sabato 8 novembre 2008

vittorio melandri: la politica che capisce

Ho sentito la presidente dei senatori del PD, senatrice Anna Finocchiaro, che peraltro ha esercitato ruoli sia nella giurisdizione, sia nel legislativo, sia nell’esecutivo, descrivere con una felice sintesi lo stato in cui versa il nostro paese (anche se francamente sembrava che a parlare fosse un soggetto venuto da Marte), ha detto la senatrice Finocchiaro che il nostro appare come: “un paese segnato dalla stanchezza dalla sfiducia e dal timore”.



È palesemente vero.



Poi nella stessa circostanza, interrogata dal suo intervistatore con una domanda relativa al fatto che il PD non avrebbe difeso i magistrati Forleo e De Magistris, la senatrice si è rivolta alla “politica che capisce” e mi ha fatto una sgradevolissima impressione.



Ha detto Finocchiaro….





“I magistrati non si difendono sempre e comunque, la politica che capisce sa che noi (il PD appunto) non siamo il partito dei magistrati siamo per la politica di una giustizia che funziona….”



Ergo, se ne ricava in modo molto chiaro, che essendo la domanda formulata con al centro soggetti quali i magistrati Forleo e De Magistris, “la politica che capisce” ha capito che Forleo e De Magistris sono magistrati che non fanno funzionare la magistratura, e questo credo che lo abbiano capito anche i magistrati, per cui quelli (ad esempio) come Forleo e De Magistris sanno da oggi che li sistema il PD, quelli (ad esempio) come Caselli e Colombo sanno da tempo che li sistema il Pdl, e gli altri, sanno da sempre che si sistemano da soli….vedi il prossimo Primo Presidente di Cassazione Corrado Carnevale.



E perdonate allora, dinnanzi a tanta impudicizia e mancanza di imbarazzo se mi lascio andare allo sproloquio che segue.



La legge è uguale per tutti.



Le leggi e la legalità che ne consegue, attengono alla fisiologia di una comunità umana (allo stadio di evoluzione che queste hanno a tutt’oggi raggiunto).



Il controllo di legalità è funzionale sia ad accompagnare la fisiologia suddetta, sia a mettere in evidenza i limiti che le leggi possono incorporare, sia ovviamente a contribuire a prevenire e a reprimere, l’insorgere di deviazioni dal corso legale, quando siano patologiche.



Il legislatore da un lato e la giurisdizione dall’altro non possono che ispirare il proprio autonomo comportamento a questi principi fondativi, e il potere esecutivo ha il “dovere” di favorire in ogni modo possibile e al meglio, la vita quotidiana dell’uno e dell’altra. In “regime” democratico infatti la separazione dei poteri e l’armonia fra gli stessi, tanto più avendo coscienza che l’armonia è tanto più necessaria in presenza di sempre possibili e inevitabili e fisiologici conflitti, è un’armonia che risponde ad una esiziale ragione di sopravvivenza della democrazia stessa.



Tutto questo in Italia è, oggi più di ieri, sconquassato dal bassissimo profilo della classe dirigente, bassissimo profilo culturale e morale, conseguenza logica dell’applicazione per sessant’anni di quella pratica antidemocratica per definizione, in uso in tutti i gangli vitali della nostra comunità, che è la pratica della cooptazione.

Pratica che impone che il cooptato sia più “imbecille” del cooptando, e che appunto, applicata senza soluzione di continuità per sessant’anni, ha portato oggi una classe dirigente complessivamente e drammaticamente imbecille, al “POTERE”.



Uno dei nodi della nostra comunità nazionale in cui questo stato di cose si riverbera con più devastanti conseguenze, è quello in cui si incardina il rapporto fra legislativo ed esecutivo (cioè la politica) da un lato, e giurisdizione dall’altro.



Il “primato” della politica in democrazia non è in discussione, ma “primato” non significa supremazia sempre e comunque, e non bastasse Montesquieu, mi aiuto con il bellissimo gioco del Poker, dove ad ogni mano si instaura una “supremazia”, quella del vincitore, ma restando fermo che l’ordine legale che lo fa di volta in volta nascere, è declinato “come quando fuori piove”, e restando pacifico che il massimo punteggio previsto dal “gioco”, la scala reale, sottostà alla condizione per cui quella minima batte la massima, la massima batte la media, e la media batte la minima, senza che nessuno dei giocatori sollevi scandalo per questo.



Vittorio Melandri

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