 2012 alla Camera del lavoro di via Buonarroti 12 Roma
mercoledì 26 settembre 2012
Domenico Siracusano: Ricostruire e cambiare l'Italia, con Bersani premier
*Ricostruire e cambiare l'Italia, con Bersani premier*
Le Primarie del centrosinistra hanno l'obiettivo di individuare il
premier della coalizione dei democratici e dei progressisti.
Alle spalle un ventennio caratterizzato dalla parabola del berlusconismo
iniziato con il sogno della rivoluzione liberale e le milionate di posti
di lavoro con un bilancio finale tragicamente di negativo in termini di
deficit di cultura di governo, personalizzazione della politica,
svilimento della funzione del ceto politico --tra nominati e starlet
nelle istituzioni-, scandali di ogni genere e sorta.
Dentro questa fase decadente della Storia Repubblicana, il
centrosinistra, colto di sorpresa nel 1994, ha risposto con gli
esperimenti dell'Ulivo, nel 1996, e dell'Unione, nel 2006, che, usciti
vincenti dalle urne, hanno evidenziato limiti di tenuta con la sfida del
governo. Dopo la caduta del secondo esecutivo guidato da Romano Prodi,
con la rottura tra sinistra riformista e sinistra radicale anche
l'esperienza della vocazione maggioritaria del neonato Partito
Democratico non è risultata risolutiva.
La fine anticipata del Governo Berlusconi-Bossi ha messo in evidenza la
crisi profonda in cui le destre hanno condotto il Paese. Crisi politica,
crisi economica, crisi di società.
L'esperienza del Governo Monti ha consentito all'Italia di recuperare
credibilità internazionale con tutti limiti di una maggioranza
trasversale voluta dal Presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano,per salvare il Paese dal baratro dove lo stavano conducento
Berlusoni & C.
I limiti dell'esecutivo dei tecnici sono però evidenti e nonostante le
battaglie parlamentari dei Gruppo del PD specie se si guarda alla
riforma di pensioni e del mercato del lavoro. Equità e crescita appaiono
come capitoli che i professori non sono riuscire a scrivere se non per
titoli.
Il lavoro di progetto e programma che il PD ha compiuto in questi è
profondo, scandito da conferenze tematiche, penso ai temi del Lavoro e
dello Sviluppo Sostenibile, il dibattito nelle Feste Democratiche, ed in
ultimo la presentazione della Carta di Intenti per un Patto tra
Democratici e Progressisti.
Ricostruzione e cambiamento queste sono le direttrici da seguire.
Ricostruire sulle macerie di una politica che non ha saputo governare i
processi derivati dalla crisi finanziaria globale.
Ricostruire una politica che ha perso ogni portato etico-morale offrendo
facile sponda a chi pensa che con una /vaffa/ si possa governare un
paese grande e complicato come l'Italia.
Cambiare politica economica e sociale affrontando con decisione il
crescente disagio sociale, immaginando percorsi di crescita e sviluppo,
inclusivi per un crescente numero di donne e uomini esclusi dal mercato
del lavoro, e quindi dalla piena cittadinanza.
Cambiare politica industriale, cogliendo le specificità dei territori e
le sfide dell'economia verde, sforzandosi di tenere insieme le ragioni
del Lavoro e dell'Ambiente.
Cambiare politica fiscale nell'ottica dell'equità detassando il lavoro e
agendo sulle transazioni finanziarie e sulle rendite.
In questa direzione vanno le recenti proposte di Cesare Damiamo e
Pierpaolo Baretta.
Rimettere al centro le politiche per i Giovani e per la Cultura capaci
di liberare energie e risorse che possono fare tornare a correre un
Paese fermo.
Un lavoro ampio e complesso che richiede una guida salda e determinata.
La scelta del Partito Democratico di utilizzare lo strumento delle
Primarie di coalizione per individuare il candidato premier consente di
agganciare il percorso di approfondimento e definizione delle politiche
di governo ad un forte momento di partecipazione dal basso che potrà
dare forza alle idee e alle donne e agli uomini che dovranno portarle
avanti nel Governo e del Parlmento.
Le Primarie non sono, né possono trasformarsi in un congresso del PD
mascherato che rischierebbe di allontanare gli alleati, di sfilacciare
l'alleanza per il governo dell'Italia. Né possono diventare l'espediente
per una conta sui territori, interna al PD o ai suoi alleati, per
misurare velleità ed ambizioni personali. Senza retorica, in ballo c'è
il futuro del Paese. È una sfida a cui arrivare pronti ed uniti, nel PD
e con gli alleati del centrosinistra.
Pierluigi Bersani è l'uomo giusto per guidare questa nuova fase politica.
Ha tenuto insieme il Partito Democratico favorendo l'incontro tra le
diverse culture politiche dentro una dimensione plurale e mai
leaderistica, insieme a quanti hanno voluto lavorare per la crescita
della proposta di governo del partito.
Ha saputo affrontare la crisi di partecipazione e radicamento della
politica, si pensi al commissariamento della Federazione di Napoli
affidato ad Andrea Olrlando, con il pieno coinvolgendo una nuova
generazione come testimonia il rinnovamento dei gruppi dirigenti nelle
città e nelle regioni.
Ha dimostrato in questi anni, con un impegno faticoso e certosino, la
volontà di aggregare forze politiche, sociali e civiche non in base ad
opzioni ideologiche ma tenendo la barra diritta sui temi e sulle proposte.
È su questa strada che si deve continuare, uscendo dalle logiche dello
scontro vecchi-giovani, contenuti- immagine, serietà-sorrisi,
piazze-socialnetwork.
Le destre e le politiche neoliberiste non sono ancora sconfitte
definitivamente, le Primarie devono rappresentare una grande di
occasione di partecipazione, diffusione delle idee, allargamento della
base del centrosinistra, a partire dai nostri delusi e potenziali astenuti.
Confrontiamoci sui temi e sulla premiership, facciamolo con forza ma con
rispetto reciproco, consapevoli che il popolo del centrosinistra ed i
cittadini considerano l'unità profonda tra noi e i nostri alleati il più
grande limite del passato e il migliore investimento nel futuro.
Domenico Siracusano
Responsabile Organizzazione PD Città di Messina
martedì 25 settembre 2012
Io scelgo: delibera ammessa
IO SCELGO: DELIBERA AMMESSA!
COMUNICATO STAMPA
siamo felici di poter annunciare che la nostra proposta è stata riesaminata dal Collegio dei Garanti e ritenuta ammissibile!
Ricorderete che il 18 giugno scorso rievemmo una decisione di inammissibilità, che ci costrinse ad interrompere la raccolta delle firme dopo solo due mesi. Ritenendo tale decisione non giustificata, decidemmo, in attesa del ricorso, di fare istanza di riesame in autotutela, chiedendo al collegio dei garanti di incontrarci per poter rispondere alle obiezioni da loro sollevate. Tale richiesta è stata accolta con la concessione di un’audizione a cui hanno partecipato gli avvocati Ilaria Urzini (responsabile legale del Comitato) e Vittorio Angiolini. Il Collegio ha quindi accolto le nostre motivazioni emettendo una delibera di ammissibilità della nostra proposta (qui il testo).
Questo significa che potremmo ripartire con la raccolta firme, ma non sarà necessario perché lo sforzo notevole compiuto nei primi due mesi, con numerosissimi banchetti presenti in tutte le zone della città, e la risposta di straordinaria partecipazione dei cittadini han fatto sì che, al momento dell’interruzione della raccolta, avessimo già più di 6000 firme in mano!
Queste verranno quindi protocollate al più presto. Non possiamo, in questa sede, non ringraziare quanti hanno reso possibile il raggiungimento di questo obiettivo: i membri del comitato promotore, i Comitati x Milano, alcuni circoli di SEL e PD, il Movimento 5 Stelle, tutte le associazioni che hanno aderito all’iniziativa (l’elenco completo sul sito www.ioscelgo.info) e tanti cittadini e cittadine, che con tenacia e costanza hanno presenziato ai banchetti; nonché a tutti gli autenticatori (consiglieri provinciali, comunali, presidenti dei consigli di zona e notai).
Il comitato IO SCELGO seguirà ora da vicino tutti i passi successivi affinché la delibera venga discussa dal consiglio comunale e sarà impegno nostro, con l’appoggio di quanti credono in questa iniziativa, far pressione affinché la delibera venga approvata.
Per io comitato IO SCELGOMonica Fabbri, coordinatrice (3405805042)Ilaria Urzini, responsabile legale (339 3299241)biotestamento.milano@gmail.comwww.ioscelgo.info
IL COLLEGIO DEI GARANTI ACCOGLIE LE OBIEZIONI DEL COMITATO IO SCELGO ED AMMETTE LA DELIBERA CHE PROPONE AL COMUNE DI MILANO DI ISTITUIRE IL REGISTRO DEI TESTAMENTI BIOLOGICI
Cari membri del comitato promotore e cari cittadini e cittadine che avete collaborato, creduto e firmato la proposta di delibera per istituire a Milano il registro dei testamenti biologici,siamo felici di poter annunciare che la nostra proposta è stata riesaminata dal Collegio dei Garanti e ritenuta ammissibile!
Ricorderete che il 18 giugno scorso rievemmo una decisione di inammissibilità, che ci costrinse ad interrompere la raccolta delle firme dopo solo due mesi. Ritenendo tale decisione non giustificata, decidemmo, in attesa del ricorso, di fare istanza di riesame in autotutela, chiedendo al collegio dei garanti di incontrarci per poter rispondere alle obiezioni da loro sollevate. Tale richiesta è stata accolta con la concessione di un’audizione a cui hanno partecipato gli avvocati Ilaria Urzini (responsabile legale del Comitato) e Vittorio Angiolini. Il Collegio ha quindi accolto le nostre motivazioni emettendo una delibera di ammissibilità della nostra proposta (qui il testo).
Questo significa che potremmo ripartire con la raccolta firme, ma non sarà necessario perché lo sforzo notevole compiuto nei primi due mesi, con numerosissimi banchetti presenti in tutte le zone della città, e la risposta di straordinaria partecipazione dei cittadini han fatto sì che, al momento dell’interruzione della raccolta, avessimo già più di 6000 firme in mano!
Queste verranno quindi protocollate al più presto. Non possiamo, in questa sede, non ringraziare quanti hanno reso possibile il raggiungimento di questo obiettivo: i membri del comitato promotore, i Comitati x Milano, alcuni circoli di SEL e PD, il Movimento 5 Stelle, tutte le associazioni che hanno aderito all’iniziativa (l’elenco completo sul sito www.ioscelgo.info) e tanti cittadini e cittadine, che con tenacia e costanza hanno presenziato ai banchetti; nonché a tutti gli autenticatori (consiglieri provinciali, comunali, presidenti dei consigli di zona e notai).
Il comitato IO SCELGO seguirà ora da vicino tutti i passi successivi affinché la delibera venga discussa dal consiglio comunale e sarà impegno nostro, con l’appoggio di quanti credono in questa iniziativa, far pressione affinché la delibera venga approvata.
Per io comitato IO SCELGOMonica Fabbri, coordinatrice (3405805042)Ilaria Urzini, responsabile legale (339 3299241)biotestamento.milano@gmail.comwww.ioscelgo.info
Franco Astengo: Regione Lazio
CASO REGIONE LAZIO: NOTE DI PROGRAMMA TRA POLITICA, AMMINISTRAZIONE E DECENTRAMENTO DELLO STATO
La vicenda delle ruberie alla Regione Lazio che pare si stia concludendo con lo scioglimento del consiglio regionale non può essere derubricata a fatto moralistico e di natura locale: si tratta di un tema di carattere generale, che non investe semplicemente la ricorrente questione del finanziamento della politica, ma molto più in generale quello dell’assetto dell’amministrazione pubblica e del decentramento dello Stato.
In questo senso mi permetto di riproporre un intervento dell’Agosto 2010, le cui linee portanti – sotto l’aspetto dell’impianto di contenuto – mi appaiono ancora del tutto valide ed attuali.
L'approccio che cercheremo di fornire alle brevi riflessioni che seguiranno, su temi molto complessi e delicati e di grande attualità, si collocherà probabilmente in una dimensione controcorrente rispetto al vigente “senso comune di massa” e, di conseguenza, di forte impopolarità.
Prima di tutto, però, va confutata l'accusa di proporre una sorta di “ritorno all'indietro”.
Il “ritorno all'indietro” c'è già stato, stiamo tornando al vecchio notabilato di ottocentesca memoria e ad una piena discrezionalità nell'esercizio della pubblica amministrazione da parte di soggetti non controllati e non controllabili, quasi come al tempo della burocrazia piemontese (con una bella differenza, dal punto di vista del senso dello stato tra Bertrando Spaventa e i soggetti in campo oggi)
Andiamo, però, per ordine: la modifica di ruolo e di funzioni nell'assetto del sistema degli enti locali e della pubblica amministrazione in Italia, avviata con la legge 142/90 (di cui ricordiamo quale punto più importante quello dell'autonomia statuaria dei Comuni) ha subito una torsione decisiva con l'adozione del sistema di elezione diretta di Sindaci, Presidenti di Provincia (dal 1993) e Presidenti di Regione ( dal 2000).
Sistema di elezione diretta, tra l'altro, valida per tutto il sistema, indipendentemente dalla dimensione degli Enti: da Rondanina a Roma.
L'intento era quello di assicurare governabilità e stabilità politica (intento realizzato, anche se, sul piano delle Regioni, il meccanismo ha cominciato a scricchiolare per via della sempre invadente “questione morale”).
Sul piano del rapporto tra politica e amministrazione cosa ha provocato , però, l'elezione diretta di queste figure monocratiche?
La conseguenza più immediata è stata quella della necessità di costruire “staff” di loro diretta dipendenza, svincolati dal resto della pubblica amministrazione: da qui la necessità di impostare un meccanismo di cosiddetta separazione tra “politica” e “amministrazione” (varato con le leggi “Bassanini”, centrosinistra, e i relativi decreti attuativi, oltre che con le modifiche della gestione contabile).
Questa divisione ha provocato una situazione di assoluta discrezionalità da parte dei cosiddetti “dirigenti” che hanno applicato i processi di diritto privato nell'amministrazione pubblica, mettendo in discussione, tra l'altro, la pubblicità dei beni comuni e dei servizi pubblici; nel contempo abbiamo avuto una caduta di ruolo e di funzioni dei consessi elettivi (concomitante con la crisi del sistema dei partiti, sostituiti nel loro procedere, certo criticabile ma insostituibile, di vita democratica interna dal fagocitante meccanismo delle “primarie”, vera esaltazione di questo negativo sistema fondato sulla capacità di esternazione delle persone in luogo della capacità di elaborazione e di espressione delle idee) e l'abolizione del sistema dei controlli.
Si è così formato un meccanismo di sistema che prevede una interdipendenza di “unti del signore” legati fra loro dal meccanismo di elezione e di nomina: un fenomeno diffuso e pervasivo di personalizzazione della politica e dell'amministrazione, che è stato causa di gravi disfunzioni, prima di tutto sul piano finanziario.
La Corte dei Conti ha recentemente lanciato l'allarme, quantificando a 62 miliardi di euro il deficit complessivo degli Enti Locali, senza considerare il tema dei “titoli tossici”, non quantificati, in possesso di Regioni, Comuni e Province (a proposito quando queste ultime saranno abolite o accorpate che si assumerà questa parte di debito?)che risultano essere motivo di grande preoccupazione non avvertita dall'opinione pubblica in generale, ma che potrebbe provocare una situazione di dissesto assai pronunciata.
Nello stesso tempo, dalla fine degli anni'80, il sistema politico italiano subiva l'assalto leghista: un assalto fondato su due assiomi molto semplici, non pagare le tasse, e usare la manodopera immigrata nel senso del marxiano “esercito di riserva” in una economia strutturata sul modello, già individuato dal Censis fin dagli anni'70, della “fabbrichetta del Sciur Brambilla” (il resto della retorica leghista, da Pontida a “Fratelli sul libero suol” non conta nulla).
A quell'assalto non si rispose: o meglio si rispose in una condizione di totale sudditanza politica, acquisendo elementi di prospettiva sbagliati (a partire dall'idea che il crollo del muro di Berlino avrebbe aperto nuove frontiere di grande prospettiva) sia rispetto alla valutazione della crisi economica, lasciando spazio al liberismo selvaggio, alla monetarizzazione esasperata, alla ulteriore finanziarizzazione dell'economia dovuta al velocizzarsi improvviso dell'eterno meccanismo della cosiddetta globalizzazione, dovuto all'innovazione tecnologica nel campo della comunicazione che non governato ha prodotto fenomeni di vero e proprio “assalto alla diligenza”.
Si è ceduto con facilità all'idea della crisi verticale dello “Stato Nazione”, ci si è fermati nel lavorare su di una Europa realmente “politica”, mancando una concreta analisi della crisi.
In questo quadro sono venuti avanti provvedimenti affrettati, confusi, come quello della modifica del Titolo V della Costituzione da cui generano federalismo fiscale e federalismo demaniale, al riguardo dei quali è necessario esprimere un giudizio di forte incertezza sulle sorti della stessa unità nazionale.
Nel frattempo è mutato il ruolo delle Regioni, o meglio non si è realizzato quel ruolo di Istituzione Legislativa che stava nell'intento del dettato costituzionale: le Regioni si sono tramutate in Enti (usiamo appositamente il termine Enti, nell'accezione italiota del “carrozzone” dal fascismo in avanti) di nomina e di spesa.
Ecco: prima di abolire le Province, istituire le Città Metropolitane (al riguardo delle quale mi pare molto complesso il quadro di possibile “sistematizzazione istituzionale) o di eliminare Comunità Montane e Circoscrizioni (esempio, queste, di coesione tra Enti e di partecipazione popolare, a nostro giudizio colpite con troppa fretta e scarsa lungimiranza) sarebbe stato il caso di “tagliare le unghie” alla Regioni proprio sul terreno delle nomina e della spesa.
A partire dal tasto più delicato: quello della Sanità, un settore ormai fuori controllo, che va riportato nell'ambito della prioritaria decisionalità a livello statale, abbattendo la tendenza alla privatizzazione, ripristinando i concorsi pubblici nazionali sia per i ruoli medici, sia per i ruoli amministrativi, eliminando consulenze ed esternalizzazioni.
Così come appare completamente fallita l’idea del tutto balzana della regionalizzazione del trasporto pubblico, in ispecie delle ferrovie: una regionalizzazione fonte di sprechi e di forti disfunzioni nel servizio, in particolare – ovviamente – al riguardo dei “pendolari” attorno alle grandi città, studenti e lavoratori.
Riteniamo non ci siano obiezioni che invochino il “risparmio”: non è certo tagliando qua e là, ma con una radicale riforma di sistema che può essere affrontato questo drammatico stato di cose.
Abbiamo sviluppato soltanto alcuni esempi e, per concludere, ritorniamo al punto: la separazione tra politica ed amministrazione dovuta, in entrambi i campi, dall'avanzarsi di un processo di personalizzazione senza controlli, di decisionalità delegata ad una sola persona, quale vera e propria involuzione del “processo democratico” inteso quale garanzia collettiva che si è verificato in Italia, nel corso di questi quasi venti anni di infinita “transizione”.
Non sarà popolare, come scrivevamo all'inizio: ma riflettere, al di fuori delle mode correnti, su questi punti ci pare davvero indispensabile.
Savona, li 14 Agosto 2010 – 25 Settembre 2012 Franco Astengo
lunedì 24 settembre 2012
domenica 23 settembre 2012
sabato 22 settembre 2012
Peppe Giudice: Una Bad Godesberg per ricostruire la sinistra italiana
Giuseppe Giudice
UNA BAD GODESBERG PER RICOSTRUIRE LA SINISTRA ITALIANA
Tutto fa pensare che siamo vicini ad una deflagrazione di questo assurdo sistema politico succeduto all’eclisse della I Repubblica.
E’ inutile soffermarsi sulle gravissime regressioni in vari campi che essa ha comportato. E soprattutto il dato che essa si è basata su una costituzione materiale fondata sul liberismo ed il mercatismo. E quindi in essa non c’era spazio per una forza socialista. Ed infatti la sinistra della II Repubblica è stata una “sinistra per caso” volendo usare la felice definizione di Paolo Franchi. Sia quella “riformista” di fatto liberale e subalterna al mercatismo sia quella antagonista affabulatoria e postmoderna.
Per questa ragione i soggetti attuali (chi più chi meno) sono qualcosa di profondamente estraneo al modello politico europeo medio. Qualcosa di molto più simile alla Polonia o alla Romania. E comunque un sistema in cui la politica è rimasta annichilita rispetto ai poteri forti del capitalismo finanziario (che controllano la stampa ed i mezzi di informazione), alle tecnocrazie ed alla magistratura.
Una deflagrazione di questo sistema è quindi auspicabile a patto che essa possa essere una deflagrazione controllata e governata verso certi obbiettivi definiti. Altrimenti la crisi inarrestabile della II Repubblica può provocare un bipolarismo ancora più anomalo tra tecnocrazie liberal-capitaliste e populismo antipolitico (questo è il disegno dei poteri forti interni ed esterni).
Oggi si avverte sempre di più una netta scissione tra identità ed appartenenze. Nel senso che vi sono identità omogenee costrette a stare in partiti diversi e non potersi organizzare in un soggetto politico in grado di tradurre in prassi politica quelle identità .
Nel PD convivono tendenze genuinamente socialdemocratiche con posizioni liberiste o clericali. Poi c’è una area grigia non ben definibile. In SeL c’è una area che guarda in modo convinto al PSE di Hollande e della Kraft ed un’altra in cui è forte il residuo postsessantottino. Nel piccolo Psi vi sono quelli che restano fedeli alla migliore tradizione socialista (Nenni, Lombardi, Santi ed anche il Craxi migliore) ed altri portatori di un social-liberismo di quarta mano (simili ai liberal del PD).
Ho accennato a questi tre soggetti perché essendo uno dei promotori del Nse, quest’ultimo individua in questi tre soggetti il campo privilegiato in cui lavorare per far maturare una scelta di campo nel socialismo europeo da parte di quel che resta della sinistra.
Il mio ragionamento vuole dimostrare che i mattoni per costruire un soggetto del socialismo democratico esistono, ma oggi sono separati da questa assurda geografia politica esistente. Di qui l’auspicio di una deflagrazione.
Ma se vogliamo costruire un soggetto del socialismo democratico occorre ricostruire una cultura socialista democratica. Il Pse non può rappresentare solo una adesione burocratica (come lo fu per i DS). Fatto sta che con la demonizzazione dei socialisti e l’incapacità dei postcomunisti di ereditarne la cultura politica – anzi fu proprio da un pezzo di essi demonizzata grave è stato il disancoramento culturale che ha prodotto la “sinistra per caso”. Ed è proprio questa la ragione del fallimento del postcomunismo italiano che non è mai riuscito a fare la sua “Bad Godesberg” oscillando tra una pigra rievocazione della memoria post-togliattiana (Reichlin ne è la massima espressione) ed un americanismo spinto estraneo alla cultura politica europea.
Io mi permetto solo qui di offrire una traccia di una discussione tutta da sviluppare su questa necessaria Bad Godesberg (uso questo termine perché è sinonimo da un lato di ridefinizione identitaria e dall’altro una sintesi, certo non esaustiva, del socialismo democratico della II metà del 900).
Innanzi tutto credo che per fondare una sinistra socialista popolare e di governo occorrono una serie di precise e nette rotture di continuità (spesso, come dicevo, sviluppate in modo pigro e ripetitivo).
Una prima rottura è con il fenomeno più recente. Il social-liberismo che è alla fine una imitazione europea del clintonismo americano. Esso ha rappresentato il più serio tentativo di liquidare la migliore tradizione socialdemocratica (quella di Bad Godesberg per l’appunto) tramite una subalterna e supina accettazione di un capitalismo liberale fondato sulla finanziarizzazione quale fattore strutturale nel meccanismo di accumulazione capitalistica. E che quindi porta a colpire in modo feroce e drammatico il cuore del modello sociale europeo. Ed a ridurre il lavoro a merce usa e getta. Il presunto riformismo dei “social-liberisti” consiste nel temperare gli effetti sociali più devastanti del mercatismo liberista (di qui il termine social-liberista) ma senza metterne in discussione il meccanismo strutturale. Una vera e propria capitolazione politica ed ideologica verso un sistema che moltiplica ingiustizie e sfruttamento sviluppando nel contempo meccanismi nichilisti ed autodistruttivi (come la crisi attuale insegna). Il social-liberismo non ha colpito allo stesso modo i socialismi europei (come la propaganda funeral-comunista vuol fare intendere). I socialisti francesi ne sono rimasti immuni. Così gli austriaci e gli scandinavi. Blair, Zapatero ed il postcomunista D’alema (oltre agli ex partiti comunisti dell’est) ne sono stati l’espressione più netta. Per Schroeder credo che sia più giusto il termine neo-mercantilismo per indicare comunque una politica non compatibile con una visione socialdemocratica.
IL social-liberismo in Europa è alle spalle. Quantomeno nella consapevolezza dei dirigenti di partito. Del resto la crisi strutturale del capitalismo liberale porta a rivedere un po’ tutti i paradigmi che hanno dominato negli anni 90. Tranne che in Italia, dove l’eclissi della cultura politica ha portato a costruire il PD e fondarlo sui paradigmi social-liberisti proprio mentre questo in Europa entra in crisi.
Comunque la rottura con il social-liberismo è uno dei punti qualificanti della ricostruzione di una cultura socialista.
La seconda rottura da operare è quella con un pezzo importante del berlinguerismo. Che come ho detto altrove ha rappresentato il fallimento di una uscita in positivo dalla crisi del togliattismo. E la rottura deve riguardare due aspetti essenziali. Il primo è la sua fumosità ed ambiguità ideologica che si esprimeva nel concetto di II via tra socialdemocrazia e comunismo reale. E quindi nel perdurante atavico pregiudizio verso la socialdemocrazia. Un pregiudizio i cui effetti sono visibili ancora oggi. Se anche persone intelligenti e con i quali dobbiamo fare un percorso comune come Fassina ed Orfini (verso quest’ultimo ho più sospetti: ha lo stesso modo di parlare di D’Alema) continuano a parlare di progressismo italiano che deve unificarsi e non confluire nel socialismo europeo, è evidente che siamo in presenza del perdurare di quella ambiguità ideologica implicito nel concetto berlingueriano di III via. IL secondo elemento negativo del berlinguerismo è il moralismo integralista (e connesso all’idea di una diversità antropologica) che per me è padre di quell’antipolitica di sinistra, di quella “sinistra per caso” che esalta Di Pietro e Travaglio. Io credo che Berlinguer non si sarebbe mai alleato con Di Pietro. Nondimeno quella ventata moralistica (cosa ben diversa da una idea di etica politica) nella pigra conservazione della memoria è divenuta asse portante di un certo modo di essere “sinistra” nella II Repubblica. Senza contare il sostegno acritico ad un pezzo di magistratura che è stato il braccio operativo della liquidazione della politica e dell’imposizione del liberismo nel nostro paese. E le gravi violazioni dello stato di diritto da essa prodotte come l’uso distorto ed abusivo della custodia cautelare.
La terza rottura da definire e quella con i residui del postsessantottismo. Anche qui c’è un’aria di reduci e combattenti, ma in assenza di un vero dibattito ideologico, la memoria distorta gioca brutti scherzi.
Io , come già ho scritto, separo il sessantotto come fenomeno dal postsassantotto come ideologia. Il fenomeno 68 è stato positivo nella sua globalità perché ha segnato una necessaria rottura di continuità (nella storia ne esistono di diverse) che ha generalmente favorito il progresso civile. Molto più negativo è il mio giudizio sull’ideologia postsessantottina che è la massima espressione di quel grave senso di colpa dell’Occidente che alla fine regredisce nel nichilismo. Si diceva che Marcuse e Mao (nonostante la distanza enorme fra i due) erano i padri del 68 ideologico. Ed era vero.
Nella Teoria Critica della società della Scuola di Francoforte si sono delineate due tendenze ben precise e contrapposte. La prima è quella di Fromm ed Habermas che tendono ad inquadrare la Teoria Critica nell’ambito dell’umanesimo illuminista. La seconda quella di Adorno e Marcuse (molto più in Adorno che in Marcuse) che sostengono il contrario. Per Adorno la modernità è un progetto fallito, per Habermas è solo un progetto incompiuto. In Adorno è forte la presenza del pensiero irrazionalista e nichilista di Hedegger, Nietsche ed addirittura De Sade!
Questi rifiuto un po edipico dell’Occidente porta ad esaltare il terzomondismo. E qui entra in gioco Mao. Il quale era uno stalinista terribile e convinto, ma diviene il paladino di un comunismo terzomondista che deve lavare le colpe dell’occidente. Cornelius Castoriadis nel criticare a fondo il postmoderno (che è figlio di Adorno) rileva come L’Occidente abbia commesso delitti terribili (come anche altre civiltà) ma è l’unica civiltà che abbia sviluppato un pensiero critico di autonomia. Insomma noi critichiamo il colonialismo, lo sfruttamento i delitti che abbiamo commesso. Gli Aztechi non avrebbero mai criticato gli orrori da essi compiuti, come in tempi molto più recenti, i turchi non riconoscono le proprie colpe per il terribile genocidio degli Armeni.
Non è differenza da poco.
Proseguendo; il Marcuse italiano è stato Mario Tronti, padre della corrente dell’operaismo neoleninista (molto diverso da quello socialista di Panzieri di matrice luxemburghiana). Marcuse però individuava negli studenti e nel III mondo il soggetto rivoluzionario. Tronti lo individua in una classe operaia molto diversa da quella immaginata fino ad allora. Rispetto alla razionalità totalizzante del neocapitalismo pianificatore solo la irrazionalità operaia (“rude razza pagana” la chiamava Tronti) è l’elemento rivoluzionario di rottura se guidata dal nuovo partito rivoluzionario neoleninista. Di qui l’ideologia del rifiuto del lavoro, del sabotaggio operaio, di tutto quell’armamentario perverso ed irrazionale che ha prodotto danni enormi. Anche sul piano etico. TRonti dopo il 1968 cambiò profondamente posizione (ma un certo carattere totalizzante e trascendentale è rimasto nel suo pensiero) , ma ci pensò Toni Negri (un vero “cattivo maestro”) a sviluppare quelle tesi demenziali ed estremizzarle ancor di più, tramite letture unilaterali e deformanti dei processi sociali.
Ora il riflesso di certe culture irrazionali è rimasto. Ed è rimasto nel sinistrismo avulso da un progetto organico e costruttivo di trasformazione sociale, che esiste solo come momento antagonista negativo. Bertinotti ne è un esempio. Insomma costoro fanno solo battaglie di bandiera per poter poi denunziare il tradimento di chi non la pensa come loro. Ritengono che la sinistra sia solo una somma di incazzature. E del resto l’intolleranza, la critica ad ogni forma politica democratica organizzata (partiti e sindacati) e l’esaltazione di forme di personalizzazione leaderistica sono oggi il tratto di unione tra postsessantottismo di risulta e populismo antipolitico.
Dirò di più: perché molti ex sessantottini sono diventati liberisti convinti? Perché questo capitalismo attuale ha dei tipici aspetti nichilisti. Volendo asservimento totale dell’uomo al mercato in una logica di darwinismo sociale. La legge del più forte senza limiti.
Ho indicato in modo forse non lineare , quelle che possono (come dicevo all’inizio) una traccia per poter sviluppare una discussione non più rinviabile. Di fronte alla gravissima crisi che attraversiamo non possiamo perdere più tempo ed è venuto il momento di uscire da tatticismi che in questa fase possono rivelarsi come la tomba della politica. Queste sono posizioni personali. Non coinvolgono il Network (anche se forse molti compagni le condividono) ma sono uno stimolo a riflettere anche lì e non solo, ovviamente.
Angelo Ruggieri: Dumping sociale
Memo in occasione dell’incontro tra Fiat e governo
Prima Pagina (3) Il dumping sociale da privilegio della Fiat a politica dello Stato
Non c’è una uscita capitalistica da questa crisi del capitalismo a meno che questa non sia anche un’uscita dalla democrazia (anche nelle sue forme mininime e in quelle residuali rimaste ). Obbiettivo: riscrivere la costituzione con la penna Milton Friedman.
La parola chiave per capire la “politica” della Fiat è “dumping sociale” che è diventata e si vuole che resti politica dello Stato
La drammaticità della crisi consiste nel fatto che ci troviamo di fronte un capitale in crisi che non può uscire dalla crisi con i propri mezzi, e che non solo per ciò non può accettare di agire nemmeno nei limiti di una democrazia minima, ma che nello stesso tempo conserva la propria egemonia sul terreno del processo produttivo pur se è in “crisi di egemonia” sui popoli nel mondo.
Donde che Marchionne in vista dell’incontro col governo, ribadisce ancora quello che avevamo appena trasmesso nel reprint MANAGER E OPERAI: “La vera competenza di Marchionne e della Fiat è il know how: la sua capacità, cioè, di stare in piedi solo grazie alle continue iniezioni di denaro pubblico e al sostegno dello Stato (e degli Italiani, o Serbi, o brasiliani, o polacchi o russi) alla Fiat che in Italia è stato per decenni anche sostegno dello Stato al modello di sviluppo Fiat (Prealpina 25/10/ 2010).
E ciò - nella sua ottica – lo si capisce perchè il capitalismo non funziona: 1) se non ha e un certo tipo di mercato del lavoro che garantisca che non ci sia mai la piena occupazione, se non ha la possibilità di formare e svuotare un esercito industriale di riserva e quindi la sistematica possibilità di ricatto; 2) se non c'è "lo stato che fa la spesa al capitale" e ciò sopratutto nella fase del liberalismo di stato (imposto con leggi coercitive degli stati) come negli ultimi 20-30 anni per cui gli stati vanno e sono andati TUTTI in debito e in deficit.
Di fronte a tale divaricazione drammatica di un capitale in crisi che non ha mezzi propri per uscire dalla crisi ma conserva il suo potere di ricatto perché mantiene l’egemonia sui mezzi di produzione, abbiamo un capo di governo che, brechtianamente, d’ora in poi, chiameremo Il Signor doppia “m”, che si aggira gonfio di quella flatulenza che chiamano competenza, come quella sulla “produttività” che da “spezialist”, che fuori dal suo campo non sa nulla di nulla, lui intende come lavorare di più: dimostrando di non sapere di economia e di non conoscere nemmeno i fondamentali della scienza economica (a cominciare da quella classica).
Ma per di più – imitando l’ottimismo di Berlusconi – per la seconda o terza volta in un anno dice di “intravedere la luce e la fine del tunnel ”. Tunnel dal quale “naturalmente”, dice, si può uscire uscendo dalla democrazia, ovvero nelle sue parole: “cedendo sovranità nazionale e con riforme strutturali e definitive” dell’attuale ordinamento istituzionale e Costituzionale sia della democrazia politica che della democrazia sociale.
Una “uscita” sia sul terreno dei rapporti tra fabbrica e stato, sia sul terreno dei rapporti sociali dei cittadini con lo stato delle autonomie, come del resto le stesse politiche “pro-crisi” sia del governo “tecnico” (sic) che quelle centralistiche di BCE-UE-FMI, dimostrano giorno dopo giorno incrinando e rompendo le basi stesse del” patto” di convivenza delle comunità, ovvero delle rispettive Costituzioni:
di cui l’inserimento negli ordinamenti nazionali del “pareggio di bilancio" con disposizioni vincolanti e permanente e in Italia – con esito persino peggiore della modifica dell’articolo 18 Statuto Lavoratori - addirittura inserito nell’art. 81 della Costituzione è un esempio espressivo del vero obbiettivo che è quello di riscrivere gli ordinamenti nazionali e in particolare di riscrivere la nostra Costituzione con la penna di Milton Friedman.
La parola chiave per capire la “politica” della Fiat è “dumping sociale” che significa ottenere una competitività (parziale e temporanea):
a) col taglieggiamento dei salari e dei diritti/potere sociali dei lavoratori;
b) succhiando soldi agli Stati che “fanno la spesa al capitalismo”creando il debito e deficit di bilancio che poi, per risanarli coi soldi dei contribuenti, recepiscono nei loro ordinamenti "il pareggio di bilancio" : addirittura con disposizioni vincolanti e permanenti e persino di natura costituzionale, come in Italia ha fatto l'attuale governo e la maggioranza PD- PDL-UDC con l'incostituzionale modifica dell'articolo 81 della C.
Ottenendo l'uguale effetto dell’intento di Berlusconi-Tremonti di modificare l'art. 41 che aveva e mantiene lo stesso vero obbiettivo insito nel pareggio di bilancio in Costituzione, vale a dire di riscriverla con la penna di Milton Friedman e la penna del liberismo nonostante o proprio perché vive la piena débacle delle sue politiche “pro-crisi” come il Signor doppia “m” ha ammesso essere quelle del suo governo.
Donde che ad ogni richiamo, qui sotto fatto, all’art. 41 va associato (e vale) all’inserimento del pareggio di bilancio nell’art.81, avendo entrambi lo scopo di impedire anche per il futuro la programmazione democratica e sociale dell’economia “pubblica” e “privata”
Prima pagina-Prealpina (18-6-010)
nella forma pubblicata dal giornale col titolo “Pomigliano/Fiat e la Cina che è vicina”
Il dumping sociale da privilegio della Fiat a politica dello Stato
di Angelo Ruggeri
La Cina è vicina o, meglio, l’Italia cerca di "avvicinarsi". Qualche anno fa, erano le "tigri asiatiche". Ora è la Cina il riferimento per riscrivere l’art.41 C. e i rapporti economici e di lavoro esplicitati dal "caso" Pomigliano.
Oltre alla "competitività", la parola chiave è: "dumping sociale". Il termine fu coniato proprio per l’Italia agli inizi delle prime prove di liberalizzazioni, nel secondo dopoguerra. "Dumping", per definire la "competitività" ottenuta col taglieggiamento dei salari e dei diritti che oggi si persegue globalmente, confermando la tesi dell’impoverimento progressivo delle classi lavoratrici internazionalizzate e raddoppiate. "Sociale" in quanto operato in evasione delle stesse leggi del Paese. Nel caso del "prenderle o lasciare" di Pomigliano, addirittura, si vuole aggirare i diritti costituzionalmente garantiti e indisponibili con un accordo sindacale.
Da Atene a Roma le società del ricatto.
Il dumping sociale, da "privilegio" della Fiat e di vari datori di lavoro del Nord, del Centro e del Sud (da Rosarno a Pomigliano), lo si vuol far diventare,anzi, lo è già diventato politica di Stato. Sulle orme della in Cina. Negli anni in cui Tremonti predicava il "colbertismo" e il "fallimento del mercatismo", la riforma costituzionale cinese, infatti, ha fissato quella inviolabilità e libertà assoluta dell’impresa e della proprietà privata d’impresa, che nell’Italia liberale fu sancita nel 1848. Donde il tentativo della Costituzione democratica del 1948, di fissare una funzione sociale alla proprietà e all’impresa.
L’Italia è un Paese di sana e robusta Costituzione che è vigente ed è soprattutto "rigida" (non modificabile) perché afferma principi innovativi. L’art. 41 é nel titolo III della Prima Parte della Costituzione, sotto la voce: Rapporti economici. Dall’art. 13 all’art. 54 ( rapporti civili, rapporti etico-sociali e rapporti economici e con le regole sul bilancio dello stato dell’art.81 e collegati) vi è tutta la base della democrazia e della cultura della Costituzione.
Donde che con ogni modifica di tali rapporti e regole, quello che si mette in discussione è l’impianto fondativo della nostra "Carta". Di cui l’art. 41 è un pilastro della cosiddetta "costituzione economica" che funge da cerniera tra i Principi Fondamentali e i valori civili, sociali ed economici e la parte "organizzativa" e delle regole di gestione economica e di bilancio dello Stato e della Repubblica.
Repubblica delle autonomie – "stato" esse stesse - istituzionali e locali, politiche, sociali e sindacali, religiose e culturali espressive ed espressione della comunità sociale e civile. Quindi, non più uno stato "centrale" ne uno "stato" inteso come governo e quindi "apparato" e burocrazia. Non più lo Stato guardiano del gioco, il "veilleur de nuit", gendarme-guardiano notturno-carabiniere-poliziotto, come nello stato liberale e com’era il nostro nel 1848. Ma uno stato-comunità e della società-civile organizzata in partiti, sindacati, movimenti e istituzioni religiose e culturali, ecc.. Ovvero tutto quello che era sconosciuto nell’800, allo stato liberale e pre-fascista e resta sconosciuto alle "tigri asiatiche", ai Paesi dell’Est Europa e alla Cina.
Il vero obbiettivo dell’azzardata idea di Tremonti non è "distrarre l’attenzione dalla manovra economica", come molti dicono. Il suo vero obbiettivo - affinché nessuno ci riprovi anche in futuro - è abolire definitivamente la programmazione sancito dall’art. 41, riscrivendolo con la penna di Milton Friedman e del liberismo in piena débacle.
La "sinistra" non lo dice per nascondere di aver abbandonato la programmazione economica negli anni 80 e di aver dato per morto l’art.41 negli anni 90. “Maastricht l’ha cancellato”, avevano detto, seguendo il corso del capitalismo anglosassone della cosiddetta "Common Law" epicentro dell’odierna crisi e privatizzando le Banche che dovrebbero acquistare i titoli di stato. Così, con la deregolamentazione finanziaria operata dai governi di centrosinistra prima e di centrodestra poi, il debito pubblico è stato messo nelle mani di società private, che scaricano i debiti e i fallimenti delle loro speculazioni sugli Stati che pagano per salvale e scaricano i costi sulla popolazione.
venerdì 21 settembre 2012
Franco Astengo: Riflessi
RIFLESSI A DESTRA E A SINISTRA
Sì proprio riflessi e non riflessioni.
Era stato facile prevedere che la formazione del governo Monti avrebbe provocato, rapidamente, un processo di vero e proprio “riallineamento” del sistema partitico italiano in parte già realizzatosi attraverso una sorta di “stringimento a coorte” verso il centro delle tre principali formazioni, PDL, UDC, PD.
Nel frattempo è emerso il tema, sempre attuale, delle ruberie all’interno dei partiti che però in questa occasione, in ispecie con il caso Lusi, ha mostrato due importanti elementi di novità: l’assoluta assenza di controlli e di richiesta di rendicontazione per tutti i rivoli di cui si compone questa storiaccia dei finanziamenti ai partiti (rimborsi elettorali, stipendi dei singoli, ecc.) e l’altrettanto assoluta incongruità delle cifre in ballo, totalmente poste al di fuori da una qualsiasi logica costi/benefici; milioni e milioni di euro, quasi come i contratti dei calciatori.
Tutto questo ha alimentato un distacco dell’elettorato dall’asse tradizionale dei partiti in campo, rivolto in due direzioni: l’astensione (ormai maggioritaria nel paese, in una dimensione pressoché assoluta collocandosi attorno al 50%) e improvvisate forme di raccolta della cosiddetta “antipolitica, in particolare il movimento 5 stelle che appare però, al di là ogni altra considerazione, aver già esaurito la propria spinta propulsiva, anche se un certo consolidamento di consenso lo si potrà certo constatare in occasione delle prossime elezioni politiche.
Sta accadendo, però, qualcosa di più profondo: la questione delle ruberie nei partiti ha assunto, nel caso del PDL del Lazio la forza di un vero e proprio detonatore.
La destra italiana è pronta per esplodere e implodere al tempo stesso e, in ogni caso, se insistesse nel presentarsi all’elettorato attraverso la formula attuale, rischierebbe di veder ridotto ampiamente il proprio, già ridimensionato rispetto al 2008, margine di consenso.
E’ prevedibile, dunque, che a destra si apriranno vere e proprie praterie dal punto di vista della caccia al voto: è ovvio che la parte del leone la farà, ancora una volta l’astensione; ma ci sarà spazio per altre scelte, da nuove forme di riaggregazione all’interno di quella determinata parte del sistema partitico allo spostamento d’asse da parte dei centristi.
Centristi che, è bene ricordarlo, proprio in un frangente di questo genere troveranno ragione di insistere per una modifica del sistema elettorale in senso ancor più proporzionale, considerato che la loro possibile acquisizione di voti di destra non sarà sufficiente a renderli maggioritari, ma potrebbe portarli in una condizione più forte al riguardo del loro obiettivo principale rappresentato dal costituire “l’ago della bilancia” del sistema, all’interno del quale svolgere finalmente una funzione pivotale, per la quale sentono un’antica e mai spenta vocazione, in spregio alle tensione bipolariste che animano ancora altri settori politici.
Uno stato di cose in atto che avrà – per l’appunto – “riflessi” sull’intero sistema che sposterà complessivamente il proprio asse ancora più a destra, in linea con le politiche severamente recessive e anti-popolari del governo, impegnato seriamente in una funzione del tutto ideologica di ripristino di condizioni materiale di classe del tutto ante-litteram.
Per la prima volta la storia italiana, ma anche quella europea, all’interno della crisi, regredisce e ci fa apparire un panorama da anni’50: soprattutto nel campo delle relazioni sindacali e delle possibilità di accesso al consumo da parte dei ceti medi e riproletarizzati.
Questi evidenti “riflessi” chiamano la sinistra, attualmente collocata addirittura fuori dal Parlamento, a ripensarsi in toto.
In tutta sincerità mi paiono del tutto superate e stucchevoli sia le diatribe sulle primarie (saranno, naturalmente, l’occasione per la determinazione del riposizionamento del PD) sia sulle possibili alleanze nella dimensione di un rinnovato “centrosinistra” che, dinamiche sociali e politiche e nuova legge elettorale, renderanno davvero “l’isola che non c’è”.
Insomma: qualcuno vuol provare a riprendere i temi di una riflessione più adeguata dell’attuale, attorno alle strategie dell’oggi e nel breve periodo?
Savona, li 21 settembre 2012 Franco Astengo
giovedì 20 settembre 2012
Felice Besostri: sfide socialiste
SFIDE SOCIALISTE
AI SOCIALISTI
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Il Gruppo di Volpedo, diventato comproprietario con Critica Sociale dell’Avanti!, tiene il suo quinto convegno annuale, in una temperie politica eccezionale: crisi economica, crisi istituzionale e crisi politica.
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di Felice Besostri
dir. nazionale PSI, già portavoce del Gruppo di Volpedo
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Due i chiarimenti che metteranno a prova le forze politiche, le primarie del Centro-sinistra e le prossime elezioni, per non parlare del plebiscito quotidiano dei mercati finanziari sullo spread BTP- Bund.
Le primarie non hanno ancora delle regole, che sono necessarie: non è lo stesso se si vota ad un turno o a due e se la platea degli aventi diritto è previamente definita o invece affidata ai passanti, che decidano di fermarsi in uno o nell’altro (ovvero nell’uno e nell’altro) dei centri di voto. Visto che siamo in tema: per le prossime primarie abbandoniamo la demagogia di far votare i sedicenni e/o gli stranieri con permesso di soggiorno. Le primarie servono per capire quale sia il miglior candidato er vincere le elezioni, devono votare gli elettori, per gli altri organizziamo una consultazione separata.
Volpedo IV si è tenuto dopo la vittoria alle comunali e provinciali del 2011, come Volpedo III ha costituito un’anticipazione della vittoria a Milano di Pisapia. Il fatto che si sia arrivati al quinto appuntamento annuale nel quadro vivente della piazza Quarto Stato del paese natale di Pellizza da Volpedo è un segno di vitalità e di validità di una formula di aggregazione socialista. Il successo di riflessione politica del convegno di Genova sul 120 anniversario della fondazione del Partito dei Lavoratori ne è stata un’altra conferma in relazione ai contributi ricevuti da leader politici e da illustri intellettuali, come anche da giovani e meno giovani militanti dell’associazionismo socialista.
Nel corso di quest’anno il Gruppo di Volpedo è diventato il comproprietario con Critica Sociale della storica testata socialista dell’Avanti!, uno dei possibili strumenti per una riaggregazione socialista, che sappia riunire antiche provenienze con recenti approdi. Se guardiamo al di fuori di queste realtà il quadro è sconfortante: i socialisti sono dispersi in una pluralità di partiti, dal PD a SEL, con incursioni persino nella Federazione della Sinistra ed anche, per colmo di ironia, nel partito personale di Di Pietro.
Neppure il PdL si salva dalle incursioni di ex-socialisti, anzi, proprio perché ex, è l’unico luogo dove abbiano raggiunto posizioni dirigenti. Il PSI, che, se avesse avuto successo la Costituente Socialista, sarebbe stato il centro propulsore di una grande riaggregazione socialista, ha preferito ritagliarsi un ruolo residuale in un accordo con il PD aperto all’UDC più che a SEL. Tuttavia bisogna dire con chiarezza che il PSI non rappresenta tutta l’area socialista, ma ne è parte integrante ed indispensabile: con esso bisogna continuare ad interloquire, anche a costo di delusioni o respingimenti, come hanno potuto constatare rispettivamente il Gruppo di Volpedo e il Network per il Socialismo Europeo, anticipazioni in forma ridotta di una possibile sinistra del futuro con iscritti al PSI, al PD, a SEL, alla Sinistra Civica Arancione, alla CGIL e alla UIL o in attesa della Sezione Italiana del PSE: l’approdo nel socialismo europeo è, scusate il bisticcio di parole, il massimo comun moltiplicatore che li unisce in attesa di essere raggiunti dalla parte maggioritaria della sinistra italiana.
L’accordo abbozzato PD-SEL con la partecipazione del PSI è, allo stato, la formula meno contraddittoria con l’alleanza progressista, democratica e socialista a livello europeo Al di fuori ci sono riedizioni della Sinistra Arcobaleno, anzi di una Arlecchinata, perché l’aggiunta dell’IdV esclude che sia un sinistra, tanto più se si aggiungesse Grillo, come l’azionista di maggioranza Di Pietro chiede con insistenza.
L’area socialista ha di fronte una triplice scelta o presenta una propria candidatura alle primarie di Centro-sinistra -se ci pensa l’API, che ha meno voti del PSI, perché no?- ovvero si schiera con Bersani o con Vendola. La terza scelta non è il voto per Renzi, ma la non partecipazione alle primarie. Quest’ultima soluzione sarebbe una pietra tombale per ogni ipotesi di rinascita socialista: sarebbe rinuncia a ricostruire una soggettività socialista, che dovrebbe essere l’ipotesi principale, ma anche ad un ruolo di contaminazione socialista di PD e SEL per ricondurli o condurli nel socialismo europeo. In un caso come nell’altro c’è bisogno di un luogo di aggregazione dell’area socialista, se il PSI ha rinunciato al ruolo, questo non può essere che l’Avanti!. Sulle scelte future peseranno giudizi politici, come quello di cogliere nella candidatura Renzi il vero protagonista dell’operazione centrista, dopo i fallimenti del Terzo Polo e della discesa in campo di Montezemolo ed epigoni o surrogati, e del continuismo delle ricette liberiste di Monti. Un pericolo insidiosissimo, perché formalmente interno al PD, cioè al partner indiscusso di SEL e PSI, divisi tra loro dal giudizio sull’allargamento all’UDC.
Il renzismo è l’opposto del socialismo europeo, anche delle sue forme più moderate, ed è anche peggio del PPE, in gran maggioranza vincolato ad una visione politica, mentre Renzi anco più di Berlusconi è un format televisivo, il portatore di un’ideologia dello spettacolo sposata alla visione tecnocratica della politica, cioè la negazione della democrazia rappresentativa. Di questo si è discusso ancora poco per una pericolosa sottovalutazione del fenomeno della capacità dirompente di parole d’ordine semplici ed efficaci, che prosperano grazie alla sclerosi delle formazioni politiche tradizionali e allo scarso ricambio, non generazionale o estetico, ma del modo di far politica delle loro nomenklature sempiterne.
mercoledì 19 settembre 2012
Gabriele Baccalini: Matteotti
Vorrei segnalare a tutti l'articolo dedicato da Marzio Breda al decimo
volume delle opere di Giacomo Matteotti curate da Stefano Caretti.
E' un elzeviro a pagina 39 del Corriere di oggi.
Leggere sul Corriere (non parliamo della Repubblica) un titolo come "Lo
sguardo acuto di un socialista" era cosa che non mi capitava da almeno
vent'anni e mi ha allargato il cuore.
Qui si parla della immediata intuizione matteottiana della pericxolosità
del fascismo e della vigliaccheria di chi poteva impedirne l'ascesa e
non lo fece,. Ma credo che anche la modernità del pensiero economico, la
capacità di amministratore locale, oltre ovviamente al leggendario
coraggio del martire socialista, facciano di Matteotti una figura
politica al vertice dei leader socialisti italiani ed europei di tutti i
tempi.
Spero di aver fatto cosa utile e saluto fraternamente tutti i veri
compagni, alla faccia di chi chi considera desueto il termine.
Gabriele Baccalini.
martedì 18 settembre 2012
Federico Rampini: Il capitalismo solidale
Unire l´efficienza dell´impresa alla spesa per i più deboli: una nuova strada che negli Usa in tempi di crisi attira progressisti e conservatori
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK
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dal nostro corrispondente
«L´ultimo censimento demografico – dice il sindaco di New York Michael Bloomberg – ha rivelato che almeno 40 milioni di americani vivono sotto la soglia della povertà, più del 13% della popolazione. Stremate dalla recessione, le nostre città devono affrontare la sfida più difficile da mezzo secolo in qua». Il suo allarme riecheggia da una costa all´altra degli Stati Uniti. Proprio mentre la domanda di servizi sociali è resa più acuta dalla crisi economica, le finanze pubbliche sono in uno stato disastroso. Da New York alla California si licenziano insegnanti, si chiudono ospedali, si eliminano linee del metrò e servizi di autobus. È impossibile aumentare ancora il deficit pubblico, che ha raggiunto il 10% del Pil: un record storico dalla seconda guerra mondiale. È impraticabile, per ragioni politiche, aumentare le tasse. In questa impasse si fa strada una ricetta nuova, che unisce due leader diversi come Barack Obama e Michael Bloomberg: il presidente progressista e l´ottavo uomo più ricco degli Stati Uniti.
Al centro di questa terapia c´è la figura dell´"imprenditore sociale". Un ossimoro, che unisce l´efficienza del management d´impresa, e l´impegno per la lotta alle diseguaglianze, l´aiuto ai più deboli, il miglioramento dei servizi pubblici. Chiamiamola la terza via del capitalismo. Non ha un colore ideologico: l´ultimo convertito è David Cameron, il premier conservatore britannico. Il guru riconosciuto di questa nuova tendenza è lui stesso una figura mista, anomala e inclassificabile. Si chiama Stephen Goldsmith e a 64 anni ha avuto almeno tre vite diverse.
È un brillante studioso di scienze politiche e amministrazione pubblica, dirige un dipartimento dell´università di Harvard. Anziché limitarsi alla teoria si è sporcato le mani andando a fare il sindaco di Indianapolis. Adesso Bloomberg lo ha nominato vice-sindaco nella metropoli più popolosa d´America (8,3 milioni di abitanti) con una missione molto speciale: proprio mentre le casse di New York sono quasi alla bancarotta, lui deve migliorare i servizi pubblici e le infrastrutture collettive. Un compito che Goldsmith ha accettato senza esitare: «In una fase di crisi - dice - tutti sono capaci di tagliare i costi peggiorando la qualità dei servizi sociali. La vera sfida è fare l´opposto, spendere meno e avere un ambiente più pulito, scuole migliori, trasporti che funzionano». Bloomberg è fiducioso che lui ci riuscirà: «C´è tanta gente che parla di reinventare lo Stato, ma Goldsmith lo ha fatto». Come sindaco di Indianapolis si è conquistato una fama nazionale realizzando un exploit. Ha licenziato il 40% dei dipendenti municipali: ma si è concentrato sui quadri medioalti della burocrazia, lasciando intatto il personale che veramente svolge un´attività di servizio al pubblico. Ha ridotto le tasse locali per ben quattro volte. Ed è riuscito a investire 1,2 miliardi nel miglioramento delle infrastrutture. Chiamando in causa proprio quella figura nuova: l´imprenditore sociale. Un essere che sfugge alle categorie tradizionali. Si colloca all´incrocio tra spirito d´impresa, efficientismo manageriale, volontariato, vocazione no profit, spesso in una zona mista tra pubblico e privato. «E´ soprattutto un catalizzatore di innovazioni sociali - dice lo stesso Goldsmith - una figura che si emancipa dalle ideologie e dai vecchi modelli, sperimenta un futuro nuovo». I pionieri in questo campo sono stati Bill Gates e Muhammad Yunus. Il fondatore di Microsoft ha trasferito il suo genio imprenditoriale nell´attività filantropica. Dalla sua Fondazione pretende la stessa efficienza che lo ha portato a dominare l´industria del software mondiale. Un dollaro speso contro la malaria deve massimizzare il rendimento in quel campo, proprio come un dollaro investito nella ricerca da Microsoft per lo sviluppo di un nuovo sistema operativo. La sua Fondazione è diventata un modello, al punto che altri miliardari americani preferiscono affidargli le proprie donazioni in beneficenza, perché si sentono più garantiti sui risultati finali. Yunus è l´inventore del microcredito (che gli è valso il Nobel della pace) e oggi lo applica perfino nel cuore di New York per aiutare le comunità più povere a riscattarsi da sole, creando piccole imprese, botteghe artigianali e attività commerciali, anziché aspettare l´assistenza pubblica. Ormai gli imprenditori sociali in America sono centinaia. Si sono estesi in molti campi, e Goldsmith elenca i quattro filoni principali: «La scuola. La sanità. Gli alloggi popolari. Il risanamento dei quartieri degradati». In un libro che è diventato un best-seller sia negli Stati Uniti che in Inghilterra ("The Power of Social Innovation") Goldsmith sostiene che l´approccio alle diseguaglianze, il concetto di assistenza e di servizio pubblico sta entrando in una nuova fase storica. «Alle origini, all´inizio del Novecento, aiutare i bisognosi (malati, anziani) era un compito affidato principalmente alle famiglie e alla carità, dei privati o delle chiese. Poi tra gli anni Trenta e il dopoguerra in tutto l´Occidente la costruzione del Welfare spostò queste responsabilità sullo Stato. Una terza fase, negli anni Ottanta, tolse responsabilità allo Stato con il ricorso all´outsourcing e alle privatizzazioni di tanti servizi». Goldsmith ci tiene a prendere le distanze da quella fase, reaganiana e iperliberista, che «fu quasi esclusivamente concentrata sui tagli dei costi». E´ in quell´epoca infatti che affondano le loro radici alcuni mali dell´America di oggi: lo stato penoso delle infrastrutture (trasporti pubblici, rete elettrica, autostrade) abbandonate volutamente al degrado. «Il quarto stadio», come lo definisce lui, è un´altra cosa ancora. L´intervento dei privati è benvenuto ma non "contro" lo Stato. Privato e pubblico, capitalismo e no profit possono farsi concorrenza o convivere. A due condizioni. La prima è «la priorità all´innovazione, non conta l´etichetta pubblico-privato ma la qualità dei risultati». La seconda condizione è che «sia il cittadino l´ultimo giudice». Bisogna restituire all´utente-contribuente la possibilità di spostare risorse verso chi fornisce il servizio migliore.
Un caso emblematico è quello di Bill Milliken. Un imprenditore sociale perfettamente bi-partisan, che piace all´Amministrazione Obama. Fu Goldsmith a scoprirlo quando ancora faceva il sindaco di Indianapolis. In quella città Milliken ha iniziato l´esperimento delle Communities in Schools. E´ un programma simile a un dopo-scuola: affianca degli istruttori ai ragazzi che hanno ritardi di rendimento scolastico. Generalmente appartengono ai ceti sociali più sfavoriti, alle minoranze etniche. Se li si abbandona al loro destino saranno per sempre dei cittadini di serie B. Tra i giovani neri, per esempio, solo il 33% arriva al diploma di maturità. I maschi neri che lasciano la scuola senza finire la secondaria superiore hanno il 60% di probabilità di finire prima o poi in un carcere. Ora Communities in Schools mobilita 50.000 volontari in tutta l´America, che forniscono tre milioni di ore di ripetizioni gratuite. Per il 75% degli studenti si registra a breve scadenza un miglioramento dei voti e un aumento delle promozioni. Obama ha cooptato l´idea di Milliken dentro il suo Social Innovation Fund: i primi 11 investimenti di imprenditori sociali che hanno l´imprimatur ufficiale della Casa Bianca. Per questi progetti il rapporto pubblico privato è significativo: 50 milioni di finanziamenti statali si "fondono" con 74 milioni di investimenti privati. Per Goldsmith non basta però che ci sia dietro la benedizione di Obama. Il talento effettivo degli imprenditori sociali va verificato nei fatti. Per questo lui vede come un ingrediente essenziale del suo esperimento la "mobilitazione civica", il sondaggio costante dei cittadini perché votino sulla qualità dei servizi. Le nuove tecnologie possono servire anche a questo. «A Londra - spiega Goldsmith - il sistema AccessCity incoraggia tutti i residenti a segnalare con sms, foto dal telefonino e messaggi twitter, tutti quegli spazi pubblici che non offrono l´accessibilità ai portatori di handicap. Ecco un caso in cui l´interattività tecnologica consente al cittadino di segnalare un problema in tempo reale, e pretendere la soluzione».
Questo quarto stadio nell´evoluzione dei servizi sociali, come lo definisce Goldsmith, recupera pezzi di tradizioni precedenti. Il terzo settore, il movimento cooperativo, le chiese: ognuna di queste esperienze ha avuto qualcosa di positivo. Basti pensare alla rete mondiale di scuole di formazione professionale dei domenicani o i licei e università dei gesuiti, spesso di alta qualità. La novità che viene dagli Stati Uniti è la fusione tra le ispirazioni nobili del volontariato e della filantropia, con i livelli più avanzati dell´efficienza d´impresa. Quel che conta è il risultato. E comunque non è una sfida che si può rinviare. «La domanda di servizi pubblici - dice Goldsmith - continua a crescere inesorabilmente, proprio mentre le risorse dello Stato si fanno più scarse. Per ragioni economiche e per ragioni morali, non possiamo stare a guardare. Se restiamo immobili, una parte crescente della nostra società sarà lasciata indietro, abbandonata al suo destino».
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK
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dal nostro corrispondente
«L´ultimo censimento demografico – dice il sindaco di New York Michael Bloomberg – ha rivelato che almeno 40 milioni di americani vivono sotto la soglia della povertà, più del 13% della popolazione. Stremate dalla recessione, le nostre città devono affrontare la sfida più difficile da mezzo secolo in qua». Il suo allarme riecheggia da una costa all´altra degli Stati Uniti. Proprio mentre la domanda di servizi sociali è resa più acuta dalla crisi economica, le finanze pubbliche sono in uno stato disastroso. Da New York alla California si licenziano insegnanti, si chiudono ospedali, si eliminano linee del metrò e servizi di autobus. È impossibile aumentare ancora il deficit pubblico, che ha raggiunto il 10% del Pil: un record storico dalla seconda guerra mondiale. È impraticabile, per ragioni politiche, aumentare le tasse. In questa impasse si fa strada una ricetta nuova, che unisce due leader diversi come Barack Obama e Michael Bloomberg: il presidente progressista e l´ottavo uomo più ricco degli Stati Uniti.
Al centro di questa terapia c´è la figura dell´"imprenditore sociale". Un ossimoro, che unisce l´efficienza del management d´impresa, e l´impegno per la lotta alle diseguaglianze, l´aiuto ai più deboli, il miglioramento dei servizi pubblici. Chiamiamola la terza via del capitalismo. Non ha un colore ideologico: l´ultimo convertito è David Cameron, il premier conservatore britannico. Il guru riconosciuto di questa nuova tendenza è lui stesso una figura mista, anomala e inclassificabile. Si chiama Stephen Goldsmith e a 64 anni ha avuto almeno tre vite diverse.
È un brillante studioso di scienze politiche e amministrazione pubblica, dirige un dipartimento dell´università di Harvard. Anziché limitarsi alla teoria si è sporcato le mani andando a fare il sindaco di Indianapolis. Adesso Bloomberg lo ha nominato vice-sindaco nella metropoli più popolosa d´America (8,3 milioni di abitanti) con una missione molto speciale: proprio mentre le casse di New York sono quasi alla bancarotta, lui deve migliorare i servizi pubblici e le infrastrutture collettive. Un compito che Goldsmith ha accettato senza esitare: «In una fase di crisi - dice - tutti sono capaci di tagliare i costi peggiorando la qualità dei servizi sociali. La vera sfida è fare l´opposto, spendere meno e avere un ambiente più pulito, scuole migliori, trasporti che funzionano». Bloomberg è fiducioso che lui ci riuscirà: «C´è tanta gente che parla di reinventare lo Stato, ma Goldsmith lo ha fatto». Come sindaco di Indianapolis si è conquistato una fama nazionale realizzando un exploit. Ha licenziato il 40% dei dipendenti municipali: ma si è concentrato sui quadri medioalti della burocrazia, lasciando intatto il personale che veramente svolge un´attività di servizio al pubblico. Ha ridotto le tasse locali per ben quattro volte. Ed è riuscito a investire 1,2 miliardi nel miglioramento delle infrastrutture. Chiamando in causa proprio quella figura nuova: l´imprenditore sociale. Un essere che sfugge alle categorie tradizionali. Si colloca all´incrocio tra spirito d´impresa, efficientismo manageriale, volontariato, vocazione no profit, spesso in una zona mista tra pubblico e privato. «E´ soprattutto un catalizzatore di innovazioni sociali - dice lo stesso Goldsmith - una figura che si emancipa dalle ideologie e dai vecchi modelli, sperimenta un futuro nuovo». I pionieri in questo campo sono stati Bill Gates e Muhammad Yunus. Il fondatore di Microsoft ha trasferito il suo genio imprenditoriale nell´attività filantropica. Dalla sua Fondazione pretende la stessa efficienza che lo ha portato a dominare l´industria del software mondiale. Un dollaro speso contro la malaria deve massimizzare il rendimento in quel campo, proprio come un dollaro investito nella ricerca da Microsoft per lo sviluppo di un nuovo sistema operativo. La sua Fondazione è diventata un modello, al punto che altri miliardari americani preferiscono affidargli le proprie donazioni in beneficenza, perché si sentono più garantiti sui risultati finali. Yunus è l´inventore del microcredito (che gli è valso il Nobel della pace) e oggi lo applica perfino nel cuore di New York per aiutare le comunità più povere a riscattarsi da sole, creando piccole imprese, botteghe artigianali e attività commerciali, anziché aspettare l´assistenza pubblica. Ormai gli imprenditori sociali in America sono centinaia. Si sono estesi in molti campi, e Goldsmith elenca i quattro filoni principali: «La scuola. La sanità. Gli alloggi popolari. Il risanamento dei quartieri degradati». In un libro che è diventato un best-seller sia negli Stati Uniti che in Inghilterra ("The Power of Social Innovation") Goldsmith sostiene che l´approccio alle diseguaglianze, il concetto di assistenza e di servizio pubblico sta entrando in una nuova fase storica. «Alle origini, all´inizio del Novecento, aiutare i bisognosi (malati, anziani) era un compito affidato principalmente alle famiglie e alla carità, dei privati o delle chiese. Poi tra gli anni Trenta e il dopoguerra in tutto l´Occidente la costruzione del Welfare spostò queste responsabilità sullo Stato. Una terza fase, negli anni Ottanta, tolse responsabilità allo Stato con il ricorso all´outsourcing e alle privatizzazioni di tanti servizi». Goldsmith ci tiene a prendere le distanze da quella fase, reaganiana e iperliberista, che «fu quasi esclusivamente concentrata sui tagli dei costi». E´ in quell´epoca infatti che affondano le loro radici alcuni mali dell´America di oggi: lo stato penoso delle infrastrutture (trasporti pubblici, rete elettrica, autostrade) abbandonate volutamente al degrado. «Il quarto stadio», come lo definisce lui, è un´altra cosa ancora. L´intervento dei privati è benvenuto ma non "contro" lo Stato. Privato e pubblico, capitalismo e no profit possono farsi concorrenza o convivere. A due condizioni. La prima è «la priorità all´innovazione, non conta l´etichetta pubblico-privato ma la qualità dei risultati». La seconda condizione è che «sia il cittadino l´ultimo giudice». Bisogna restituire all´utente-contribuente la possibilità di spostare risorse verso chi fornisce il servizio migliore.
Un caso emblematico è quello di Bill Milliken. Un imprenditore sociale perfettamente bi-partisan, che piace all´Amministrazione Obama. Fu Goldsmith a scoprirlo quando ancora faceva il sindaco di Indianapolis. In quella città Milliken ha iniziato l´esperimento delle Communities in Schools. E´ un programma simile a un dopo-scuola: affianca degli istruttori ai ragazzi che hanno ritardi di rendimento scolastico. Generalmente appartengono ai ceti sociali più sfavoriti, alle minoranze etniche. Se li si abbandona al loro destino saranno per sempre dei cittadini di serie B. Tra i giovani neri, per esempio, solo il 33% arriva al diploma di maturità. I maschi neri che lasciano la scuola senza finire la secondaria superiore hanno il 60% di probabilità di finire prima o poi in un carcere. Ora Communities in Schools mobilita 50.000 volontari in tutta l´America, che forniscono tre milioni di ore di ripetizioni gratuite. Per il 75% degli studenti si registra a breve scadenza un miglioramento dei voti e un aumento delle promozioni. Obama ha cooptato l´idea di Milliken dentro il suo Social Innovation Fund: i primi 11 investimenti di imprenditori sociali che hanno l´imprimatur ufficiale della Casa Bianca. Per questi progetti il rapporto pubblico privato è significativo: 50 milioni di finanziamenti statali si "fondono" con 74 milioni di investimenti privati. Per Goldsmith non basta però che ci sia dietro la benedizione di Obama. Il talento effettivo degli imprenditori sociali va verificato nei fatti. Per questo lui vede come un ingrediente essenziale del suo esperimento la "mobilitazione civica", il sondaggio costante dei cittadini perché votino sulla qualità dei servizi. Le nuove tecnologie possono servire anche a questo. «A Londra - spiega Goldsmith - il sistema AccessCity incoraggia tutti i residenti a segnalare con sms, foto dal telefonino e messaggi twitter, tutti quegli spazi pubblici che non offrono l´accessibilità ai portatori di handicap. Ecco un caso in cui l´interattività tecnologica consente al cittadino di segnalare un problema in tempo reale, e pretendere la soluzione».
Questo quarto stadio nell´evoluzione dei servizi sociali, come lo definisce Goldsmith, recupera pezzi di tradizioni precedenti. Il terzo settore, il movimento cooperativo, le chiese: ognuna di queste esperienze ha avuto qualcosa di positivo. Basti pensare alla rete mondiale di scuole di formazione professionale dei domenicani o i licei e università dei gesuiti, spesso di alta qualità. La novità che viene dagli Stati Uniti è la fusione tra le ispirazioni nobili del volontariato e della filantropia, con i livelli più avanzati dell´efficienza d´impresa. Quel che conta è il risultato. E comunque non è una sfida che si può rinviare. «La domanda di servizi pubblici - dice Goldsmith - continua a crescere inesorabilmente, proprio mentre le risorse dello Stato si fanno più scarse. Per ragioni economiche e per ragioni morali, non possiamo stare a guardare. Se restiamo immobili, una parte crescente della nostra società sarà lasciata indietro, abbandonata al suo destino».
Beppe Merlo: Stati generali
Premessa
Ogni volta che in Italia si vengono a creare condizioni che consentano alla “sinistra” di assumere l’impegno e la responsabilità di governare, si mettono in moto le condizioni ostative promosse dalla pluralità di una sinistra, imprigionata nei propri soggettivismi e che si crogiola nell’ascolto ossessivo delle proprie ragioni, perché refrattaria ad ascoltare quelle degli altri.
Questa sindrome purtroppo tutta italiana, è assente o estremamente marginale nelle altre sinistre europee, che proprio per questo riescono ad essere considerate affidabili, e al contrario di quanto avviene da noi, sono destinatarie di ampi consensi sia sociali che elettorali.
In Europa questa sinistra è socialista, laburista e socialdemocratica, e tanto nei sistemi maggioritari quanto in quelli proporzionali, normalmente non va mai ricerca di alleanze ex ante, mai pragmaticamente solo ex post questo accade perché il consenso lo si cerca direttamente presso gli elettori: in forma ampia e possibilmente inclusiva, proponendo progetti che possano essere condivisibili anche oltre ai propri consolidati referenti, secondo la logica della vocazione maggioritaria, ed è anche per questo che “fenomeni abnormi” come quello di Berlusconi, non possono trovare riscontro.
La sindrome del “con chi allearsi” è tipicamente nostrana, in quanto spesso serve a sopperire l’assenza o l’inadeguatezza del progetto politico; e soprattutto perché solo in Italia si assiste ad una così esasperata frantumazione della sinistra, anche dopo la caduta del muro, che viene perpetuata in ossequio allo strumentale e autoreferenziale soggettivismo, gestito da“monaci” tanto instancabili quanto interessati, che pretenderebbero di scrivere regole da declinare come un “Talmud”o per una mai sopita e pregiudiziale concezione supportata in nome di una efficienza organizzativa.
Per illustrare questo represso scenario, il prolifico Franco D’Alfonso, è ricorso alla metafora delle sindromi di Alcatraz e di Macondo, evidenziando, come entrambe, siano più che mai geneticamente inadatte a poter essere recepite come un valore aggiunto, e tanto meno quale propellente per raccogliere quel consenso indispensabile per vincere le elezioni e per governare.
Che le diversità, siano una risorsa è più che scontato, ma non è detto che la loro manifestazione sia sempre opportuna, troppo spesso la loro errata proposizione e caratterizzazione sia in termini si spazi che in termini di tempo è stata la causa delle più cocenti sconfitte della sinistra italiana, e il suo perseverare trova raramente ostacoli come dimostrano l’approccio alle lezioni siciliane.
Da questa sindrome di vocazione minoritaria, solo di recente la sinistra italiana ha dato l’impressione di potersene liberare, ed è stato in occasione delle recenti elezioni amministrative di alcune città importanti: Milano, Napoli, Genova e Cagliari, tramite la positiva esperienza dei così detti “scenari arancioni”, nelle quali la pluralità di valori, di idee ed esperienze hanno permesso di promuovere scenari di effettiva discontinuità, e realizzare un’aggregazione di consensi che ha saputo travalicare il ristretto ambito di riferimento politico originale, in cui per anni si era litigiosamente rinchiusa, causa prima della sua lunga e gloriosa serie di sconfitte politiche e di erosione di consensi.
Se è pur vero che nelle esperienze “ arancioni ” di: Milano, Cagliari, Genova, Napoli, il combinato disposto alla base del successo è consistito nell’aver potuto individuare e indicare candidature, spontanee e coraggiose, prive di “reti di protezione o di condizionamento”, che sono potute emergere dal “percorso democratico ” adottato, che piaccia o non piaccia ai monaci dell’ortodossia, ai sofisti della conservazione, o ai legulei dei modelli, si configura nell’attuale congiuntura sociale e politica, quale unico sistema in grado di promuovere e stimolare la percezione di un più ampio senso di inclusione non che offrire la speranza che si possa realizzare un profondo cambiamento, nel quale la capacità e la volontà di creare condizioni di effettiva condivisione, oltre ad esserne il volano diventano il cardine per difendere la democrazia dalle influenze dei risorgenti populismi.
Qualsiasi cambiamento in corsa, sia nel caso di modificazione più o meno profonda dell’attuale sistema, sia nel caso di un suo radicale cambio di impostazione come evocato da alcuni, può essere perseguito solo attraverso un diverso esercizio della democrazia: dove la politica dell’annuncio privata dal conforto e dalla forza del riscontro, possa essere sostituita dalla politica del dialogo e dell’inclusione, realizzabili solo attraverso il radicamento nei modelli e nei processi di “governance”, di sistematici processi di condivisione proattiva, propedeutici a rendere plausibili, prima ancora che perseguibili le discontinuità che ci si promette di realizzare.
I sindaci arancioni, hanno avviato questo percorso, attivando la politica dell’ascolto, ma il successo vero sarà rappresentato dall’aver saputo introdurre e consolidare nel sistema di “governance” la più vasta capacità di inclusione per consolidare una siste4matizzata e larga condivisione nei processi di governo. Questo era l’ impegno programmatico dei candidati sindaci, e l’appello/auspicio di quel “ non lasciatemi solo”, lanciato da Giuliano Pisapia, gridato dal palco di Piazza del Duomo la sera della riconquista di Palazzo Marino.
Sono in troppi , che alla vigilia delle elezioni nazionali, preferiscono dribblare queste vittoriose esperienze, che sono state un successo perché hanno avuto il pregio di non annichilire le diversità, imponendo loro, però, di ricondurre il potenziale valore aggiunto in un sistema più ampio finalizzato all’obiettivo più ampio, disinnescando così “ ex ante ” il tradizionale e più che scontato rischio di pregiudiziali condizionamenti di cui non si sentiva e tutt’ora non si coglie l’utilità, e di cui è purtroppo ricca la tradizione della sinistra italiana, il cui ultimo esempio, ancor orfano di autocritiche, è il triste ricordo dell’esperienza del governo Prodi-Tommaso Schioppa , unico ad avere intuito la profondità della crisi incombente, e delle conseguenze che ne sarebbero potute derivare al nostro Paese.
Stati Generali o Stati Confusionali.
In Italia, quando non si ha o si è esaurito un progetto o non si sa più dove andare, vengono evocati, gli Stati Generali, ce ne sono di tutti i tipi e con diverse finalità, con l’obiettivo di individuare dove “poter o dover andare”, anche se sicuramente utili non si hanno ancora riscontri per comprendere se hanno saputo offrire un effetto leva per il perseguimento di risultati positivi ed interessanti.
Anche nella sinistra, sono venuti di moda, la loro agenda come spesso succede o è enciclopedica o assolutamente vaga e finalizzata stabilire il “ dimmi con chi vai e ti dirò che sei” o al massimo a ricercare vincolanti punti di intesa da rendere quali “milestone” dell’attività dell’eventuale futuro governo.
La storia degli Stati Generali, ci narra come essi, nati per tenere sotto controolo ai tentativi espansionistici della monarchia, si concludevano sempre per nell’alleanza tra la Borghesia e Clero a lasciando in minoranza il popolo e gli artigiani.
E’ assolutamente legittimo sospettare che anche gli Stati Generali così tanto evocati, e dalle presunte finalità taumaturgiche, finiscano per trasformarsi in un “Gymnasium” per esibizioni muscolari inconsistenti, o per sermoni di “monaci” in cerca di autore, o per incoronare principi d’antan o semi nuovi o peggio ancora per realizzare programmi per “imbalsamare” l’eventuale governo della sinistra.
In questo senso i segnali premonitori, ci sono tutti e sono di una tale evidenza, che volerli sottovalutare sarebbe un grave errore, così come vogliono fare alcuni socialisti, che per legittimarsi a pieno titolo, ricorrono all’abuso della suggestione retorica o rimettendo in circolazione “i carri funebri “ della gloriosa storia instradandoli in percorsi indistinti e privi di una meta percepibile.
Non si può restare prigionieri del passato, guardare il futuro con gli occhi del passato è solo come auto tutela delle proprie soggettività, e se senza una storia non si va da nessuna parte è altrettanto vero che il XXI° secolo ha ormai ben poco da spartire con il precedente.
Da tempo il dibattito politico della sinistra è cortocircuitato tra il come eravamo, o il come dobbiamo essere per tornare a governare, ad entrare nella stanza dei bottoni, senza peraltro sapere che cosa si può o si deve fare.
Lo scenario della crisi viene vissuto ed assimilato dalla sola prospettiva nazionale, come se fosse ormai consolidata nella sinistra la capacità di individuare la formula risolutiva nella convinzione cha da soli si può uscire da una crisi di dimensione globale (SIC).
La demonizzazione del capitalismo, del mercato,della globalizzazione, dell’Euro, della cessione di potestà, sono temi sui quali si converge da destra e sinistra, stupendosi poi che la gente non riesce più a distinguere con chiarezza.
L’”anarco-populismo”, l’evocazione di un federalismo su base etico ed economico, gli orfani dell’eurocomunismo, la senilità di ex ministri che scoprono il “mercatismo”, il rigetto delle regole e dei patti sottoscritti sono il vasto terreno sul quale si sono gettati Grillo, Di Pietro, la Lega,la Destra, comunisti e post comunisti, gli scettici dell’Euro di destra. Di centro e di sinistra, per alimentare un dibattito concentrato esclusivamente dal sistema elettorale, dal giustizialismo e dalla denuncia della macelleria sociale.
Non può sfuggire come in questo scenario il prioritario sapere dove andare, e il successivo come si può rimarrebbe sfumato, per concentrare il confronto sul “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei ”: classico rifugio per mascherare il vuoto di visioni e di strategie.
Si assisterà alla semplificare del dibattito nella sinistra, ricondotto nel vicolo cieco dell’antica diaspora solo italiana tra riformisti e radicali, un discorso assolutamente datato; la questione vera che va posta è quella di una sinistra che il cambiamento lo propone e lo vuole realizzare in uno scenario di coordinate e vincoli, e un’altra sinistra a vocazione minoritaria, la cui visione di cambiamento è proiettabile solo in contesti autarchici e/o antagonistici ( No TAV, Questioni Sociali ecc), con la suggestione di governare con la cultura dell’opposizione.
L’anima anarco-populista-corporativa rischia di rendere di difficile distinzione destra e sinistra trovando un denominatore comune, seppur agitato in modo contrapposto, nel giustizialismo, nel nuovismo fine a sé stesso.
Ma la questione centrale è come uscire con gli altri dall’attuale crisi, di come affrontiamo l’esigenza di ridurre il debito pubblico o di renderlo più garantito, come vogliamo concorrere a dare una nuova dimensione politica all’Europa, come difendere la moneta unica, come costruire un Tesoro europeo e come e con quali vincoli possa battere moneta, quali potestà rendere a fattor comune e quali ritenere indisponibili, quale mercato o quali mercati con quali regole, come dare regole alla globalizzazione, come affrontare il dramma occupazione, il ridisegno del welfare, le nuove relazioni tra capitale produttivo e lavoro, come sterilizzare e quali regole per il capitale finanziari ecc, e soprattutto come dare vita in Europa ad una sinistra transnazionale indispensabile per la trasformazione dell’Europa, perché se non si trasforma l’Europa difficilmente si potrà trasformare l’Italia.
Il dibatto che avrebbe dovuto precedere gli Stati Generali non c’è stato, e questa è una scelta voluta; è quindi più che ragionevole sia il pregiudizio sulla validità di questi Stati Generali così come il paventare che ancora una volta si trasformino in un boomerang per un eventuale successo della sinistra.
I socialisti
Come scrive Felice, sono tanti e dispersi, e ciascuno secondo abitudine sembra giocare per se stesso pensando di giocare per tutti; l’attrazione nei confronti degli Stati Generali, appare più come un’esigenza di dimostrare il proprio pieno titolo di stare nella sinistra, correndo anche in più di un’occasione di snaturarsi.
In molti non colgono che è solo lo scenario globale me d europeo che può condizionare alla svolta socialista in Europa e quindi anche in Italia, e che la costante provocazione e denuncia dell’autarchia della sinistra italiana ,, in proiezione futura rappresenta un pericoloso rischio.
Nell’aspettare il Godot, della scelta socialista in Europa che SEL o PD dovrebbero fare, si finisce per inglobare nella visione europea, anche quelle “frattaglie di sinistra” che sparse vi sono, ma che servono solo per legittimare le diversità inconcludenti nostrane.
Ogni volta che in Italia si vengono a creare condizioni che consentano alla “sinistra” di assumere l’impegno e la responsabilità di governare, si mettono in moto le condizioni ostative promosse dalla pluralità di una sinistra, imprigionata nei propri soggettivismi e che si crogiola nell’ascolto ossessivo delle proprie ragioni, perché refrattaria ad ascoltare quelle degli altri.
Questa sindrome purtroppo tutta italiana, è assente o estremamente marginale nelle altre sinistre europee, che proprio per questo riescono ad essere considerate affidabili, e al contrario di quanto avviene da noi, sono destinatarie di ampi consensi sia sociali che elettorali.
In Europa questa sinistra è socialista, laburista e socialdemocratica, e tanto nei sistemi maggioritari quanto in quelli proporzionali, normalmente non va mai ricerca di alleanze ex ante, mai pragmaticamente solo ex post questo accade perché il consenso lo si cerca direttamente presso gli elettori: in forma ampia e possibilmente inclusiva, proponendo progetti che possano essere condivisibili anche oltre ai propri consolidati referenti, secondo la logica della vocazione maggioritaria, ed è anche per questo che “fenomeni abnormi” come quello di Berlusconi, non possono trovare riscontro.
La sindrome del “con chi allearsi” è tipicamente nostrana, in quanto spesso serve a sopperire l’assenza o l’inadeguatezza del progetto politico; e soprattutto perché solo in Italia si assiste ad una così esasperata frantumazione della sinistra, anche dopo la caduta del muro, che viene perpetuata in ossequio allo strumentale e autoreferenziale soggettivismo, gestito da“monaci” tanto instancabili quanto interessati, che pretenderebbero di scrivere regole da declinare come un “Talmud”o per una mai sopita e pregiudiziale concezione supportata in nome di una efficienza organizzativa.
Per illustrare questo represso scenario, il prolifico Franco D’Alfonso, è ricorso alla metafora delle sindromi di Alcatraz e di Macondo, evidenziando, come entrambe, siano più che mai geneticamente inadatte a poter essere recepite come un valore aggiunto, e tanto meno quale propellente per raccogliere quel consenso indispensabile per vincere le elezioni e per governare.
Che le diversità, siano una risorsa è più che scontato, ma non è detto che la loro manifestazione sia sempre opportuna, troppo spesso la loro errata proposizione e caratterizzazione sia in termini si spazi che in termini di tempo è stata la causa delle più cocenti sconfitte della sinistra italiana, e il suo perseverare trova raramente ostacoli come dimostrano l’approccio alle lezioni siciliane.
Da questa sindrome di vocazione minoritaria, solo di recente la sinistra italiana ha dato l’impressione di potersene liberare, ed è stato in occasione delle recenti elezioni amministrative di alcune città importanti: Milano, Napoli, Genova e Cagliari, tramite la positiva esperienza dei così detti “scenari arancioni”, nelle quali la pluralità di valori, di idee ed esperienze hanno permesso di promuovere scenari di effettiva discontinuità, e realizzare un’aggregazione di consensi che ha saputo travalicare il ristretto ambito di riferimento politico originale, in cui per anni si era litigiosamente rinchiusa, causa prima della sua lunga e gloriosa serie di sconfitte politiche e di erosione di consensi.
Se è pur vero che nelle esperienze “ arancioni ” di: Milano, Cagliari, Genova, Napoli, il combinato disposto alla base del successo è consistito nell’aver potuto individuare e indicare candidature, spontanee e coraggiose, prive di “reti di protezione o di condizionamento”, che sono potute emergere dal “percorso democratico ” adottato, che piaccia o non piaccia ai monaci dell’ortodossia, ai sofisti della conservazione, o ai legulei dei modelli, si configura nell’attuale congiuntura sociale e politica, quale unico sistema in grado di promuovere e stimolare la percezione di un più ampio senso di inclusione non che offrire la speranza che si possa realizzare un profondo cambiamento, nel quale la capacità e la volontà di creare condizioni di effettiva condivisione, oltre ad esserne il volano diventano il cardine per difendere la democrazia dalle influenze dei risorgenti populismi.
Qualsiasi cambiamento in corsa, sia nel caso di modificazione più o meno profonda dell’attuale sistema, sia nel caso di un suo radicale cambio di impostazione come evocato da alcuni, può essere perseguito solo attraverso un diverso esercizio della democrazia: dove la politica dell’annuncio privata dal conforto e dalla forza del riscontro, possa essere sostituita dalla politica del dialogo e dell’inclusione, realizzabili solo attraverso il radicamento nei modelli e nei processi di “governance”, di sistematici processi di condivisione proattiva, propedeutici a rendere plausibili, prima ancora che perseguibili le discontinuità che ci si promette di realizzare.
I sindaci arancioni, hanno avviato questo percorso, attivando la politica dell’ascolto, ma il successo vero sarà rappresentato dall’aver saputo introdurre e consolidare nel sistema di “governance” la più vasta capacità di inclusione per consolidare una siste4matizzata e larga condivisione nei processi di governo. Questo era l’ impegno programmatico dei candidati sindaci, e l’appello/auspicio di quel “ non lasciatemi solo”, lanciato da Giuliano Pisapia, gridato dal palco di Piazza del Duomo la sera della riconquista di Palazzo Marino.
Sono in troppi , che alla vigilia delle elezioni nazionali, preferiscono dribblare queste vittoriose esperienze, che sono state un successo perché hanno avuto il pregio di non annichilire le diversità, imponendo loro, però, di ricondurre il potenziale valore aggiunto in un sistema più ampio finalizzato all’obiettivo più ampio, disinnescando così “ ex ante ” il tradizionale e più che scontato rischio di pregiudiziali condizionamenti di cui non si sentiva e tutt’ora non si coglie l’utilità, e di cui è purtroppo ricca la tradizione della sinistra italiana, il cui ultimo esempio, ancor orfano di autocritiche, è il triste ricordo dell’esperienza del governo Prodi-Tommaso Schioppa , unico ad avere intuito la profondità della crisi incombente, e delle conseguenze che ne sarebbero potute derivare al nostro Paese.
Stati Generali o Stati Confusionali.
In Italia, quando non si ha o si è esaurito un progetto o non si sa più dove andare, vengono evocati, gli Stati Generali, ce ne sono di tutti i tipi e con diverse finalità, con l’obiettivo di individuare dove “poter o dover andare”, anche se sicuramente utili non si hanno ancora riscontri per comprendere se hanno saputo offrire un effetto leva per il perseguimento di risultati positivi ed interessanti.
Anche nella sinistra, sono venuti di moda, la loro agenda come spesso succede o è enciclopedica o assolutamente vaga e finalizzata stabilire il “ dimmi con chi vai e ti dirò che sei” o al massimo a ricercare vincolanti punti di intesa da rendere quali “milestone” dell’attività dell’eventuale futuro governo.
La storia degli Stati Generali, ci narra come essi, nati per tenere sotto controolo ai tentativi espansionistici della monarchia, si concludevano sempre per nell’alleanza tra la Borghesia e Clero a lasciando in minoranza il popolo e gli artigiani.
E’ assolutamente legittimo sospettare che anche gli Stati Generali così tanto evocati, e dalle presunte finalità taumaturgiche, finiscano per trasformarsi in un “Gymnasium” per esibizioni muscolari inconsistenti, o per sermoni di “monaci” in cerca di autore, o per incoronare principi d’antan o semi nuovi o peggio ancora per realizzare programmi per “imbalsamare” l’eventuale governo della sinistra.
In questo senso i segnali premonitori, ci sono tutti e sono di una tale evidenza, che volerli sottovalutare sarebbe un grave errore, così come vogliono fare alcuni socialisti, che per legittimarsi a pieno titolo, ricorrono all’abuso della suggestione retorica o rimettendo in circolazione “i carri funebri “ della gloriosa storia instradandoli in percorsi indistinti e privi di una meta percepibile.
Non si può restare prigionieri del passato, guardare il futuro con gli occhi del passato è solo come auto tutela delle proprie soggettività, e se senza una storia non si va da nessuna parte è altrettanto vero che il XXI° secolo ha ormai ben poco da spartire con il precedente.
Da tempo il dibattito politico della sinistra è cortocircuitato tra il come eravamo, o il come dobbiamo essere per tornare a governare, ad entrare nella stanza dei bottoni, senza peraltro sapere che cosa si può o si deve fare.
Lo scenario della crisi viene vissuto ed assimilato dalla sola prospettiva nazionale, come se fosse ormai consolidata nella sinistra la capacità di individuare la formula risolutiva nella convinzione cha da soli si può uscire da una crisi di dimensione globale (SIC).
La demonizzazione del capitalismo, del mercato,della globalizzazione, dell’Euro, della cessione di potestà, sono temi sui quali si converge da destra e sinistra, stupendosi poi che la gente non riesce più a distinguere con chiarezza.
L’”anarco-populismo”, l’evocazione di un federalismo su base etico ed economico, gli orfani dell’eurocomunismo, la senilità di ex ministri che scoprono il “mercatismo”, il rigetto delle regole e dei patti sottoscritti sono il vasto terreno sul quale si sono gettati Grillo, Di Pietro, la Lega,la Destra, comunisti e post comunisti, gli scettici dell’Euro di destra. Di centro e di sinistra, per alimentare un dibattito concentrato esclusivamente dal sistema elettorale, dal giustizialismo e dalla denuncia della macelleria sociale.
Non può sfuggire come in questo scenario il prioritario sapere dove andare, e il successivo come si può rimarrebbe sfumato, per concentrare il confronto sul “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei ”: classico rifugio per mascherare il vuoto di visioni e di strategie.
Si assisterà alla semplificare del dibattito nella sinistra, ricondotto nel vicolo cieco dell’antica diaspora solo italiana tra riformisti e radicali, un discorso assolutamente datato; la questione vera che va posta è quella di una sinistra che il cambiamento lo propone e lo vuole realizzare in uno scenario di coordinate e vincoli, e un’altra sinistra a vocazione minoritaria, la cui visione di cambiamento è proiettabile solo in contesti autarchici e/o antagonistici ( No TAV, Questioni Sociali ecc), con la suggestione di governare con la cultura dell’opposizione.
L’anima anarco-populista-corporativa rischia di rendere di difficile distinzione destra e sinistra trovando un denominatore comune, seppur agitato in modo contrapposto, nel giustizialismo, nel nuovismo fine a sé stesso.
Ma la questione centrale è come uscire con gli altri dall’attuale crisi, di come affrontiamo l’esigenza di ridurre il debito pubblico o di renderlo più garantito, come vogliamo concorrere a dare una nuova dimensione politica all’Europa, come difendere la moneta unica, come costruire un Tesoro europeo e come e con quali vincoli possa battere moneta, quali potestà rendere a fattor comune e quali ritenere indisponibili, quale mercato o quali mercati con quali regole, come dare regole alla globalizzazione, come affrontare il dramma occupazione, il ridisegno del welfare, le nuove relazioni tra capitale produttivo e lavoro, come sterilizzare e quali regole per il capitale finanziari ecc, e soprattutto come dare vita in Europa ad una sinistra transnazionale indispensabile per la trasformazione dell’Europa, perché se non si trasforma l’Europa difficilmente si potrà trasformare l’Italia.
Il dibatto che avrebbe dovuto precedere gli Stati Generali non c’è stato, e questa è una scelta voluta; è quindi più che ragionevole sia il pregiudizio sulla validità di questi Stati Generali così come il paventare che ancora una volta si trasformino in un boomerang per un eventuale successo della sinistra.
I socialisti
Come scrive Felice, sono tanti e dispersi, e ciascuno secondo abitudine sembra giocare per se stesso pensando di giocare per tutti; l’attrazione nei confronti degli Stati Generali, appare più come un’esigenza di dimostrare il proprio pieno titolo di stare nella sinistra, correndo anche in più di un’occasione di snaturarsi.
In molti non colgono che è solo lo scenario globale me d europeo che può condizionare alla svolta socialista in Europa e quindi anche in Italia, e che la costante provocazione e denuncia dell’autarchia della sinistra italiana ,, in proiezione futura rappresenta un pericoloso rischio.
Nell’aspettare il Godot, della scelta socialista in Europa che SEL o PD dovrebbero fare, si finisce per inglobare nella visione europea, anche quelle “frattaglie di sinistra” che sparse vi sono, ma che servono solo per legittimare le diversità inconcludenti nostrane.
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