La delegazione italiana del gruppo socialista al Parlamento europeo
e il Partito Democratico organizzano:
UN’EUROPA INCLUSIVA, UN’EUROPA PER TUTTI
Martedì 7 Aprile ore 20:30
CAMERA del LAVORO di MILANO
Corso di Porta Vittoria, 13 - Milano
manifestazione con
MARTIN SCHULZ
Capogruppo PSE al Parlamento Europeo
Partecipano
ANTONIO PANZERI
ONORIO ROSATI
UMBERTO RANIERI
SILVIA GADDA
In allegato il volantino dell'iniziativa
Per Informazioni:
segreteria@antoniopanzeri.it
www.antoniopanzeri.
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
martedì 31 marzo 2009
Adriano Sofri su Sinistra e libertà
Adriano Sofri su Facebook ritorna su Sinistra e Libertà.
LETTERA A GIULIA (E RICCARDO) NENCINI
domenica 29 marzo 2009
Cara Giulia Nencini, chissà se tu, che hai vent’anni, hai orecchiato la famosa domanda di Stalin: “Quante divisioni ha il Papa?” Stalin, che era un orribile tiranno e credeva solo ai brutali rapporti di forza, voleva sapere quante divisioni militari avesse il Papa, e dunque voleva dire che, disarmato com’era, il Papa era insignificante. I tiranni sono anche fessi, come mostra il fatto che, benché Stalin sia morto malamente ma nel suo letto, i suoi eredi sovietici abbiano pagato molto caro il coraggio di un Papa disarmato come Giovanni Paolo II. Ora: quante divisioni ha la sinistra in Italia? Nessuna divisione militare, grazie al cielo: Berlusconi può dormire fra due guanciali. Ma può dormire fra quattro guanciali se si mette a contare quante divisioni aritmetiche ha la sinistra. Ieri leggevo in cronaca fiorentina un comicissimo (senza volere) articoletto che elencava i concorrenti di sinistra alle elezioni comunali imminenti: Ornella De Zordo per la lista cittadina “Perunaltracittà”; Valdo Spini per la lista civica “Insieme per Firenze”; “Rifondazione comunista non sosterrà De Zordo né Spini e non è chiaro se presenterà la candidatura dell’ex parlamentare Mercedes Frias”. Trema l’accordo fra Rifondazione e PdCI. Il PdCI è spaccato sull’accordo con Renzi (vincitore delle primarie del PD). La Sinistra anche. Eccetera. Comico, ho detto: farsesco, anche.
Ora, la Sinistra e Libertà cui è impegnato il tuo ottimo padre –che sarà ancora migliore dopo essersela vista così brutta- vanta per l’appuntamento europeo un accordo unitario fra socialisti (guidati appunto da tuo padre Riccardo), i fuorusciti dai Ds alla fondazione del PD, con Mussi e Fava, i Verdi, la quasi metà di Rifondazione guidata da Vendola e non so più chi ancora. E’ facile vedere che l’altra faccia dell’accordo “unitario”, che è per ora essenzialmente un rispettabile ma labile espediente elettorale, è quella di una precedente frantumazione tragicomica. Quando le cose vanno in pezzi, si può radunarle per incollare i cocci, o per spazzarle insieme nella pattumiera. Quando Berlusconi, la sera, davanti al caminetto, chiede a Bondi: “Quante divisioni ha la sinistra?”, Bondi gli risponde: “Molte, moltissime...”, e tutto nel salotto di Arcore è lusso e voluttà. Perché ci sono tante divisioni? C’è il retaggio di un passato. I socialisti hanno più ragioni di tutti di restar affezionati al loro passato, e anche di ricordarsi di che cosa gli ha fatto una parte del Pci, peraltro sempre più vecchia ed esigua, nella burrasca di Tangentopoli. Però pesa, almeno quanto una fedeltà, o una prigionia, al passato, l’impulso all’autoconservazione di leader, mezzi leader e apparati che non hanno voglia di fare altro o non hanno altro da fare. Questa autoconservazione prende a pretesto cose solenni come i principii, i programmi, la purezza e il rigore. Con una doppia ipocrisia. Una, più sgradevole e piccina, è l’incoerenza spettacolosa fra i principii retoricamente enunciati e la vita effettivamente vissuta. Il comunismo, per esempio, è un “dio che è fallito”: ma chi non ne vuole ancora registrare fallimento e bancarotta dovrebbe almeno perseguirlo nell’ambito più concretamente realizzabile, quello del personale modo di vivere. I politici di professione che si chiamano comunisti non danno l’impressione di una esistenza personale coerente con quel proclama. Purezza di principii e programmi è un pretesto, o tutt’al più una infantile illusione. Le visioni del mondo, le utopie e i programmi possono essere preziosi e numerosi e diversi quante sono le persone che vi si dedicano, ma è giusto dedicarvisi nella società, nei luoghi di lavoro e di studio, nel volontariato, nelle stesse relazioni private, dove si cambia un po’ il mondo e si cambia, poco o molto, se stessi. Ma la questione del governo è un’altra cosa. Al governo si concorre, e, una volta che si sia vinto, si va non a realizzare i propri programmi massimi, le proprie utopie, le proprie intransigenze personali. Si va ad attuare e proteggere un programma comune, limitato per necessità, compromissorio anche, ma molto migliore, o almeno molto meno peggiore, del governo promesso dall’altra parte politica. Dunque l’impegno politico deve prima di tutto riabituarsi a un disinteresse personale e di gruppo, e poi adeguarsi a una specie di doppia temperatura: quella alta, e in certi momenti bruciante, dell’impegno diretto, militante, nella società, e quella più tepida, più sfebbrata, del consenso della maggioranza e della responsabilità di un paese. Il contrario della scena indecente cui abbiamo assistito durante il governo Prodi, e che non a caso ha eccitato negli italiani non semplicemente una delusione e un distacco politico, ma un vero rigetto umano. Nella politica legata alla questione del governo bisogna subordinare la propria piccola percentuale e la rendita parassitaria che ne deriva –piccolo potere, vanità soddisfatta, finanziamenti pubblici, neanche tanto piccoli- all’interesse comune, alla conquista della maggioranza e alla sua coesione. Questa è la ragione forte, inesorabile, per auspicare un partito grande e davvero unitario, l’auspicio che stava dietro il Partito Democratico, e gli sta ancora dietro, sebbene si sia fatto così tardi, e l’entusiasmo abbia sempre più ceduto al disincanto o anche al rigetto. Ma non è una partita chiusa. Avrai visto anche tu la “ragazza” Debora (in realtà è una donna di 38 anni, quasi il doppio dei tuoi) cantare a Franceschini una canzone che non ti sembrerà diversa dalla tua. Ce ne sono tante, di persone così, nel PD: la gran maggioranza.
Non entrando nel PD, o uscendone, gli “intransigenti” hanno favorito il suo sabotaggio ad opera di fazioni burocratiche e personalità clericali e si sono condannati alla scomparsa dal parlamento italiano. Il PD ha avuto, per inettitudine o per una ingiustificatissima boria da grande partito, il torto di non aprirsi a un’area sociale e politica di sinistra che la lezione della rovina dell’alleanza di governo e del “voto utile” scelto da gran parte dell’elettorato avrebbe potuto restituire a un impegno più leale e lucido. Questo non è successo, e già era stato grave che il PD offrisse, contraddicendo se stesso sull’ “andare solo”, a Di Pietro l’apparentamento elettorale, e lo negasse ai socialisti e, ospitalità a parte, ai radicali. Dunque la coalizione di Sinistra e Libertà ha ragioni dalla sua, e bisogna augurarle di farcela, e io glielo auguro. Ma non certo perché la (difficile) eventualità che ce la faccia a superare il 4 per cento e a guadagnarsi i suoi due o tre o quattro parlamentari europei diventi il punto di partenza di una ricostruzione della sinistra riformatrice e libertaria che crescerà, come la ricottina della favola, fino a dare un governo riformatore e libertario all’Italia. La necessità di rimettersi insieme, di licenziare senza buonuscita notabili di mezza tacca e di vanità intera, di rifarsi la faccia dopo averla persa agli occhi di tanti italiani, compresi quelli generosamente di sinistra, resterebbe comunque. Se no, avanzerà in Italia un pluralismo fatto di una maggioranza autoritaria e forcaiola e una minoranza forcaiola e autoritaria. Questo è un gran problema per tuo padre. Ancora di più per te. Perciò auguri e saluti dal tuo Adriano Sofri.
LETTERA A GIULIA (E RICCARDO) NENCINI
domenica 29 marzo 2009
Cara Giulia Nencini, chissà se tu, che hai vent’anni, hai orecchiato la famosa domanda di Stalin: “Quante divisioni ha il Papa?” Stalin, che era un orribile tiranno e credeva solo ai brutali rapporti di forza, voleva sapere quante divisioni militari avesse il Papa, e dunque voleva dire che, disarmato com’era, il Papa era insignificante. I tiranni sono anche fessi, come mostra il fatto che, benché Stalin sia morto malamente ma nel suo letto, i suoi eredi sovietici abbiano pagato molto caro il coraggio di un Papa disarmato come Giovanni Paolo II. Ora: quante divisioni ha la sinistra in Italia? Nessuna divisione militare, grazie al cielo: Berlusconi può dormire fra due guanciali. Ma può dormire fra quattro guanciali se si mette a contare quante divisioni aritmetiche ha la sinistra. Ieri leggevo in cronaca fiorentina un comicissimo (senza volere) articoletto che elencava i concorrenti di sinistra alle elezioni comunali imminenti: Ornella De Zordo per la lista cittadina “Perunaltracittà”; Valdo Spini per la lista civica “Insieme per Firenze”; “Rifondazione comunista non sosterrà De Zordo né Spini e non è chiaro se presenterà la candidatura dell’ex parlamentare Mercedes Frias”. Trema l’accordo fra Rifondazione e PdCI. Il PdCI è spaccato sull’accordo con Renzi (vincitore delle primarie del PD). La Sinistra anche. Eccetera. Comico, ho detto: farsesco, anche.
Ora, la Sinistra e Libertà cui è impegnato il tuo ottimo padre –che sarà ancora migliore dopo essersela vista così brutta- vanta per l’appuntamento europeo un accordo unitario fra socialisti (guidati appunto da tuo padre Riccardo), i fuorusciti dai Ds alla fondazione del PD, con Mussi e Fava, i Verdi, la quasi metà di Rifondazione guidata da Vendola e non so più chi ancora. E’ facile vedere che l’altra faccia dell’accordo “unitario”, che è per ora essenzialmente un rispettabile ma labile espediente elettorale, è quella di una precedente frantumazione tragicomica. Quando le cose vanno in pezzi, si può radunarle per incollare i cocci, o per spazzarle insieme nella pattumiera. Quando Berlusconi, la sera, davanti al caminetto, chiede a Bondi: “Quante divisioni ha la sinistra?”, Bondi gli risponde: “Molte, moltissime...”, e tutto nel salotto di Arcore è lusso e voluttà. Perché ci sono tante divisioni? C’è il retaggio di un passato. I socialisti hanno più ragioni di tutti di restar affezionati al loro passato, e anche di ricordarsi di che cosa gli ha fatto una parte del Pci, peraltro sempre più vecchia ed esigua, nella burrasca di Tangentopoli. Però pesa, almeno quanto una fedeltà, o una prigionia, al passato, l’impulso all’autoconservazione di leader, mezzi leader e apparati che non hanno voglia di fare altro o non hanno altro da fare. Questa autoconservazione prende a pretesto cose solenni come i principii, i programmi, la purezza e il rigore. Con una doppia ipocrisia. Una, più sgradevole e piccina, è l’incoerenza spettacolosa fra i principii retoricamente enunciati e la vita effettivamente vissuta. Il comunismo, per esempio, è un “dio che è fallito”: ma chi non ne vuole ancora registrare fallimento e bancarotta dovrebbe almeno perseguirlo nell’ambito più concretamente realizzabile, quello del personale modo di vivere. I politici di professione che si chiamano comunisti non danno l’impressione di una esistenza personale coerente con quel proclama. Purezza di principii e programmi è un pretesto, o tutt’al più una infantile illusione. Le visioni del mondo, le utopie e i programmi possono essere preziosi e numerosi e diversi quante sono le persone che vi si dedicano, ma è giusto dedicarvisi nella società, nei luoghi di lavoro e di studio, nel volontariato, nelle stesse relazioni private, dove si cambia un po’ il mondo e si cambia, poco o molto, se stessi. Ma la questione del governo è un’altra cosa. Al governo si concorre, e, una volta che si sia vinto, si va non a realizzare i propri programmi massimi, le proprie utopie, le proprie intransigenze personali. Si va ad attuare e proteggere un programma comune, limitato per necessità, compromissorio anche, ma molto migliore, o almeno molto meno peggiore, del governo promesso dall’altra parte politica. Dunque l’impegno politico deve prima di tutto riabituarsi a un disinteresse personale e di gruppo, e poi adeguarsi a una specie di doppia temperatura: quella alta, e in certi momenti bruciante, dell’impegno diretto, militante, nella società, e quella più tepida, più sfebbrata, del consenso della maggioranza e della responsabilità di un paese. Il contrario della scena indecente cui abbiamo assistito durante il governo Prodi, e che non a caso ha eccitato negli italiani non semplicemente una delusione e un distacco politico, ma un vero rigetto umano. Nella politica legata alla questione del governo bisogna subordinare la propria piccola percentuale e la rendita parassitaria che ne deriva –piccolo potere, vanità soddisfatta, finanziamenti pubblici, neanche tanto piccoli- all’interesse comune, alla conquista della maggioranza e alla sua coesione. Questa è la ragione forte, inesorabile, per auspicare un partito grande e davvero unitario, l’auspicio che stava dietro il Partito Democratico, e gli sta ancora dietro, sebbene si sia fatto così tardi, e l’entusiasmo abbia sempre più ceduto al disincanto o anche al rigetto. Ma non è una partita chiusa. Avrai visto anche tu la “ragazza” Debora (in realtà è una donna di 38 anni, quasi il doppio dei tuoi) cantare a Franceschini una canzone che non ti sembrerà diversa dalla tua. Ce ne sono tante, di persone così, nel PD: la gran maggioranza.
Non entrando nel PD, o uscendone, gli “intransigenti” hanno favorito il suo sabotaggio ad opera di fazioni burocratiche e personalità clericali e si sono condannati alla scomparsa dal parlamento italiano. Il PD ha avuto, per inettitudine o per una ingiustificatissima boria da grande partito, il torto di non aprirsi a un’area sociale e politica di sinistra che la lezione della rovina dell’alleanza di governo e del “voto utile” scelto da gran parte dell’elettorato avrebbe potuto restituire a un impegno più leale e lucido. Questo non è successo, e già era stato grave che il PD offrisse, contraddicendo se stesso sull’ “andare solo”, a Di Pietro l’apparentamento elettorale, e lo negasse ai socialisti e, ospitalità a parte, ai radicali. Dunque la coalizione di Sinistra e Libertà ha ragioni dalla sua, e bisogna augurarle di farcela, e io glielo auguro. Ma non certo perché la (difficile) eventualità che ce la faccia a superare il 4 per cento e a guadagnarsi i suoi due o tre o quattro parlamentari europei diventi il punto di partenza di una ricostruzione della sinistra riformatrice e libertaria che crescerà, come la ricottina della favola, fino a dare un governo riformatore e libertario all’Italia. La necessità di rimettersi insieme, di licenziare senza buonuscita notabili di mezza tacca e di vanità intera, di rifarsi la faccia dopo averla persa agli occhi di tanti italiani, compresi quelli generosamente di sinistra, resterebbe comunque. Se no, avanzerà in Italia un pluralismo fatto di una maggioranza autoritaria e forcaiola e una minoranza forcaiola e autoritaria. Questo è un gran problema per tuo padre. Ancora di più per te. Perciò auguri e saluti dal tuo Adriano Sofri.
Vittorio Melandri: "L'azione spesso irresponsabile del PSI"
Cortese dott. Augias
Lei è un giornalista scrittore equilibrato, e non credo di peccare di piaggeria nel riconoscerlo a lei direttamente, e manco mi sembra, così facendo, di azzardare un “giudizio” fuori dalla mia portata, posto che l’opinione che esprimo, è sì certamente mia, ma si fonda sul suo pubblico parlare da anni in TV e sulla raccolta dei suoi scritti, libri, articoli, ed in particolare sulla raccolta della rubrica quotidiana di dialogo con noi lettori, che continua dal gennaio 2001 senza soluzione di continuità. Ovviamente equilibrio non significa equidistanza, e nemmeno vuol dire che si possa sempre essere d’accordo con quello che dice e scrive. Ciò premesso, trovo che abbia peccato proprio di mancanza di equilibrio, nello spendere proprio nella sua rubrica del 31 marzo u.s., la categorica affermazione che nell’immediato dopoguerra sarebbe stata “l’azione spesso irresponsabile del Partito socialista (che) aveva fatto montare un crescente bisogno di rigore e di ordine.” Lei è afflitto da anni dai miei scritti, e azzardo che un poco mi conosca, e si potrebbe essere fatto la giusta “convinzione” dell’esistenza di un mio “pregiudizio” favorevole al “socialismo”, prima ancora che ai Partiti che lo hanno impersonato in Italia, ma nel contestare la sua affermazione intendo spogliarmi del pre-giudizio, e tanto per fare un solo esempio, ricordo che se di una “azione irresponsabile” si è macchiato il Partito socialista dell’epoca, questa è stata quella di spendersi per la Repubblica contro la Monarchia, al referendum del 2 giugno 1946. Quella fu certo una azione capace di far “montare un crescente bisogno di rigore e di ordine”, che con qualche palese cedimento al sarcasmo, oso dire fu bilanciata quello stesso mese, il 13, dalla sobria partenza per l’esilio di Umberto II, e il 22, dalla cosiddetta “amnistia Togliatti”, che appunto al bisogno di “ordine e rigore” dette pronta risposta. Per concludere questa protesta che elevo nei suoi confronti, ricorro ad uno scambio di mail intercorso fra noi nell’aprile 2004. Al mio manifestarle disappunto per quanto scritto dal suo collega Pansa, che per celebrare il compleanno del fondatore de la Repubblica Eugenio Scalfari, scrisse che lo stesso Scalfari rivolgendosi alla redazione aveva fatto la battuta che se la Repubblica fosse diventata primo giornale del Paese “Voi”, della squadra avreste avuto diritto “allo stupro e al saccheggio”, lei rispose: “caro Melandri quella metafora che Scalfari avrà detto una o due volte facendo il verso ai romanzi della pirateria, vista scritta assumeva un tono gelido che non mi è piaciuto.” Ecco caro Augias, la sua affermazione che fissa nella mente dei suoi lettori l’esistenza nell’immediato dopoguerra di una “azione spesso irresponsabile del Partito socialista”, assume un tono gelido che non mi è piaciuto.
Con la cordialità di sempre, Vittorio Melandri
Lei è un giornalista scrittore equilibrato, e non credo di peccare di piaggeria nel riconoscerlo a lei direttamente, e manco mi sembra, così facendo, di azzardare un “giudizio” fuori dalla mia portata, posto che l’opinione che esprimo, è sì certamente mia, ma si fonda sul suo pubblico parlare da anni in TV e sulla raccolta dei suoi scritti, libri, articoli, ed in particolare sulla raccolta della rubrica quotidiana di dialogo con noi lettori, che continua dal gennaio 2001 senza soluzione di continuità. Ovviamente equilibrio non significa equidistanza, e nemmeno vuol dire che si possa sempre essere d’accordo con quello che dice e scrive. Ciò premesso, trovo che abbia peccato proprio di mancanza di equilibrio, nello spendere proprio nella sua rubrica del 31 marzo u.s., la categorica affermazione che nell’immediato dopoguerra sarebbe stata “l’azione spesso irresponsabile del Partito socialista (che) aveva fatto montare un crescente bisogno di rigore e di ordine.” Lei è afflitto da anni dai miei scritti, e azzardo che un poco mi conosca, e si potrebbe essere fatto la giusta “convinzione” dell’esistenza di un mio “pregiudizio” favorevole al “socialismo”, prima ancora che ai Partiti che lo hanno impersonato in Italia, ma nel contestare la sua affermazione intendo spogliarmi del pre-giudizio, e tanto per fare un solo esempio, ricordo che se di una “azione irresponsabile” si è macchiato il Partito socialista dell’epoca, questa è stata quella di spendersi per la Repubblica contro la Monarchia, al referendum del 2 giugno 1946. Quella fu certo una azione capace di far “montare un crescente bisogno di rigore e di ordine”, che con qualche palese cedimento al sarcasmo, oso dire fu bilanciata quello stesso mese, il 13, dalla sobria partenza per l’esilio di Umberto II, e il 22, dalla cosiddetta “amnistia Togliatti”, che appunto al bisogno di “ordine e rigore” dette pronta risposta. Per concludere questa protesta che elevo nei suoi confronti, ricorro ad uno scambio di mail intercorso fra noi nell’aprile 2004. Al mio manifestarle disappunto per quanto scritto dal suo collega Pansa, che per celebrare il compleanno del fondatore de la Repubblica Eugenio Scalfari, scrisse che lo stesso Scalfari rivolgendosi alla redazione aveva fatto la battuta che se la Repubblica fosse diventata primo giornale del Paese “Voi”, della squadra avreste avuto diritto “allo stupro e al saccheggio”, lei rispose: “caro Melandri quella metafora che Scalfari avrà detto una o due volte facendo il verso ai romanzi della pirateria, vista scritta assumeva un tono gelido che non mi è piaciuto.” Ecco caro Augias, la sua affermazione che fissa nella mente dei suoi lettori l’esistenza nell’immediato dopoguerra di una “azione spesso irresponsabile del Partito socialista”, assume un tono gelido che non mi è piaciuto.
Con la cordialità di sempre, Vittorio Melandri
Segnalazione: 1 aprile Sinistra e libertà di scelta
Sinistra e libertà di scelta
Facciamo e firmiamo insieme i nostri testamenti biologici
Mercoledì 1 aprile alla Casa della Cultura, Via Borgogna 3 (MM1 San Babila)
tra le 18 e le 23
Dalle 21 ne parliamo con:
Patrizia Borsellino, Docente di Filosofia del diritto e di Bioetica e Vice Presidente Consulta di Bioetica ONLUS
Arianna Cozzolino, Medico palliativista
Gianna Milano, Coautrice con Mario Riccio di "Storia di una morte opportuna. Il diario del medico che ha fatto la volontà di Welby"
Luciano Orsi, Medico palliativista
Introduce: Roberto Escobar, Docente di Filosofia politica
Sì al rispetto della Costituzione
Sì alla libertà di scelta
No alla legge sul falso testamento biologico
Sinistra per Milano - Zona 1
Facciamo e firmiamo insieme i nostri testamenti biologici
Mercoledì 1 aprile alla Casa della Cultura, Via Borgogna 3 (MM1 San Babila)
tra le 18 e le 23
Dalle 21 ne parliamo con:
Patrizia Borsellino, Docente di Filosofia del diritto e di Bioetica e Vice Presidente Consulta di Bioetica ONLUS
Arianna Cozzolino, Medico palliativista
Gianna Milano, Coautrice con Mario Riccio di "Storia di una morte opportuna. Il diario del medico che ha fatto la volontà di Welby"
Luciano Orsi, Medico palliativista
Introduce: Roberto Escobar, Docente di Filosofia politica
Sì al rispetto della Costituzione
Sì alla libertà di scelta
No alla legge sul falso testamento biologico
Sinistra per Milano - Zona 1
segnalazione: 3 aprile Livorno Mariella Gramaglia
Venerdì 3 aprile 2009, alle ore 21,30 presso la Gaia Scienza, via di Franco, 12 abbiamo l'occasione di incontrarci con Mariella Gramaglia che ci parlerà del suo libro: Indiana Nel cuore della democrazia più complicata del mondo (Donzelli editore).
Mariella Gramaglia è vissuta un anno nel subcontinente. Dopo un lungo impegno nel femminismo – è stata anche direttora di “Noi Donne” - nella politica italiana e nelle istituzioni - come parlamentare e poi come assessore alle politiche per la semplificazione e le pari opportunità del Comune di Roma. - ha scelto di dedicarsi a progetti di solidarietà e di promozione dei diritti. Ha lavorato in Gujarat, con Sewa (Self Employed Women’s Association), l’unico sindacato autonomo di donne nel mondo che conta un milione di iscritte, e in Tamil Nadu.
Vi aspettiamo
Mariella Gramaglia è vissuta un anno nel subcontinente. Dopo un lungo impegno nel femminismo – è stata anche direttora di “Noi Donne” - nella politica italiana e nelle istituzioni - come parlamentare e poi come assessore alle politiche per la semplificazione e le pari opportunità del Comune di Roma. - ha scelto di dedicarsi a progetti di solidarietà e di promozione dei diritti. Ha lavorato in Gujarat, con Sewa (Self Employed Women’s Association), l’unico sindacato autonomo di donne nel mondo che conta un milione di iscritte, e in Tamil Nadu.
Vi aspettiamo
lunedì 30 marzo 2009
The Guardian: l'ombra del fascismo
"It is a day of shame for Italy"
The Guardian: Italy, Fascism’s shadow
L'editoriale del 30 marzo del prestigioso quotidiano inglese The Guardian
Silvio Berlusconi's central objective as Italian prime minister has long appeared to be dazzlingly and shamelessly obvious. Ever since he strode into the political vacuum created in 1993 by the simultaneous government corruption scandal on the right and the collapse of Italian communism on the left, Mr Berlusconi has used his political career and power to protect himself and his media empire from the law. During the longest of his three periods as prime minister, Mr Berlusconi not only consolidated his already strong grip on the Italian media industry - he now owns around half of it - but passed legislation granting him immunity from prosecution. Then, when that law was ruled unconstitutional, the newly re-elected Mr Berlusconi brought it back in a new guise last year and has had it successfully signed into law.
Mr Berlusconi's success owes something to his own audacity and quite a lot to the deepening weakness of his opponents. The Italian left, in particular, has failed to mount an effective opposition. Yet Mr Berlusconi's latest action - the merger into his new People of Freedom bloc, completed yesterday, of his own Forza Italia party with the Allianza Nazionale which derives directly from Benito Mussolini's fascist tradition - may leave a more lasting mark on Italian public life than anything else the populist tycoon has done.
Unlike postwar Germany, postwar Italy never properly confronted its own fascist legacy. As a result, while neofascism has never seriously resurfaced in Germany, in Italy there were important continuities - inherited Mussolini-era laws and officials and the postwar rebirth of the renamed Fascist party among them - in spite of Italy's nominally anti-fascist public culture. Those continuities have just become stronger. It is a day of shame for Italy.
Nevertheless, the AN has come a long way in 60 years. Its leader, Gianfranco Fini, has discarded the old political garments and led his party towards the centre. He has worked for more than 15 years as Mr Berlusconi's ally. He talks about the need for dialogue with Islam, denounces antisemitism, and advocates a multi-ethnic Italy - positions which Mr Berlusconi, with his populist anti-gypsy and anti-immigrant campaigns and his fondness for soft-core racism, would struggle to match.
Despite its distant liberal origins, modern Italy is historically a rightwing country. Yet it is a very shocking thought that there will be one head of government among the 20 world leaders at the London economic summit this week who has now rebuilt his political base on foundations laid by fascists and who claims that the right is likely to remain in power for generations as a result.
(30 marzo 2009)
The Guardian: Italy, Fascism’s shadow
L'editoriale del 30 marzo del prestigioso quotidiano inglese The Guardian
Silvio Berlusconi's central objective as Italian prime minister has long appeared to be dazzlingly and shamelessly obvious. Ever since he strode into the political vacuum created in 1993 by the simultaneous government corruption scandal on the right and the collapse of Italian communism on the left, Mr Berlusconi has used his political career and power to protect himself and his media empire from the law. During the longest of his three periods as prime minister, Mr Berlusconi not only consolidated his already strong grip on the Italian media industry - he now owns around half of it - but passed legislation granting him immunity from prosecution. Then, when that law was ruled unconstitutional, the newly re-elected Mr Berlusconi brought it back in a new guise last year and has had it successfully signed into law.
Mr Berlusconi's success owes something to his own audacity and quite a lot to the deepening weakness of his opponents. The Italian left, in particular, has failed to mount an effective opposition. Yet Mr Berlusconi's latest action - the merger into his new People of Freedom bloc, completed yesterday, of his own Forza Italia party with the Allianza Nazionale which derives directly from Benito Mussolini's fascist tradition - may leave a more lasting mark on Italian public life than anything else the populist tycoon has done.
Unlike postwar Germany, postwar Italy never properly confronted its own fascist legacy. As a result, while neofascism has never seriously resurfaced in Germany, in Italy there were important continuities - inherited Mussolini-era laws and officials and the postwar rebirth of the renamed Fascist party among them - in spite of Italy's nominally anti-fascist public culture. Those continuities have just become stronger. It is a day of shame for Italy.
Nevertheless, the AN has come a long way in 60 years. Its leader, Gianfranco Fini, has discarded the old political garments and led his party towards the centre. He has worked for more than 15 years as Mr Berlusconi's ally. He talks about the need for dialogue with Islam, denounces antisemitism, and advocates a multi-ethnic Italy - positions which Mr Berlusconi, with his populist anti-gypsy and anti-immigrant campaigns and his fondness for soft-core racism, would struggle to match.
Despite its distant liberal origins, modern Italy is historically a rightwing country. Yet it is a very shocking thought that there will be one head of government among the 20 world leaders at the London economic summit this week who has now rebuilt his political base on foundations laid by fascists and who claims that the right is likely to remain in power for generations as a result.
(30 marzo 2009)
Piero Graglia: Elezioni europee
Dal sito di libertà e Giustizia
Elezioni europee: di fronte alla crisi, un’occasione preziosa
Piero S. Graglia*, 30-03-2009 stampa questo articolo
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Le elezioni europee sono sempre state un appuntamento ambiguo nella percezione politica italiana. Lungi dal registrare un’affluenza paragonabile a quella delle elezioni nazionali, esse assumono sempre, paradossalmente, una valenza interna che supera ampiamente la dimensione originaria di questo importante appuntamento elettorale. Il risultato, paradossale anch’esso, è che invece di discutere e confrontarsi su temi e questioni europee – che sono, si badi bene, ben presenti e pregnanti se solo si esce un poco dal proprio guscio – ci si limita a discutere e confrontarsi su questioni nazionali, su fattori interni, su beghe caratteristiche della dialettica politica italiana che, spesso, trascendono in farsa. Basterebbe dare un’occhiata ai vecchi manifesti elettorali affissi per le strade italiane durante le precedenti campagne elettorali europee (oppure divertirsi a guardare le «Tribune elettorali» di repertorio) per rendersi conto di quanto epidermico, strumentale e poco sentito – in tutti i partiti – fosse il riferimento alla dimensione europea e quanto invece fosse centrale la polemica politica nazionale.
Fecero eccezione forse, durante le elezioni europee del giugno 1989, i richiami di esponenti del Pci e della Dc all’importanza di votare, in quella consultazione, anche una scheda aggiuntiva che richiedeva all’elettorato italiano di esprimere un’opinione sull’attribuzione al Parlamento europeo di un esplicito mandato costituente. Democristiani e comunisti non cedevano alla tentazione di fare della propaganda politica d’occasione, ma avevano colto bene l’importanza di una consultazione bipartisan che doveva essere un segnale anche per gli altri Paesi europei: invocare un mandato costituente per il Parlamento di un’Europa che aveva appena tagliato il traguardo dei dodici posti a tavola. Si trattava dell’ultimo, postumo atto di un’azione che il parlamentare italiano Altiero Spinelli (scomparso nel 1986) aveva avviato nove anni prima con la fondazione del club del coccodrillo e la successiva elaborazione di un progetto di trattato sull’Unione europea. Trattato che, predisposto dalla Commissione istituzionale del Parlamento europeo nel 1984, era stato trasfigurato e trasformato nell’Atto Unico europeo del 1987 senza tenere in alcun conto la volontà dell’Assemblea eletta e rappresentante del demos europeo. Si tratta però, dell’unico ricordo confortante (venne registrato un 90 % di «sì») in una lunga rassegna di consultazioni che non misero al centro, mai, i problemi della Comunità europea.
Non vogliamo credere che anche per queste elezioni si riproponga la stessa assurdità di non confrontarsi con il fattore «Europa politica».
Non vogliamo pensare che mentre il processo di riforma dei trattati langue come una montagna stanca, avendo partorito un piccolo topolino mezzo morto che chiamiamo Trattato di Lisbona, in Italia ci si preoccupi se la possibile perdita di due punti percentuali della Lega Nord alle Europee significhi il rimpasto del governo o se un eventuale crescita del PD sia un plebiscito pro-Franceschini.
Non vogliamo immaginare che mentre l’Unione a 27 si confronta con il problema della gestione di un allargamento doveroso fatto con istituzioni inadeguate e i 16 governi di Eurolandia ricercano a fatica soluzioni coordinate con gli Stati Uniti per la crisi economica, qui in Italia si assista a una campagna elettorale incentrata sul problema delle intercettazioni telefoniche, delle relazioni governo-magistratura, dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Non vogliamo crederci, pensarci e immaginarlo, ma temiamo che così sarà. Un pessimo segnale in questo senso è stato il rifiuto che il governo italiano ha opposto verso la campagna di sensibilizzazione preparata da un’agenzia pubblicitaria tedesca per conto del Parlamento europeo. Una campagna che ovviamente non prende posizione per alcuna parte politica ma vuole richiamare l’importanza e il significato dell’appuntamento elettorale di giugno, momento in cui il popolo europeo elegge, fuori da ogni retorica, il proprio organo rappresentativo. Non sappiamo con cosa il governo italiano voglia sostituire la campagna informativa promossa dal parlamento europeo, ma di certo sarà qualcosa pensato, preparato e predisposto per celebrare il supposto impegno europeista di una parte sola, quella che al momento governa il nostro Paese. Se poi si aggiunge il fatto che nulla si sa, fino a oggi, circa la qualità e la preparazione sulle questioni europee dei candidati che verranno presentati dalle diverse forze politiche, c’è una ragione di più per essere preoccupati. Non è infatti impossibile che si assista ancora una volta a due operazioni distinte ma coordinate. Da un lato la candidatura di persone che già ricoprono incarichi parlamentari o di governo in Italia; una cosa che si configura come un vero e proprio specchietto per le allodole, poiché dal 2002 esiste una incompatibilità assoluta tra il mandato parlamentare, di consigliere regionale o di membro di governo nazionale con il mandato di parlamentare europeo: in altre parole, Berlusconi non andrà mai al PE, a meno che non decida per le dimissioni da Presidente del Consiglio dei ministri italiano e lo stesso dicasi per tutti i parlamentari che sfrutteranno il «volano elettorale» della loro notorietà. Dall’altro lato si paventa l’inserimento in lista di una caterva di cantanti, attori, soubrette, ballerini, volti noti e meno noti; tutte persone degnissime, ma che conoscono dell’Europa solo ciò che leggono sulle banconote in euro che usano per pagare il benzinaio.
In questo desolante panorama, vi sono comunque dei segnali che vanno controcorrente. Pochi giorni fa è stato pubblicato su «Il Riformista» e su «l’Unità» un appello (firmato, tra gli altri, da Giovanni Bachelet, Gianni Cuperlo, Sandro Gozi, Cristina Comencini) che invita il PD a svecchiare le liste e inserirvi persone che abbiano una competenza specifica sulle questioni europee; invece, per quanto riguarda un’iniziativa diretta non a un solo partito ma all’insieme del panorama politico europeo, il Centro studi Notre-Europe di Parigi, creazione di Jacques Delors oggi diretta da Tommaso Padoa Schioppa, ha preparato insieme ad altri quattro istituti europei (The Federal Trust di Londra, l’Istituto Affari Internazionali di Roma, l’Institut für Europäische Politik di Berlino e il Centro Studi sul federalismo di Torino) un appello che, rilevando come ci si trovi oggi di fronte a problemi che travalicano la possibilità di intervento anche degli stati europei più grandi e forti economicamente, richiama l’importanza della creazione di un dibattito politico europeo, animato da forze politiche europee, per una scelta responsabile e condivisa non solo dei futuri membri del Parlamento europeo ma anche per la definizione del presidente della Commissione (la cui indicazione dovrebbe costituire un momento fondamentale della campagna elettorale per il Parlamento europeo).
Piccole cose, si dirà, che certo non entreranno nelle scalette dei nostri telegiornali con la forza di un servizio sui mali della mezza stagione o sulle nuove frontiere per la cura della calvizie, ma si tratta pur sempre di contributi autorevoli in grado di tenere desta l’attenzione su un fatto che nessuna banalizzazione o snobismo può negare: oggi la dimensione economica dell’integrazione ha superato a tale punto l’esistenza di 27 stati distinti, che una riflessione sulla mancanza dell’Europa politica si impone. Così come si imponeva ai tempi della Comunità europea di difesa (1950-1954) o dopo la caduta del muro di Berlino (1989) o quando si cominciò a realizzare il «grande allargamento» dell’Unione a est (2000). Ma oggi, rispetto a questi momenti di svolta nella storia dell’integrazione europea, c’è qualcosa di diverso: non esiste più la guerra fredda e la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica; non c’è l’euforia per la caduta di un sistema che divideva gli europei e le coscienze e le culture; non c’è più l’ottimismo che a Nizza aveva addirittura portato alla preparazione di un Carta dei diritti dell’Unione europea. Oggi c’è solo una crisi, pesante, presente, terribile che il sistema di welfare europeo non basterà ad allontanare o a esorcizzare. Una crisi che la Banca centrale europea, con alle spalle 16 governi rissosi e litigiosi, non può affrontare con la risolutezza che una Federal Reserve – con alle spalle un giovane presidente grintoso che decide da solo – può vantare.
Strano che i decisionisti nostrani, che pure si dicono ammiratori di Erasmo da Rotterdam e di Machiavelli, non abbiano mai guardato alla situazione europea in questi termini. L’Europa ha bisogno di un governo che dia spessore e dimensione internazionale al principale attore economico e commerciale del mondo; ha bisogno di un parlamento che, nell’ambito delle sue competenze, concorrenti e distinte da quelle degli stati nazionali secondo il principio della sussidiarietà, agisca con decisione e con trasparenza; ha bisogno di una azione istituzionale che vada oltre le battute ad effetto e le trombonate sul destino europeista dell’Italia e sull’unità del mondo. Oggi, qua e adesso siamo in Europa, non l’Europa che ha sognato De Gasperi né quella che ha immaginato Spinelli, ma qualcosa per certi versi superiore ai loro progetti, e per altri ancora informe e timida. Per questo la prossima legislatura deve essere legislatura costituente con l’obiettivo della creazione della nostra Patria Europa. Partendo con un processo anche limitato, coinvolgendo anche solo i Paesi che riescono a superare i limiti di un rinato nazionalismo, ma agendo in maniera decisa per creare il nucleo della futura Unione politica europea, sviluppo e approfondimento dell’esistente Unione economica.
Tutti i candidati, di qualsiasi parte politica, dovrebbero avere coscienza di questo, di ciò che li aspetta, e di ciò che ci si aspetta da loro.
*L'autore, storico della vita e del pensiero di Altiero Spinelli, è ricercatore a Milano in Storia delle Relazioni Internazionali
Elezioni europee: di fronte alla crisi, un’occasione preziosa
Piero S. Graglia*, 30-03-2009 stampa questo articolo
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Le elezioni europee sono sempre state un appuntamento ambiguo nella percezione politica italiana. Lungi dal registrare un’affluenza paragonabile a quella delle elezioni nazionali, esse assumono sempre, paradossalmente, una valenza interna che supera ampiamente la dimensione originaria di questo importante appuntamento elettorale. Il risultato, paradossale anch’esso, è che invece di discutere e confrontarsi su temi e questioni europee – che sono, si badi bene, ben presenti e pregnanti se solo si esce un poco dal proprio guscio – ci si limita a discutere e confrontarsi su questioni nazionali, su fattori interni, su beghe caratteristiche della dialettica politica italiana che, spesso, trascendono in farsa. Basterebbe dare un’occhiata ai vecchi manifesti elettorali affissi per le strade italiane durante le precedenti campagne elettorali europee (oppure divertirsi a guardare le «Tribune elettorali» di repertorio) per rendersi conto di quanto epidermico, strumentale e poco sentito – in tutti i partiti – fosse il riferimento alla dimensione europea e quanto invece fosse centrale la polemica politica nazionale.
Fecero eccezione forse, durante le elezioni europee del giugno 1989, i richiami di esponenti del Pci e della Dc all’importanza di votare, in quella consultazione, anche una scheda aggiuntiva che richiedeva all’elettorato italiano di esprimere un’opinione sull’attribuzione al Parlamento europeo di un esplicito mandato costituente. Democristiani e comunisti non cedevano alla tentazione di fare della propaganda politica d’occasione, ma avevano colto bene l’importanza di una consultazione bipartisan che doveva essere un segnale anche per gli altri Paesi europei: invocare un mandato costituente per il Parlamento di un’Europa che aveva appena tagliato il traguardo dei dodici posti a tavola. Si trattava dell’ultimo, postumo atto di un’azione che il parlamentare italiano Altiero Spinelli (scomparso nel 1986) aveva avviato nove anni prima con la fondazione del club del coccodrillo e la successiva elaborazione di un progetto di trattato sull’Unione europea. Trattato che, predisposto dalla Commissione istituzionale del Parlamento europeo nel 1984, era stato trasfigurato e trasformato nell’Atto Unico europeo del 1987 senza tenere in alcun conto la volontà dell’Assemblea eletta e rappresentante del demos europeo. Si tratta però, dell’unico ricordo confortante (venne registrato un 90 % di «sì») in una lunga rassegna di consultazioni che non misero al centro, mai, i problemi della Comunità europea.
Non vogliamo credere che anche per queste elezioni si riproponga la stessa assurdità di non confrontarsi con il fattore «Europa politica».
Non vogliamo pensare che mentre il processo di riforma dei trattati langue come una montagna stanca, avendo partorito un piccolo topolino mezzo morto che chiamiamo Trattato di Lisbona, in Italia ci si preoccupi se la possibile perdita di due punti percentuali della Lega Nord alle Europee significhi il rimpasto del governo o se un eventuale crescita del PD sia un plebiscito pro-Franceschini.
Non vogliamo immaginare che mentre l’Unione a 27 si confronta con il problema della gestione di un allargamento doveroso fatto con istituzioni inadeguate e i 16 governi di Eurolandia ricercano a fatica soluzioni coordinate con gli Stati Uniti per la crisi economica, qui in Italia si assista a una campagna elettorale incentrata sul problema delle intercettazioni telefoniche, delle relazioni governo-magistratura, dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Non vogliamo crederci, pensarci e immaginarlo, ma temiamo che così sarà. Un pessimo segnale in questo senso è stato il rifiuto che il governo italiano ha opposto verso la campagna di sensibilizzazione preparata da un’agenzia pubblicitaria tedesca per conto del Parlamento europeo. Una campagna che ovviamente non prende posizione per alcuna parte politica ma vuole richiamare l’importanza e il significato dell’appuntamento elettorale di giugno, momento in cui il popolo europeo elegge, fuori da ogni retorica, il proprio organo rappresentativo. Non sappiamo con cosa il governo italiano voglia sostituire la campagna informativa promossa dal parlamento europeo, ma di certo sarà qualcosa pensato, preparato e predisposto per celebrare il supposto impegno europeista di una parte sola, quella che al momento governa il nostro Paese. Se poi si aggiunge il fatto che nulla si sa, fino a oggi, circa la qualità e la preparazione sulle questioni europee dei candidati che verranno presentati dalle diverse forze politiche, c’è una ragione di più per essere preoccupati. Non è infatti impossibile che si assista ancora una volta a due operazioni distinte ma coordinate. Da un lato la candidatura di persone che già ricoprono incarichi parlamentari o di governo in Italia; una cosa che si configura come un vero e proprio specchietto per le allodole, poiché dal 2002 esiste una incompatibilità assoluta tra il mandato parlamentare, di consigliere regionale o di membro di governo nazionale con il mandato di parlamentare europeo: in altre parole, Berlusconi non andrà mai al PE, a meno che non decida per le dimissioni da Presidente del Consiglio dei ministri italiano e lo stesso dicasi per tutti i parlamentari che sfrutteranno il «volano elettorale» della loro notorietà. Dall’altro lato si paventa l’inserimento in lista di una caterva di cantanti, attori, soubrette, ballerini, volti noti e meno noti; tutte persone degnissime, ma che conoscono dell’Europa solo ciò che leggono sulle banconote in euro che usano per pagare il benzinaio.
In questo desolante panorama, vi sono comunque dei segnali che vanno controcorrente. Pochi giorni fa è stato pubblicato su «Il Riformista» e su «l’Unità» un appello (firmato, tra gli altri, da Giovanni Bachelet, Gianni Cuperlo, Sandro Gozi, Cristina Comencini) che invita il PD a svecchiare le liste e inserirvi persone che abbiano una competenza specifica sulle questioni europee; invece, per quanto riguarda un’iniziativa diretta non a un solo partito ma all’insieme del panorama politico europeo, il Centro studi Notre-Europe di Parigi, creazione di Jacques Delors oggi diretta da Tommaso Padoa Schioppa, ha preparato insieme ad altri quattro istituti europei (The Federal Trust di Londra, l’Istituto Affari Internazionali di Roma, l’Institut für Europäische Politik di Berlino e il Centro Studi sul federalismo di Torino) un appello che, rilevando come ci si trovi oggi di fronte a problemi che travalicano la possibilità di intervento anche degli stati europei più grandi e forti economicamente, richiama l’importanza della creazione di un dibattito politico europeo, animato da forze politiche europee, per una scelta responsabile e condivisa non solo dei futuri membri del Parlamento europeo ma anche per la definizione del presidente della Commissione (la cui indicazione dovrebbe costituire un momento fondamentale della campagna elettorale per il Parlamento europeo).
Piccole cose, si dirà, che certo non entreranno nelle scalette dei nostri telegiornali con la forza di un servizio sui mali della mezza stagione o sulle nuove frontiere per la cura della calvizie, ma si tratta pur sempre di contributi autorevoli in grado di tenere desta l’attenzione su un fatto che nessuna banalizzazione o snobismo può negare: oggi la dimensione economica dell’integrazione ha superato a tale punto l’esistenza di 27 stati distinti, che una riflessione sulla mancanza dell’Europa politica si impone. Così come si imponeva ai tempi della Comunità europea di difesa (1950-1954) o dopo la caduta del muro di Berlino (1989) o quando si cominciò a realizzare il «grande allargamento» dell’Unione a est (2000). Ma oggi, rispetto a questi momenti di svolta nella storia dell’integrazione europea, c’è qualcosa di diverso: non esiste più la guerra fredda e la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica; non c’è l’euforia per la caduta di un sistema che divideva gli europei e le coscienze e le culture; non c’è più l’ottimismo che a Nizza aveva addirittura portato alla preparazione di un Carta dei diritti dell’Unione europea. Oggi c’è solo una crisi, pesante, presente, terribile che il sistema di welfare europeo non basterà ad allontanare o a esorcizzare. Una crisi che la Banca centrale europea, con alle spalle 16 governi rissosi e litigiosi, non può affrontare con la risolutezza che una Federal Reserve – con alle spalle un giovane presidente grintoso che decide da solo – può vantare.
Strano che i decisionisti nostrani, che pure si dicono ammiratori di Erasmo da Rotterdam e di Machiavelli, non abbiano mai guardato alla situazione europea in questi termini. L’Europa ha bisogno di un governo che dia spessore e dimensione internazionale al principale attore economico e commerciale del mondo; ha bisogno di un parlamento che, nell’ambito delle sue competenze, concorrenti e distinte da quelle degli stati nazionali secondo il principio della sussidiarietà, agisca con decisione e con trasparenza; ha bisogno di una azione istituzionale che vada oltre le battute ad effetto e le trombonate sul destino europeista dell’Italia e sull’unità del mondo. Oggi, qua e adesso siamo in Europa, non l’Europa che ha sognato De Gasperi né quella che ha immaginato Spinelli, ma qualcosa per certi versi superiore ai loro progetti, e per altri ancora informe e timida. Per questo la prossima legislatura deve essere legislatura costituente con l’obiettivo della creazione della nostra Patria Europa. Partendo con un processo anche limitato, coinvolgendo anche solo i Paesi che riescono a superare i limiti di un rinato nazionalismo, ma agendo in maniera decisa per creare il nucleo della futura Unione politica europea, sviluppo e approfondimento dell’esistente Unione economica.
Tutti i candidati, di qualsiasi parte politica, dovrebbero avere coscienza di questo, di ciò che li aspetta, e di ciò che ci si aspetta da loro.
*L'autore, storico della vita e del pensiero di Altiero Spinelli, è ricercatore a Milano in Storia delle Relazioni Internazionali
Attilio Mangano: Dove stiamo andando?
Non credo di essere il solo che si chiede cosa succede oggi dentro quello che
chiamiamo CRISI , nei processi molecolari della società, nella percezione stessa
del problema, nelle trasformazioni in corso di cui sappiamo solo quello che ci
viene raccontato dai media.
Io stesso provo intanto a raccontare i piccoli episodi che capitano davanti ai
miei occhi, ben sapendo che sono solo dei segnali, dei sintomi, non una
spiegazione. Il fornaio mi racconta che la gente compra di meno e che lui
stesso dopo aver sentito in televisione Berlusconi che invitava le banche a
finanziare e a fare prestiti è andato nella sua banca ma il direttore gli ha
risposto che Berlusconi può dire quello che vuole ma lui può solo rispondere "
marameo" alle sue riichieste. Il barbiere mi spiega che i clienti risparmiano
su qualcosa, magari non fanno più lo shampoo, però la cosa che più lo preoccupa
è aver visto in centro, accanto al Duomo, un emigrato che faceva pipì in strada
e aver chiesto al vigile di intervenire,senza essere ascoltato. Mi ricordo che a
suo tempo anche Oriana Fallaci aveva raccontato una storia simile. Al bar
tabacchi, in cui il proprietario è un tipico fascista alla buona, tutto sport e
giochi elettronici sempre pronto a parlar male della sinistra, la preoccupazione
sul futuro è tangibile, lui stesso è uno che non crede che Berlusconi possa far
niente.
Venerdì sera vado in centro a vedere il film di Clint Eastwood, poca gente,
barboni che dormono per terra accanto al cinema, un senso di abbandono. Sono
solo impressioni, segnali, una specie di silenzioso pensare a se stessi , un
misto di insicurezza e di rincorsa al si salvi chi può-
Leggo un intervista a Mario Tronti in cui lo studioso dichiara che ."la
realtà è molto più drammatica di come viene percepita. E' forte la percezione
individuale della crisi da parte di chi vive in vicinanza con il mondo dei
semplici. Nessuno sta più sicuro sul suo posto di lavoro, si è scavalcato il
problema della precarietà di una parte perché essa conquista l'intero mondo del
lavoro. La crisi ricade sulla vita quotidiana, nelle case, nelle famiglie, si
vive male. Però manca la percezione pubblica, il tema non viene gridato"
.Credo che siano osservazioni veritiere ma al tempo stesso si possono indicare e
cercare in giro altri indicatori,questa volta diversi, ha ragione De Rita quando
osserva che in fondo quella che sembrava costituire l'arretratezza storica del
nostro paese, le cento città, ognuna con le sue storie e le sue regole, si
rivela non più un limite ma un fattore dinamico, che non consente una
generalizzazione interpretativa, ci sono buchi paurosi ma anche zone in nuova
ripresa, in una coesistenza singolarissima, il paesaggio sociale cambia.
Ha ragione Alberoni quando segnala lo strano fenomeno di una espansione dei
consumi culturali in giro e anche altre spinte a produzioni culturali diverse,
alla creazione di idee ed esperienze. C'è spesso intorno a noi una nuova e
operosa cultura del " fare", di cui sfuggono i contorni. Ma quello che continua
a fare problema è proprio il fatto che processi vecchi e nuovi si intrecciano.
Accanto a perdite di posti di lavoro, nuovo precariato etc. c'è una rete di
lavoro nero che coinvolge tre milioni di persone,accanto ai razzismi
striscianti,ai centri di controllo per espellere gli emigranti c'è una realtà
di continuo aumento sotterraneo ma visibile dell'emigrazione stessa,accanto alle
microviolenze e agli stupri , ai bullismi giovanili, agli abusi di droghe e
alcool, troviamo molti altri aspetti che ci sfuggono, ci si sposa sempre meno
ma in compenso aumentano i matrimoni misti, nelle scuole tra pochi anni gli
studenti di origine stranieri saranno la maggioranza, non so se è bene o male,
so solo che questo è un nuovo meticciato sociale destinato a produrre
mutazioni: non sappiamo ancora niente dei giovani figli di emigrati di prima
generazione, se i processi integrativi in senso antropologico e culturale
funzioneranno in qualche modo o se le nevrosi di disadattamento e di isolamento
moltiplicheranno bande e gruppi, Saviano ci spiega come funziona Gomorra e
stiamo cominciando a capire che parole come questione meridionale, mafia etc
non designano le stesse cose, che gli intrecci di economia legale e criminalità
li abbiamo sotto casa. E potrei continuare con questo elenco di diversificazioni
e contraddizioni che fa saltare le categorie con cui " a sinistra" si leggevano
le cose, il lavoro è cambiato, il paesaggio lavorativo è frammentato e
diffuso, i sindacati raccolgono e organizzano solo una piccola parte del mondo
del lavoro, i processi di socializzazione non sono lineari, non lo sono a scuola
e non lo sono nelle parrocchie, il disordine è grande ma non sappiamo
riconoscere al suo interno gli aspetti unificanti e quelli disgreganti.
Siamo sicuri che quello che sta muovendosi davanti ai nostri occhi sia solo e
tutto una somma di conformismi, microviolenze, razzismi, o non sia invece una
trasformazione più complicata per la quale ci mancano le lenti, la chiave di
lettura? La polemica contro un berlusconismo che minimizza la gravità della
crisi inventando nuove armi di " distrazione di massa" e gestendo paure e
insicurezze per moltiplicare un bisogno d'ordine rischia di cadere in nuovi
stereotipi interpretativi in cui quella che si chiamava " sinistra" è sospinta a
credere che si tratti di un trappolone , di un inganno.
Esemplare in questo senso l'articolo di oggi su L'UNITA' di Concita De
Gregorio, intitolato in modo significativo " La fiaba e la realtà" -"
"Nel giorno dell`apoteosi del profeta della Terza era della Ricostruzione
(nessuno sa quali siano le prime due, forse le avremo più avanti come in Guerre
stellari) ogni altra notizia impallidisce. Abbiamo assistito ieri mattina
all`incoronazione per acclamazione di un uomo che ha distribuito in pergamena il
suo discorso di 15 anni fa - rilegato in un libro fiabesco - e che lo ha
ripetuto quasi identico oggi, del tutto incurante di quel che accade nella vita
attorno a lui. Un uomo che ignora la realtà: semplicemente la racconta come
vorrebbe che fosse. La scuola degli e-book e i pieni poteri al capo. Lui stesso
capolista alle Europee, cosa volete che sia se è del tutto evidente che non
lascerà Palazzo Chigi per andare a Strasburgo. Una candidatura di bandiera, ha
detto sfidando Franceschini a fare altrettanto. Quale bandiera? I voti li prende
lui e in Europa ci andrà qualcun altro come del resto è accaduto e accadrà
(vedrete Bologna e Firenze) nelle Regioni e nelle città. Tuttavia va detto, lo
scriviamo nella cronaca, che non c`è niente di plastificato né di ingigantito
-15 anni dopo la fondazione - nel mondo di proseliti, l`Esercito del Bene giusto
ieri incaricato con gesto solenne di farsi nel Paese «missionario della
libertà». É divenuto nel tempo, il Popolo berlusconiano, un mondo reale di
persone reali, un`Italia che ha scelto il posto al sole, quello delle promesse e
delle illusioni: un`Italia (come spesso è accaduto nella storia) semplicemente
appagata dallo stare con chi vince. Si mescolano così i volti lombrosiani degli
antichi camerati di An con quelli incolpevoli dei diciottenni che nel `94
andavano all`asilo, coetanei di Araba Dell`Utri quando seienne manifestava per
il mantenimento dei Puffi nelle tv dell`amico di papà. Si confondono i garofani
dei socialisti con gli ex dc siciliani oggi autonomisti per convenienza,
assessori incaricati di costruire il ponte sullo Stretto e imprenditori ansiosi
di realizzarlo, un immenso sottobosco di potere dove si intrecciano interessi
bancari e richieste di particine tv, preti ed ex radicali, belle ragazze e
vecchie volpi, quarantenni felici di essere missionari in un mondo di villette
bifamiliari in Brianza in procinto di avere un vano in più. Berlusconi il
profeta annuncia che arriverà al 51 per cento e la folla lo osanna: in assenza
di argini non è detto che non gli riesca. Quanto alla al , proviamo a fare un
sunto delle notizie che ieri non hanno trovato posto al Padiglione 8 della
fantascientifica scenografia della Fiera di Roma, culla della nuova Era di
Silvio Re. Un geometra di 55 anni licenziato da mesi, e incapace di trovare un
nuovo lavoro, si è impiccato a Genova lasciando un biglietto di scuse al
figlio.) bambini disabili sono in aumento ma non avranno, a scuola, insegnanti
di sostegno: la prospettiva è quella di fare «classi del sorriso» separate da
quelle dei bimbi «normali». Tipo le differenziali, per chi se le ricorda. In
compenso Gelmini e Berlusconi promettono l`e-book: il libro elettronico. Sarà
bellissimo vedere i bambini disabili affidati cinque alla volta a un solo
disperato maestro studiare sull`e-book. Magistratura democratica ha chiuso a
Modena il suo congresso. Un documento di otto pagine, durissimo, chiama alla
difesa della Costituzione. Berlusconi dalla Fiera dice di volerla aggiornare,
piuttosto. Alleggerire dalle incrostazioni.) magistrati, come sempre, guastano
la festa. "
Qualche giorno fa è toccato invece a un filosofo di razza come Biagio De
Giovanni invertire l'ordine del ragionamento dire che in realtà siamo travolti
dalla nebbia e non riusciamo a vedere l'insieme ma solo singole parti , come
quando ci si muove nella foresta. Il cittadino di sinistra, osserva infatti De
Giovanni,ha perduto il senso delle cose, vede oggetti che non sa nominare, si
esprime con parole in disuso. Provo a citare il nostro. Cosa succede dunque
quando comincia a capire che il mondo è cambiato e che "per nominare le cose"
deve tornare a lezione dalla realtà?
". Ma che significa che unPaese muta? Non è facile accorgersene. Significa che
mutano gli orizzonti di ideeattraverso i quali quel Paese è interpretato, i
sentimenti comuni, i significatidelle relazioni fra le cose. Il cittadino si
accorge del mutamento anzitutto perché vede rapporti mutati fra luce e ombra
rispetto a quelli che ricordava.Capisce che qualcosa di grosso è avvenuto.
Alcune cose sono in un cono d'ombra.La Questione meridionale, scomparsa dal
lessico e dall'agenda politica, era ilpezzo forte del suo linguaggio, il
"dualismo italiano", il punto su cui far levaper unificare l'Italia, e ora non
c'è più. Il Mezzogiorno sì, c'è, ma le parolecon cui lo si rappresentava non ci
sono più Poi vede disegnarsi contorni sfumati dove una volta erano netti.
Netti, come i contorni del racconto mitico. Resistenza, antifascismo,
Costituzione. Per carità qualcosa si vede all'orizzonte, eppure tutto appare
indistinto.Il posto "antifascismo" (ricordate? La seconda, terza, quarta tappa
dellarivoluzione antifascista...) è vuoto, perché si è svuotato quello
correlativoche si chiamava fascismo. La Resistenza è lì, ma le linee sono un po'
confuse, le masse una volta distinte di vincitori e di vinti si sono mescolate;
nessuno nega che ci sia stata, ma essa non taglia più in modo netto l'orizzonte,
e diventa magmatica, non riescepiù a essere il sostegno di tuttoE infine la
Costituzione. Quella c'è, ma colonie di formiche (le temute termiti)penetrano
nei fogli e ne intaccano i margini. Poi, il cittadino, sorpreso di questo, nota
che gli assembramenti sono diventati rari, ciascuno cammina perconto suo
frettolosamente, corre verso casa per non perdere la puntata della fiction.Le
città sono punteggiate da piccole zone di oscurità e, facendo mentalmente
iconti, quel cittadino si ricorda che erano le sedi dei partiti dove si
discutevadel mondo.La realtà, insomma, è la stessa: le case, le strade, le
piazze; ma nello stessotempo tutto è cambiatoSe il cittadino di sinistra
imparerà a muoversi in questa nuova realtà e non cercherà solo di raccogliere i
cocci della vecchia, nulla può impedire che eglitorni ad abitare la città reale.
Giacché dentro quelle rappresentazioni si addensano nuovi problemi, nuove zone
di oscurità dalle quali qualche luce può tornare a farsi vedere."
Per il momento mi fermo qui, in fin dei conti mi sono limitato a elencare,
descrivere, indicare problemi.Dove stiamo andando?
chiamiamo CRISI , nei processi molecolari della società, nella percezione stessa
del problema, nelle trasformazioni in corso di cui sappiamo solo quello che ci
viene raccontato dai media.
Io stesso provo intanto a raccontare i piccoli episodi che capitano davanti ai
miei occhi, ben sapendo che sono solo dei segnali, dei sintomi, non una
spiegazione. Il fornaio mi racconta che la gente compra di meno e che lui
stesso dopo aver sentito in televisione Berlusconi che invitava le banche a
finanziare e a fare prestiti è andato nella sua banca ma il direttore gli ha
risposto che Berlusconi può dire quello che vuole ma lui può solo rispondere "
marameo" alle sue riichieste. Il barbiere mi spiega che i clienti risparmiano
su qualcosa, magari non fanno più lo shampoo, però la cosa che più lo preoccupa
è aver visto in centro, accanto al Duomo, un emigrato che faceva pipì in strada
e aver chiesto al vigile di intervenire,senza essere ascoltato. Mi ricordo che a
suo tempo anche Oriana Fallaci aveva raccontato una storia simile. Al bar
tabacchi, in cui il proprietario è un tipico fascista alla buona, tutto sport e
giochi elettronici sempre pronto a parlar male della sinistra, la preoccupazione
sul futuro è tangibile, lui stesso è uno che non crede che Berlusconi possa far
niente.
Venerdì sera vado in centro a vedere il film di Clint Eastwood, poca gente,
barboni che dormono per terra accanto al cinema, un senso di abbandono. Sono
solo impressioni, segnali, una specie di silenzioso pensare a se stessi , un
misto di insicurezza e di rincorsa al si salvi chi può-
Leggo un intervista a Mario Tronti in cui lo studioso dichiara che ."la
realtà è molto più drammatica di come viene percepita. E' forte la percezione
individuale della crisi da parte di chi vive in vicinanza con il mondo dei
semplici. Nessuno sta più sicuro sul suo posto di lavoro, si è scavalcato il
problema della precarietà di una parte perché essa conquista l'intero mondo del
lavoro. La crisi ricade sulla vita quotidiana, nelle case, nelle famiglie, si
vive male. Però manca la percezione pubblica, il tema non viene gridato"
.Credo che siano osservazioni veritiere ma al tempo stesso si possono indicare e
cercare in giro altri indicatori,questa volta diversi, ha ragione De Rita quando
osserva che in fondo quella che sembrava costituire l'arretratezza storica del
nostro paese, le cento città, ognuna con le sue storie e le sue regole, si
rivela non più un limite ma un fattore dinamico, che non consente una
generalizzazione interpretativa, ci sono buchi paurosi ma anche zone in nuova
ripresa, in una coesistenza singolarissima, il paesaggio sociale cambia.
Ha ragione Alberoni quando segnala lo strano fenomeno di una espansione dei
consumi culturali in giro e anche altre spinte a produzioni culturali diverse,
alla creazione di idee ed esperienze. C'è spesso intorno a noi una nuova e
operosa cultura del " fare", di cui sfuggono i contorni. Ma quello che continua
a fare problema è proprio il fatto che processi vecchi e nuovi si intrecciano.
Accanto a perdite di posti di lavoro, nuovo precariato etc. c'è una rete di
lavoro nero che coinvolge tre milioni di persone,accanto ai razzismi
striscianti,ai centri di controllo per espellere gli emigranti c'è una realtà
di continuo aumento sotterraneo ma visibile dell'emigrazione stessa,accanto alle
microviolenze e agli stupri , ai bullismi giovanili, agli abusi di droghe e
alcool, troviamo molti altri aspetti che ci sfuggono, ci si sposa sempre meno
ma in compenso aumentano i matrimoni misti, nelle scuole tra pochi anni gli
studenti di origine stranieri saranno la maggioranza, non so se è bene o male,
so solo che questo è un nuovo meticciato sociale destinato a produrre
mutazioni: non sappiamo ancora niente dei giovani figli di emigrati di prima
generazione, se i processi integrativi in senso antropologico e culturale
funzioneranno in qualche modo o se le nevrosi di disadattamento e di isolamento
moltiplicheranno bande e gruppi, Saviano ci spiega come funziona Gomorra e
stiamo cominciando a capire che parole come questione meridionale, mafia etc
non designano le stesse cose, che gli intrecci di economia legale e criminalità
li abbiamo sotto casa. E potrei continuare con questo elenco di diversificazioni
e contraddizioni che fa saltare le categorie con cui " a sinistra" si leggevano
le cose, il lavoro è cambiato, il paesaggio lavorativo è frammentato e
diffuso, i sindacati raccolgono e organizzano solo una piccola parte del mondo
del lavoro, i processi di socializzazione non sono lineari, non lo sono a scuola
e non lo sono nelle parrocchie, il disordine è grande ma non sappiamo
riconoscere al suo interno gli aspetti unificanti e quelli disgreganti.
Siamo sicuri che quello che sta muovendosi davanti ai nostri occhi sia solo e
tutto una somma di conformismi, microviolenze, razzismi, o non sia invece una
trasformazione più complicata per la quale ci mancano le lenti, la chiave di
lettura? La polemica contro un berlusconismo che minimizza la gravità della
crisi inventando nuove armi di " distrazione di massa" e gestendo paure e
insicurezze per moltiplicare un bisogno d'ordine rischia di cadere in nuovi
stereotipi interpretativi in cui quella che si chiamava " sinistra" è sospinta a
credere che si tratti di un trappolone , di un inganno.
Esemplare in questo senso l'articolo di oggi su L'UNITA' di Concita De
Gregorio, intitolato in modo significativo " La fiaba e la realtà" -"
"Nel giorno dell`apoteosi del profeta della Terza era della Ricostruzione
(nessuno sa quali siano le prime due, forse le avremo più avanti come in Guerre
stellari) ogni altra notizia impallidisce. Abbiamo assistito ieri mattina
all`incoronazione per acclamazione di un uomo che ha distribuito in pergamena il
suo discorso di 15 anni fa - rilegato in un libro fiabesco - e che lo ha
ripetuto quasi identico oggi, del tutto incurante di quel che accade nella vita
attorno a lui. Un uomo che ignora la realtà: semplicemente la racconta come
vorrebbe che fosse. La scuola degli e-book e i pieni poteri al capo. Lui stesso
capolista alle Europee, cosa volete che sia se è del tutto evidente che non
lascerà Palazzo Chigi per andare a Strasburgo. Una candidatura di bandiera, ha
detto sfidando Franceschini a fare altrettanto. Quale bandiera? I voti li prende
lui e in Europa ci andrà qualcun altro come del resto è accaduto e accadrà
(vedrete Bologna e Firenze) nelle Regioni e nelle città. Tuttavia va detto, lo
scriviamo nella cronaca, che non c`è niente di plastificato né di ingigantito
-15 anni dopo la fondazione - nel mondo di proseliti, l`Esercito del Bene giusto
ieri incaricato con gesto solenne di farsi nel Paese «missionario della
libertà». É divenuto nel tempo, il Popolo berlusconiano, un mondo reale di
persone reali, un`Italia che ha scelto il posto al sole, quello delle promesse e
delle illusioni: un`Italia (come spesso è accaduto nella storia) semplicemente
appagata dallo stare con chi vince. Si mescolano così i volti lombrosiani degli
antichi camerati di An con quelli incolpevoli dei diciottenni che nel `94
andavano all`asilo, coetanei di Araba Dell`Utri quando seienne manifestava per
il mantenimento dei Puffi nelle tv dell`amico di papà. Si confondono i garofani
dei socialisti con gli ex dc siciliani oggi autonomisti per convenienza,
assessori incaricati di costruire il ponte sullo Stretto e imprenditori ansiosi
di realizzarlo, un immenso sottobosco di potere dove si intrecciano interessi
bancari e richieste di particine tv, preti ed ex radicali, belle ragazze e
vecchie volpi, quarantenni felici di essere missionari in un mondo di villette
bifamiliari in Brianza in procinto di avere un vano in più. Berlusconi il
profeta annuncia che arriverà al 51 per cento e la folla lo osanna: in assenza
di argini non è detto che non gli riesca. Quanto alla al , proviamo a fare un
sunto delle notizie che ieri non hanno trovato posto al Padiglione 8 della
fantascientifica scenografia della Fiera di Roma, culla della nuova Era di
Silvio Re. Un geometra di 55 anni licenziato da mesi, e incapace di trovare un
nuovo lavoro, si è impiccato a Genova lasciando un biglietto di scuse al
figlio.) bambini disabili sono in aumento ma non avranno, a scuola, insegnanti
di sostegno: la prospettiva è quella di fare «classi del sorriso» separate da
quelle dei bimbi «normali». Tipo le differenziali, per chi se le ricorda. In
compenso Gelmini e Berlusconi promettono l`e-book: il libro elettronico. Sarà
bellissimo vedere i bambini disabili affidati cinque alla volta a un solo
disperato maestro studiare sull`e-book. Magistratura democratica ha chiuso a
Modena il suo congresso. Un documento di otto pagine, durissimo, chiama alla
difesa della Costituzione. Berlusconi dalla Fiera dice di volerla aggiornare,
piuttosto. Alleggerire dalle incrostazioni.) magistrati, come sempre, guastano
la festa. "
Qualche giorno fa è toccato invece a un filosofo di razza come Biagio De
Giovanni invertire l'ordine del ragionamento dire che in realtà siamo travolti
dalla nebbia e non riusciamo a vedere l'insieme ma solo singole parti , come
quando ci si muove nella foresta. Il cittadino di sinistra, osserva infatti De
Giovanni,ha perduto il senso delle cose, vede oggetti che non sa nominare, si
esprime con parole in disuso. Provo a citare il nostro. Cosa succede dunque
quando comincia a capire che il mondo è cambiato e che "per nominare le cose"
deve tornare a lezione dalla realtà?
". Ma che significa che unPaese muta? Non è facile accorgersene. Significa che
mutano gli orizzonti di ideeattraverso i quali quel Paese è interpretato, i
sentimenti comuni, i significatidelle relazioni fra le cose. Il cittadino si
accorge del mutamento anzitutto perché vede rapporti mutati fra luce e ombra
rispetto a quelli che ricordava.Capisce che qualcosa di grosso è avvenuto.
Alcune cose sono in un cono d'ombra.La Questione meridionale, scomparsa dal
lessico e dall'agenda politica, era ilpezzo forte del suo linguaggio, il
"dualismo italiano", il punto su cui far levaper unificare l'Italia, e ora non
c'è più. Il Mezzogiorno sì, c'è, ma le parolecon cui lo si rappresentava non ci
sono più Poi vede disegnarsi contorni sfumati dove una volta erano netti.
Netti, come i contorni del racconto mitico. Resistenza, antifascismo,
Costituzione. Per carità qualcosa si vede all'orizzonte, eppure tutto appare
indistinto.Il posto "antifascismo" (ricordate? La seconda, terza, quarta tappa
dellarivoluzione antifascista...) è vuoto, perché si è svuotato quello
correlativoche si chiamava fascismo. La Resistenza è lì, ma le linee sono un po'
confuse, le masse una volta distinte di vincitori e di vinti si sono mescolate;
nessuno nega che ci sia stata, ma essa non taglia più in modo netto l'orizzonte,
e diventa magmatica, non riescepiù a essere il sostegno di tuttoE infine la
Costituzione. Quella c'è, ma colonie di formiche (le temute termiti)penetrano
nei fogli e ne intaccano i margini. Poi, il cittadino, sorpreso di questo, nota
che gli assembramenti sono diventati rari, ciascuno cammina perconto suo
frettolosamente, corre verso casa per non perdere la puntata della fiction.Le
città sono punteggiate da piccole zone di oscurità e, facendo mentalmente
iconti, quel cittadino si ricorda che erano le sedi dei partiti dove si
discutevadel mondo.La realtà, insomma, è la stessa: le case, le strade, le
piazze; ma nello stessotempo tutto è cambiatoSe il cittadino di sinistra
imparerà a muoversi in questa nuova realtà e non cercherà solo di raccogliere i
cocci della vecchia, nulla può impedire che eglitorni ad abitare la città reale.
Giacché dentro quelle rappresentazioni si addensano nuovi problemi, nuove zone
di oscurità dalle quali qualche luce può tornare a farsi vedere."
Per il momento mi fermo qui, in fin dei conti mi sono limitato a elencare,
descrivere, indicare problemi.Dove stiamo andando?
Vittorio Melandri: un blocco di potere economico, omogeneo
Un blocco di potere economico, omogeneo!
Quando dico che la sinistra “se gratta”, forse lascio troppo sottinteso che il prurito per cui “se gratta”, è dovuto all’invidia stupida, un poco idiota e pure autolesionista, per chi si ritiene essere “più a sinistra”, ed è un prurito alimentato dall’antisocialismo, soprattutto verso quel socialismo liberale che potrebbe oggi a giusta ragione proporsi con il suggello del vincente che la “Storia” con la esse maiuscola, consegna a chi vuol vedere.
L'errore mortale che in Italia le forze politiche che a sinistra si dicono dalla parte dei “cittadini”, cioè dei “più deboli”, è a parer mio coincidente con il credere che unirsi significhi annullare le diversità, mentre al contrario significa in modo intellettualmente onesto, mettere insieme le diversità “più” prossime e che si possono appunto unire, rinunciando ciascuna a qualcosa, pur senza privarsi della propria identità.
Per quanto banale possa apparire il mio ragionare, ci sono a mio parere due dimensioni in cui si possono unire le diversità.
Una dimensione è quella caratterizzata da diversità che, pur permanendo, sono così prossime da poter dar vita ad un unico partito.
L'altra dimensione è quella in cui partiti che rimangono oggettivamente diversi e che non raggiungono da soli il 51%, si alleano riconoscendosi soggettivamente in un programma elettorale e di governo.
Programma che per sua natura, a differenza del programma di un singolo partito, ha da essere anche virtuosamente “effimero”, nel senso che non c’è democrazia dove al governo si persegue sempre lo stesso programma, e questo è requisito che viene prima della cosiddetta “governabilità”, tanto ipocritamente sbandierata da troppo tempo a questa parte.
“Confondere” (ma confondere è forse verbo troppo generoso) le due dimensioni, è a mio parere l'errore che sta alla base del PD, dove si sono volute mescolare diversità “TROPPO” distanti, in nome, sempre a mio parere, non già di un “antiberlusconismo” tanto doveroso quanto ahinoi ridotto a foglia di fico (che come noto è servita a rafforzare proprio il berlusconismo), ma in nome di un “antisocialismo viscerale” che da sempre unisce il cattolicesimo politico e il comunismo italiano.
Anche Prodi, che per altro era partito bene con l'Ulivo, poi si è perso in questo errore.
Per quanto siano diversi fra loro, e faccio solo alcuni nomi, ma non a caso, erano Boselli, Veltroni, Bertinotti, D'Alema, Diliberto, Ferrero..... che dovevano dare vita ad un partito unico, perchè più vicini fra loro, che non fra loro e una Binetti, un Castagnetti o un Rutelli, che a loro volta dovevano dar vita ad un altro partito solo.
E poi, solo poi, questi due raggruppamenti, se nessuno raggiungeva il 51%, dovevano trovare il modo di allearsi come detto sopra.
Se questo non si è fatto e non si continua a fare, è anche perché come ha detto Castagnetti, “il capo dei politici cattolici è il Papa”, e gli interessi della Chiesa, non certo “quelli di Gesù”, in Italia sono sempre da privilegiare su tutto; e perché, e mi ripeto, l’antisocialismo viscerale dei vari tipi di comunisti, prima ha portato gli stessi a massacrarsi politicamente (un tempo anche fisicamente) tra loro, e poi ad affossare qualsiasi speranza di rafforzare una “sinistra” italiana senza aggettivi.
E non potendo nemmeno dire apertamente il tutto, l’ipocrisia conseguente, alimenta da decenni una politica italiana ridotta ad uno “stagno puteolente”, dove i farabutti di tutte le specie, prolificano fisiologicamente alla grande.
Anche il cosiddetto “genio” politico di Craxi ha saltato l’appuntamento con la storia, nell’autunno del 1989, per essere stato troppo tempo in quello stagno, dove ormai quella melma aveva intriso il suo abito politico (prima ancora di quello privato), e lo aveva irrimediabilmente appesantito.
Oggi dalle parti di quello che resta della sinistra, servirebbe una inversione di marcia ad U, ma non se ne vedono nemmeno i più timidi approcci, e l’Italia è più che mai nelle mani di quei poteri forti, che come ha sottolineato Piero Ottone in un articolo apparso su la Repubblica il 14 marzo scorso (e guarda caso per nulla ripreso), danno vita ad……..
“un blocco di potere economico ormai abbastanza omogeneo e molto potente, con Geronzi a Mediobanca al posto di Cuccia. E queste non sono ipotesi. Sono certezze”.
Nella cosiddetta “prima Repubblica”, la politica, forse anche contando proprio sulla divisione fra i “poteri forti” ha di fatto cavalcato gli stessi “poteri forti”, anche quelli che oltre che forti, erano pure criminali, e la cosiddetta sentenza di “assoluzione” per Andreotti, lo spiega benissimo, e alla faccia del “giustizialismo”, le sentenze che dai giudici possono giustamente solo essere pronunciate, sono pure da considerarsi fra i beni preziosi per chi, facendo politica, ha innanzi tutto il dovere di “conoscere per deliberare”.
Nella cosiddetta “seconda Repubblica” invece, sono i “poteri forti” anche quelli criminali, che tengono sotto schiaffo la politica (e con una immagine forse un poco volgare ma efficace) arrivano addirittura a tenere alcuni politici di vertice, per le “palle”.
E per chi vuole vedere, queste non sono ipotesi, ma drammatiche certezze.
Vittorio Melandri
Quando dico che la sinistra “se gratta”, forse lascio troppo sottinteso che il prurito per cui “se gratta”, è dovuto all’invidia stupida, un poco idiota e pure autolesionista, per chi si ritiene essere “più a sinistra”, ed è un prurito alimentato dall’antisocialismo, soprattutto verso quel socialismo liberale che potrebbe oggi a giusta ragione proporsi con il suggello del vincente che la “Storia” con la esse maiuscola, consegna a chi vuol vedere.
L'errore mortale che in Italia le forze politiche che a sinistra si dicono dalla parte dei “cittadini”, cioè dei “più deboli”, è a parer mio coincidente con il credere che unirsi significhi annullare le diversità, mentre al contrario significa in modo intellettualmente onesto, mettere insieme le diversità “più” prossime e che si possono appunto unire, rinunciando ciascuna a qualcosa, pur senza privarsi della propria identità.
Per quanto banale possa apparire il mio ragionare, ci sono a mio parere due dimensioni in cui si possono unire le diversità.
Una dimensione è quella caratterizzata da diversità che, pur permanendo, sono così prossime da poter dar vita ad un unico partito.
L'altra dimensione è quella in cui partiti che rimangono oggettivamente diversi e che non raggiungono da soli il 51%, si alleano riconoscendosi soggettivamente in un programma elettorale e di governo.
Programma che per sua natura, a differenza del programma di un singolo partito, ha da essere anche virtuosamente “effimero”, nel senso che non c’è democrazia dove al governo si persegue sempre lo stesso programma, e questo è requisito che viene prima della cosiddetta “governabilità”, tanto ipocritamente sbandierata da troppo tempo a questa parte.
“Confondere” (ma confondere è forse verbo troppo generoso) le due dimensioni, è a mio parere l'errore che sta alla base del PD, dove si sono volute mescolare diversità “TROPPO” distanti, in nome, sempre a mio parere, non già di un “antiberlusconismo” tanto doveroso quanto ahinoi ridotto a foglia di fico (che come noto è servita a rafforzare proprio il berlusconismo), ma in nome di un “antisocialismo viscerale” che da sempre unisce il cattolicesimo politico e il comunismo italiano.
Anche Prodi, che per altro era partito bene con l'Ulivo, poi si è perso in questo errore.
Per quanto siano diversi fra loro, e faccio solo alcuni nomi, ma non a caso, erano Boselli, Veltroni, Bertinotti, D'Alema, Diliberto, Ferrero..... che dovevano dare vita ad un partito unico, perchè più vicini fra loro, che non fra loro e una Binetti, un Castagnetti o un Rutelli, che a loro volta dovevano dar vita ad un altro partito solo.
E poi, solo poi, questi due raggruppamenti, se nessuno raggiungeva il 51%, dovevano trovare il modo di allearsi come detto sopra.
Se questo non si è fatto e non si continua a fare, è anche perché come ha detto Castagnetti, “il capo dei politici cattolici è il Papa”, e gli interessi della Chiesa, non certo “quelli di Gesù”, in Italia sono sempre da privilegiare su tutto; e perché, e mi ripeto, l’antisocialismo viscerale dei vari tipi di comunisti, prima ha portato gli stessi a massacrarsi politicamente (un tempo anche fisicamente) tra loro, e poi ad affossare qualsiasi speranza di rafforzare una “sinistra” italiana senza aggettivi.
E non potendo nemmeno dire apertamente il tutto, l’ipocrisia conseguente, alimenta da decenni una politica italiana ridotta ad uno “stagno puteolente”, dove i farabutti di tutte le specie, prolificano fisiologicamente alla grande.
Anche il cosiddetto “genio” politico di Craxi ha saltato l’appuntamento con la storia, nell’autunno del 1989, per essere stato troppo tempo in quello stagno, dove ormai quella melma aveva intriso il suo abito politico (prima ancora di quello privato), e lo aveva irrimediabilmente appesantito.
Oggi dalle parti di quello che resta della sinistra, servirebbe una inversione di marcia ad U, ma non se ne vedono nemmeno i più timidi approcci, e l’Italia è più che mai nelle mani di quei poteri forti, che come ha sottolineato Piero Ottone in un articolo apparso su la Repubblica il 14 marzo scorso (e guarda caso per nulla ripreso), danno vita ad……..
“un blocco di potere economico ormai abbastanza omogeneo e molto potente, con Geronzi a Mediobanca al posto di Cuccia. E queste non sono ipotesi. Sono certezze”.
Nella cosiddetta “prima Repubblica”, la politica, forse anche contando proprio sulla divisione fra i “poteri forti” ha di fatto cavalcato gli stessi “poteri forti”, anche quelli che oltre che forti, erano pure criminali, e la cosiddetta sentenza di “assoluzione” per Andreotti, lo spiega benissimo, e alla faccia del “giustizialismo”, le sentenze che dai giudici possono giustamente solo essere pronunciate, sono pure da considerarsi fra i beni preziosi per chi, facendo politica, ha innanzi tutto il dovere di “conoscere per deliberare”.
Nella cosiddetta “seconda Repubblica” invece, sono i “poteri forti” anche quelli criminali, che tengono sotto schiaffo la politica (e con una immagine forse un poco volgare ma efficace) arrivano addirittura a tenere alcuni politici di vertice, per le “palle”.
E per chi vuole vedere, queste non sono ipotesi, ma drammatiche certezze.
Vittorio Melandri
Carlo Flamigni: il senato vota contro la dignità e la costituzione
dal sito di sd
Il Senato vota contro la dignità e contro la Costituzione
di Carlo Flamigni
Dom, 29/03/2009 - 22:16
Il Senato ha approvato il progetto di legge sul testamento biologico che ora passerà alla Camera per una seconda discussione. La lettura degli articoli di questa probabile nuova legge dello Stato è interessante e chiarificatrice.
Nell’articolo 1 si afferma intanto che la legge tiene conto dei principi di cui agli articoli 2,13 e 32 della Costituzione, quegli stessi ai quali si ispirano tutti coloro che sono contrari a questa stesura e la ritengono anticostituzionale proprio perché viola il principio di libertà di rifiuto delle cure. Il preambolo ci ricorda anche che è stato votato un emendamento dell’UDC che ha cancellato l’obbligo per il medico di tener conto del contenuto di questo testamento, diventato quindi del tutto inutile: è bene ricordare che questo emendamento contraddice quanto è contenuto nei documenti degli Ordini dei medici che dettano le regole del corretto comportamento professionale.
Il comma a dell’articolo 1 stabilisce poi che la vita umana è un diritto inviolabile e indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza persino per chi non è in grado di intendere e di volere e fino alla morte accertata nei modi di legge. Questo è un punto critico di tutto l’impianto e deve essere discusso con molta attenzione. In realtà il principio secondo il quale la vita è un bene indisponibile e che ogni esercizio della libertà che porti alla negazione della propria identità è illegittimo, è una fissazione di alcuni bioeticisti cattolici. In genere si considerano indisponibili i diritti che riguardano elementi per i quali lo Stato può dimostrare interesse prevalente , ed è molto difficile dimostrare che lo stato ha interesse prevalente per la vita terminale, soprattutto se si tratta di una persona in stato vegetativo o in coma: fuori da ogni ipocrisia, dunque, questa specifica indisponibilità è di interesse esclusivamente religioso e, non me ne vogliano i miei amici cattolici, a me di questo interesse non me ne può fregare di meno. Nessuno Stato in genere stila elenchi dei diritti indisponibili, perché i mutamenti delle abitudini sociali modificano continuamente i criteri che vengono seguiti per indicarli e gran parte di questi criteri hanno a che fare con la fede, non hanno niente di razionale e non hanno niente a che fare con la nostra esistenza di cittadini, sono solo tristi fandonie. Quanto alle opinioni di quanti ritengono che la rinuncia alla vita, esprimendo una negazione della propria identità, dimostri povertà umana ed esistenziale, mi sembrano sofismi, oltretutto irrispettosi e crudeli: la scelta del modo di morire e del momento di farlo ha a che fare con la propria dignità, un valore assoluto e una ricchezza umana ed esistenziale irrinunciabile, qualcosa di talmente personale che non ammette valutazioni critiche – immaginate poi insegnamenti e consigli – da parte degli altri. Oltretutto il concetto di dignità applicato alla propria morte dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza, è una sorta di cenestesi dello spirito che indica una nobiltà morale che ha diritto al massimo rispetto da parte di tutti, legislatori compresi.
Buffo dunque che alla dignità faccia riferimento il comma b, dove si dichiara che “ (la legge) riconosce e garantisce la dignità di ogni persona in via prioritaria rispetto all’interesse della società e alle applicazioni della tecnologia e della scienza “. Ne derivano due fatti importanti: il primo riguarda il carattere di indisponibilità della vita, che non ha più a che fare con l’interesse prevalente dello Stato; il secondo, che esiste una dignità di tipo collettivo, o statale, che non ha più niente a che fare con il cittadino. Bisogna dunque dar ragione a Dorina Bianchi, che ha dichiarato che la vita personale appartiene alla collettività: pensavo che fosse la maggior stupidaggine uscita negli ultimi decenni da labbra umane, mi sbagliavo, la signora Bianchi ha trovato epigoni e sostenitori, prima la statalizzazione della vita, poi quella della dignità, sotto a chi tocca.
Dopo questo esordio, il documento continua come sapete, sempre atteggiandosi a documento laico, in realtà ubbidendo pedissequamente alle regole imposte dal Vaticano. Del resto, mi sembra molto chiarificatore uno dei sottotitoli di Repubblica: “I Vescovi esultano”. Su questo argomento bisognerà pur tornare, mi sembra evidente che i Vescovi sono in piena crisi esistenziale e non si accorgono di essere sul punto di provocare una nuova guerra di religione.
Vado subito all’articolo 3, nel quale é inserito il comma su cui è stato incentrato gran parte del dibattito tra maggioranza cattolica e minoranza laica. Il comma suddetto è un capolavoro di ipocrisia, sentite cosa è andato a pescare dall’armadio delle leggi e dei regolamenti: “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti della persone con disabilità fatta a New York il 13 dicembre 2006 l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”.
Solo qualche commento:
-Della dichiarazione dell’ONU che viene citata, riporto anch’io i due articoli che im qualche modo sono attinenti alla legge italiana:
Articolo 15, comma 1: Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
Articolo 25, comma f: (gli Stati si debbono adoperare per ) prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prescrizione di cure e servizi sanitari o di cibo o liquidi in ragione della disabilità.
Dunque, il documento delle Nazioni Unite dice ben altro: è stato scritto per vietare ogni tipo di discriminazione ( non ti alimento perché sei un disabile) e non per obbligare un cittadino ad accettare trattamenti che gli ripugnano.
- Questa idea di equiparare una persona in stato vegetativo a un disabile è per lo meno peregrina e non può valere certamente quando il consenso medico relativo a un particolare paziente stabilisce che si tratta di condizione irreversibile e permanente.
- - Il Senato avrebbe potuto ispirasi alle uniche culture tecniche che si sono espresse nel nostro Paese. Ad esempio, la Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale scrive ( gennaio 2007): La Nutrizione artificiale è un trattamento medico. La NA è da considerarsi a tutti gli effetti un trattamento medico fornito a scopo terapeutico o preventivo. La NA non è una misura ordinaria di assistenza”.
- Potrei portare documenti delle maggiori Società scientifiche internazionali, ma so che è completamente inutile. Il Senato si è ispirato a uno dei più infallibili scienziati esistenti, , esperto di microbiologia (il preservativo è tossico), docente di tanatologia (l’uomo non muore mai, basta nutrirlo), specialista in endocrinologia ( la pillola del giorno dopo è occisiva). Alludo naturalmente al sommo Pontefice, che oltretutto ha il privilegio di parlare ex cathedra, chi lo può contraddire? Personalmente – se posso timidamente esporre la mia opinione – preferirei che tentasse di spiegare ai suoi preti quale è la interpretazione vera della frase (Matteo, XIX,14) “Sinite parvulos venire ad me”, sembra che abbiano capito male. Mi fermo, temo che sia una battaglia persa in partenza: me lo conferma un dato statistico reso noto del tutto recentemente e che convalida un mio antico sospetto: la percentuale di conversioni dei nostri parlamentari è superiore a quella di qualsiasi altra categoria professionale, geometri e maniscalchi inclusi.
Ho una ultima cosa da dire, una domanda che rivolgo ad Anna Finocchiaro, una donna che stimo e rispetto. Che senso ha lamentare tradimenti e pugnalate alle spalle,parlare di anni di lavoro perduti : non era già tutto scritto fin dal momento in cui il “nostro” povero vecchio partito è stato trasformato in una Democrazia Cristiana di Centro-Sinistra? Faccio mie le parole di un tassista romano che mi ha appena accompagnato alla stazione : “Chi è causa del suo mal, sò cazzi sua...”.
Il Senato vota contro la dignità e contro la Costituzione
di Carlo Flamigni
Dom, 29/03/2009 - 22:16
Il Senato ha approvato il progetto di legge sul testamento biologico che ora passerà alla Camera per una seconda discussione. La lettura degli articoli di questa probabile nuova legge dello Stato è interessante e chiarificatrice.
Nell’articolo 1 si afferma intanto che la legge tiene conto dei principi di cui agli articoli 2,13 e 32 della Costituzione, quegli stessi ai quali si ispirano tutti coloro che sono contrari a questa stesura e la ritengono anticostituzionale proprio perché viola il principio di libertà di rifiuto delle cure. Il preambolo ci ricorda anche che è stato votato un emendamento dell’UDC che ha cancellato l’obbligo per il medico di tener conto del contenuto di questo testamento, diventato quindi del tutto inutile: è bene ricordare che questo emendamento contraddice quanto è contenuto nei documenti degli Ordini dei medici che dettano le regole del corretto comportamento professionale.
Il comma a dell’articolo 1 stabilisce poi che la vita umana è un diritto inviolabile e indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza persino per chi non è in grado di intendere e di volere e fino alla morte accertata nei modi di legge. Questo è un punto critico di tutto l’impianto e deve essere discusso con molta attenzione. In realtà il principio secondo il quale la vita è un bene indisponibile e che ogni esercizio della libertà che porti alla negazione della propria identità è illegittimo, è una fissazione di alcuni bioeticisti cattolici. In genere si considerano indisponibili i diritti che riguardano elementi per i quali lo Stato può dimostrare interesse prevalente , ed è molto difficile dimostrare che lo stato ha interesse prevalente per la vita terminale, soprattutto se si tratta di una persona in stato vegetativo o in coma: fuori da ogni ipocrisia, dunque, questa specifica indisponibilità è di interesse esclusivamente religioso e, non me ne vogliano i miei amici cattolici, a me di questo interesse non me ne può fregare di meno. Nessuno Stato in genere stila elenchi dei diritti indisponibili, perché i mutamenti delle abitudini sociali modificano continuamente i criteri che vengono seguiti per indicarli e gran parte di questi criteri hanno a che fare con la fede, non hanno niente di razionale e non hanno niente a che fare con la nostra esistenza di cittadini, sono solo tristi fandonie. Quanto alle opinioni di quanti ritengono che la rinuncia alla vita, esprimendo una negazione della propria identità, dimostri povertà umana ed esistenziale, mi sembrano sofismi, oltretutto irrispettosi e crudeli: la scelta del modo di morire e del momento di farlo ha a che fare con la propria dignità, un valore assoluto e una ricchezza umana ed esistenziale irrinunciabile, qualcosa di talmente personale che non ammette valutazioni critiche – immaginate poi insegnamenti e consigli – da parte degli altri. Oltretutto il concetto di dignità applicato alla propria morte dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza, è una sorta di cenestesi dello spirito che indica una nobiltà morale che ha diritto al massimo rispetto da parte di tutti, legislatori compresi.
Buffo dunque che alla dignità faccia riferimento il comma b, dove si dichiara che “ (la legge) riconosce e garantisce la dignità di ogni persona in via prioritaria rispetto all’interesse della società e alle applicazioni della tecnologia e della scienza “. Ne derivano due fatti importanti: il primo riguarda il carattere di indisponibilità della vita, che non ha più a che fare con l’interesse prevalente dello Stato; il secondo, che esiste una dignità di tipo collettivo, o statale, che non ha più niente a che fare con il cittadino. Bisogna dunque dar ragione a Dorina Bianchi, che ha dichiarato che la vita personale appartiene alla collettività: pensavo che fosse la maggior stupidaggine uscita negli ultimi decenni da labbra umane, mi sbagliavo, la signora Bianchi ha trovato epigoni e sostenitori, prima la statalizzazione della vita, poi quella della dignità, sotto a chi tocca.
Dopo questo esordio, il documento continua come sapete, sempre atteggiandosi a documento laico, in realtà ubbidendo pedissequamente alle regole imposte dal Vaticano. Del resto, mi sembra molto chiarificatore uno dei sottotitoli di Repubblica: “I Vescovi esultano”. Su questo argomento bisognerà pur tornare, mi sembra evidente che i Vescovi sono in piena crisi esistenziale e non si accorgono di essere sul punto di provocare una nuova guerra di religione.
Vado subito all’articolo 3, nel quale é inserito il comma su cui è stato incentrato gran parte del dibattito tra maggioranza cattolica e minoranza laica. Il comma suddetto è un capolavoro di ipocrisia, sentite cosa è andato a pescare dall’armadio delle leggi e dei regolamenti: “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti della persone con disabilità fatta a New York il 13 dicembre 2006 l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”.
Solo qualche commento:
-Della dichiarazione dell’ONU che viene citata, riporto anch’io i due articoli che im qualche modo sono attinenti alla legge italiana:
Articolo 15, comma 1: Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
Articolo 25, comma f: (gli Stati si debbono adoperare per ) prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prescrizione di cure e servizi sanitari o di cibo o liquidi in ragione della disabilità.
Dunque, il documento delle Nazioni Unite dice ben altro: è stato scritto per vietare ogni tipo di discriminazione ( non ti alimento perché sei un disabile) e non per obbligare un cittadino ad accettare trattamenti che gli ripugnano.
- Questa idea di equiparare una persona in stato vegetativo a un disabile è per lo meno peregrina e non può valere certamente quando il consenso medico relativo a un particolare paziente stabilisce che si tratta di condizione irreversibile e permanente.
- - Il Senato avrebbe potuto ispirasi alle uniche culture tecniche che si sono espresse nel nostro Paese. Ad esempio, la Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale scrive ( gennaio 2007): La Nutrizione artificiale è un trattamento medico. La NA è da considerarsi a tutti gli effetti un trattamento medico fornito a scopo terapeutico o preventivo. La NA non è una misura ordinaria di assistenza”.
- Potrei portare documenti delle maggiori Società scientifiche internazionali, ma so che è completamente inutile. Il Senato si è ispirato a uno dei più infallibili scienziati esistenti, , esperto di microbiologia (il preservativo è tossico), docente di tanatologia (l’uomo non muore mai, basta nutrirlo), specialista in endocrinologia ( la pillola del giorno dopo è occisiva). Alludo naturalmente al sommo Pontefice, che oltretutto ha il privilegio di parlare ex cathedra, chi lo può contraddire? Personalmente – se posso timidamente esporre la mia opinione – preferirei che tentasse di spiegare ai suoi preti quale è la interpretazione vera della frase (Matteo, XIX,14) “Sinite parvulos venire ad me”, sembra che abbiano capito male. Mi fermo, temo che sia una battaglia persa in partenza: me lo conferma un dato statistico reso noto del tutto recentemente e che convalida un mio antico sospetto: la percentuale di conversioni dei nostri parlamentari è superiore a quella di qualsiasi altra categoria professionale, geometri e maniscalchi inclusi.
Ho una ultima cosa da dire, una domanda che rivolgo ad Anna Finocchiaro, una donna che stimo e rispetto. Che senso ha lamentare tradimenti e pugnalate alle spalle,parlare di anni di lavoro perduti : non era già tutto scritto fin dal momento in cui il “nostro” povero vecchio partito è stato trasformato in una Democrazia Cristiana di Centro-Sinistra? Faccio mie le parole di un tassista romano che mi ha appena accompagnato alla stazione : “Chi è causa del suo mal, sò cazzi sua...”.
domenica 29 marzo 2009
Andrea Romano: Lula e il compagno Biden
andrearomano
Oggi 29 marzo 2009, 16 ore fa
Lula e il compagno Biden
Oggi 29 marzo 2009, 8 ore fa
Viña del Mar. C’è sempre una prima volta, deve aver pensato il vicepresidente degli Stati Uniti quando Lula lo ha chiamato “compagno Biden” di fronte agli altri capi di stato e di governo riuniti in Cile per il summit progressista. D’altra parte quella di ieri è stata anche la prima occasione in cui l’amministrazione Obama si è presentata ad un vertice internazionale del centrosinistra, circondata da enormi simpatie e aspettative. Intorno al tavolo, oltre a Biden e Lula sedevano Zapatero, Brown, il primo ministro norvegese Stoltenberg, la presidente cilena Bachelet e l’argentina Kirchner. Un confronto tutto politico tra Europa, Stati Uniti e America Latina sulla crisi economica e sugli scenari ideali del centrosinistra. Ma soprattutto il ritorno all’orgoglio progressista per voce di chi esercita una diretta responsabilità di governo, dopo le divisioni della prima giornata del seminario cileno.
A pochi giorni dal G20 londinese, Gordon Brown ha sfoggiato la sua migliore retorica laburista con un richiamo ai valori che possono ispirare la ricostruzione del sistema economico mondiale. “Giustizia e responsabilità – ha detto il primo ministro britannico – sono i valori di fondo che ci rendono quello che siamo: progressisti e riformatori. Ma sono anche i valori che cerchiamo di far vivere nella vita quotidiana e nelle nostre famiglie, e gli stessi che la grande maggioranza della popolazione mondiale condivide nelle sue diverse identità culturali e religiose. È su questi stessi valori che dobbiamo fondare la nuova legittimazione del sistema economico internazionale, traducendoli in regole che permettano al mercato di lavorare nell’interesse pubblico”. Nello specifico, un nuovo sistema di regole per le istituzioni finanziarie internazionali e un allargamento delle competenze della Banca Mondiale ai temi dell’ambiente e della produzione energetica.
Sulla stessa lunghezza d’onda Zapatero, che cimentandosi con i fondamentali progressisti ha parlato della “nostra comune fiducia nella possibilità dell’uomo di migliorare la propria condizione attraverso la formazione e l’innovazione tecnologica”. La stessa fiducia con la quale, secondo il primo ministro spagnolo, i progressisti possono applicarsi alla democratizzazione del mercato finanziario globale importandovi gli obblighi di trasparenza e responsabilità.
Se il brasiliano Lula (oltre al titolo di “compagni” per tutti i capi di stato presenti alla discussione) ha portato al tavolo l’orgoglio per “la vigorosa ondata di democrazia popolare che sta scuotendo tutta l’America Latina e che ci permette finalmente di avere il coraggio di tradurre in pratica le nostre convinzioni”, il debutto di Joe Biden ha prevedibilmente catturato l’attenzione della scena progressista. Un discorso pragmatico, quello del vice di Obama, che ha richiamato gli europei e i sudamericani alla responsabilità di accompagnare gli USA in una nuova stagione di dialogo multilaterale: “La buona notizia è che a Washington c’è stato un vero cambiamento e che la Casa Bianca vuole sinceramente collaborare con la comunità internazionale. La cattiva notizia è che non potrete più contare sulla vecchia amministrazione come scusa per evitare un vostro impegno diretto nel mondo. Perché stavolta noi rispetteremo le regole. Ma quando le regole non funzionano più è dovere di tutti prendersi la responsabilità di scriverne di nuove”.
Particolarmente attento a non apparire pedagogico né paternalista (“Non voglio assolutamente darvi lezioni”, ha ripetuto in tre diverse occasioni) Biden ha sottolineato l’urgenza di rimettere in piedi l’economia statunitense anche come motore della crescita mondiale: “Ci lavoreremo ogni giorno senza ricette ideologiche e concentrandoci solo sulle soluzioni più efficaci per creare posti di lavoro nel settore privato, per sostenere il mercato immobiliare e per restituire vitalità al credito. La nostra ambizione non solo quella di garantire una rete di sicurezza a coloro che sono stati colpiti dalla crisi, ma di fondare le basi di una nuova economia sostenibile”.
Dario tra i progressisti tristi
Ieri 28 marzo 2009, 13.18.00
Viña del Mar. A quasi dodicimila chilometri da Roma, ben al riparo da ogni eco dell’autocelebrazione berlusconiana, Dario Franceschini si presenta al circuito progressista mondiale riunito in Cile da Policy Network e dall’Instituto Igualdad. Lo fa con un discorso in inglese condito da un leggero accento ferrarese, provando a spiegare il posto del Partito democratico in quella che fu la gloriosa carovana della Terza Via. Un compito meno difficile del previsto, perché lo stordimento ideale che attraversa il mondo progressista in questi tempi di crisi accoglie benevolmente il “caso italiano” come una particolarità tra le tante.
Tra i nuovi entusiasti del ritorno dello Stato amministratore, diffusi in particolare tra i sudamericani, e i pochi europei ancora capaci di rivendicare parole come “scelta” e “opportunità”, Franceschini sceglie la strada della “rivoluzione verde” come nuovo orizzonte del centrosinistra internazionale. Lo fa nominando Barack Obama comandante in capo del “mutamento tecnologico e produttivo che potrà cambiare l’economia europea e statunitense”, leggendo la crisi come un’opportunità per “una nuova etica pubblica che sia in grado di animare i nostri comportamenti quotidiani” e naturalmente auspicando “nuove regole globali per un nuovo multilateralismo e una profonda riforma delle istituzioni internazionali”.
C’è anche spazio per un piccolo cenno alla diversità del PD nei confronti dell’Internazionale socialista, con gli inevitabili accenni al Partito del congresso indiano e ai Democratici statunitensi come esempi di non ortodossia socialdemocratica. Ma sul tema diceva di più la stessa composizione della delegazione italiana, assente Fassino e presenti con Franceschini altri tre non socialisti come Francesco Rutelli, Lapo Pistelli e Gianni Vernetti.
Mentre il leader del PD presentava le proprie credenziali, il circuito progressista si guardava allo specchio scoprendosi confuso e diviso. Innanzitutto sui fondamentali, letti con lenti del tutto divergenti dalla sinistra europea e da quella sudamericana. Quest’ultima impegnata a celebrare “il ritorno dello Stato come ritorno della politica sullo sfondo del catastrofico fallimento del paradigma neoliberista”, nelle parole del principale consigliere politico di Lula Marco Aurélio Garcia. Il quale si è spinto a difendere il buon nome del populismo (“troppo spesso usato come insulto da coloro che vogliono attaccare le nostre politiche popolari e redistributive”), rivendicando il titolo di “progressisti” anche per il venezuelano Chavez e il boliviano Morales (non invitati al summit internazionale) e disegnando “un futuro post-capitalista” come scenario della sinistra brasiliana.
Ben altre le preoccupazioni degli europei, stretti tra l’incedere della crisi e lo sforzo per non smobilitare del tutto il capitale di idee e strumenti di governo costruito dalla metà degli anni Novanta. Abbondante la retorica, anche se sostenuta dalla tradizione migliore: come nel caso dei socialdemocratici svedesi, che per voce della nuova leader Mona Sahlin hanno ricordato i meriti storici del modello di welfare scandinavo. E poche le idee davvero buone, come quelle venute dal giovane e brillante ministro britannico del lavoro James Purnell. Un personaggio certamente destinato ad un ruolo di primo piano nel Labour del dopo-Brown e che ieri ha sfidato così il nuovo conformismo statalista: “Non è scontato che la crisi produca una situazione favorevole ai progressisti, soprattutto se cederemo alla tentazione di maledire il capitalismo. Il nostro compito è semmai quello di cambiarlo in senso più egualitario, limitando il ritorno dello Stato e usando la leva del governo per aumentare gli spazi di scelta per i cittadini su temi come la riforma dei servizi pubblici e le politiche educative”. Parole coraggiose in tempi di confusione progressista, pensieri confortanti per quello che potrebbe venire dopo la crisi.
Oggi 29 marzo 2009, 16 ore fa
Lula e il compagno Biden
Oggi 29 marzo 2009, 8 ore fa
Viña del Mar. C’è sempre una prima volta, deve aver pensato il vicepresidente degli Stati Uniti quando Lula lo ha chiamato “compagno Biden” di fronte agli altri capi di stato e di governo riuniti in Cile per il summit progressista. D’altra parte quella di ieri è stata anche la prima occasione in cui l’amministrazione Obama si è presentata ad un vertice internazionale del centrosinistra, circondata da enormi simpatie e aspettative. Intorno al tavolo, oltre a Biden e Lula sedevano Zapatero, Brown, il primo ministro norvegese Stoltenberg, la presidente cilena Bachelet e l’argentina Kirchner. Un confronto tutto politico tra Europa, Stati Uniti e America Latina sulla crisi economica e sugli scenari ideali del centrosinistra. Ma soprattutto il ritorno all’orgoglio progressista per voce di chi esercita una diretta responsabilità di governo, dopo le divisioni della prima giornata del seminario cileno.
A pochi giorni dal G20 londinese, Gordon Brown ha sfoggiato la sua migliore retorica laburista con un richiamo ai valori che possono ispirare la ricostruzione del sistema economico mondiale. “Giustizia e responsabilità – ha detto il primo ministro britannico – sono i valori di fondo che ci rendono quello che siamo: progressisti e riformatori. Ma sono anche i valori che cerchiamo di far vivere nella vita quotidiana e nelle nostre famiglie, e gli stessi che la grande maggioranza della popolazione mondiale condivide nelle sue diverse identità culturali e religiose. È su questi stessi valori che dobbiamo fondare la nuova legittimazione del sistema economico internazionale, traducendoli in regole che permettano al mercato di lavorare nell’interesse pubblico”. Nello specifico, un nuovo sistema di regole per le istituzioni finanziarie internazionali e un allargamento delle competenze della Banca Mondiale ai temi dell’ambiente e della produzione energetica.
Sulla stessa lunghezza d’onda Zapatero, che cimentandosi con i fondamentali progressisti ha parlato della “nostra comune fiducia nella possibilità dell’uomo di migliorare la propria condizione attraverso la formazione e l’innovazione tecnologica”. La stessa fiducia con la quale, secondo il primo ministro spagnolo, i progressisti possono applicarsi alla democratizzazione del mercato finanziario globale importandovi gli obblighi di trasparenza e responsabilità.
Se il brasiliano Lula (oltre al titolo di “compagni” per tutti i capi di stato presenti alla discussione) ha portato al tavolo l’orgoglio per “la vigorosa ondata di democrazia popolare che sta scuotendo tutta l’America Latina e che ci permette finalmente di avere il coraggio di tradurre in pratica le nostre convinzioni”, il debutto di Joe Biden ha prevedibilmente catturato l’attenzione della scena progressista. Un discorso pragmatico, quello del vice di Obama, che ha richiamato gli europei e i sudamericani alla responsabilità di accompagnare gli USA in una nuova stagione di dialogo multilaterale: “La buona notizia è che a Washington c’è stato un vero cambiamento e che la Casa Bianca vuole sinceramente collaborare con la comunità internazionale. La cattiva notizia è che non potrete più contare sulla vecchia amministrazione come scusa per evitare un vostro impegno diretto nel mondo. Perché stavolta noi rispetteremo le regole. Ma quando le regole non funzionano più è dovere di tutti prendersi la responsabilità di scriverne di nuove”.
Particolarmente attento a non apparire pedagogico né paternalista (“Non voglio assolutamente darvi lezioni”, ha ripetuto in tre diverse occasioni) Biden ha sottolineato l’urgenza di rimettere in piedi l’economia statunitense anche come motore della crescita mondiale: “Ci lavoreremo ogni giorno senza ricette ideologiche e concentrandoci solo sulle soluzioni più efficaci per creare posti di lavoro nel settore privato, per sostenere il mercato immobiliare e per restituire vitalità al credito. La nostra ambizione non solo quella di garantire una rete di sicurezza a coloro che sono stati colpiti dalla crisi, ma di fondare le basi di una nuova economia sostenibile”.
Dario tra i progressisti tristi
Ieri 28 marzo 2009, 13.18.00
Viña del Mar. A quasi dodicimila chilometri da Roma, ben al riparo da ogni eco dell’autocelebrazione berlusconiana, Dario Franceschini si presenta al circuito progressista mondiale riunito in Cile da Policy Network e dall’Instituto Igualdad. Lo fa con un discorso in inglese condito da un leggero accento ferrarese, provando a spiegare il posto del Partito democratico in quella che fu la gloriosa carovana della Terza Via. Un compito meno difficile del previsto, perché lo stordimento ideale che attraversa il mondo progressista in questi tempi di crisi accoglie benevolmente il “caso italiano” come una particolarità tra le tante.
Tra i nuovi entusiasti del ritorno dello Stato amministratore, diffusi in particolare tra i sudamericani, e i pochi europei ancora capaci di rivendicare parole come “scelta” e “opportunità”, Franceschini sceglie la strada della “rivoluzione verde” come nuovo orizzonte del centrosinistra internazionale. Lo fa nominando Barack Obama comandante in capo del “mutamento tecnologico e produttivo che potrà cambiare l’economia europea e statunitense”, leggendo la crisi come un’opportunità per “una nuova etica pubblica che sia in grado di animare i nostri comportamenti quotidiani” e naturalmente auspicando “nuove regole globali per un nuovo multilateralismo e una profonda riforma delle istituzioni internazionali”.
C’è anche spazio per un piccolo cenno alla diversità del PD nei confronti dell’Internazionale socialista, con gli inevitabili accenni al Partito del congresso indiano e ai Democratici statunitensi come esempi di non ortodossia socialdemocratica. Ma sul tema diceva di più la stessa composizione della delegazione italiana, assente Fassino e presenti con Franceschini altri tre non socialisti come Francesco Rutelli, Lapo Pistelli e Gianni Vernetti.
Mentre il leader del PD presentava le proprie credenziali, il circuito progressista si guardava allo specchio scoprendosi confuso e diviso. Innanzitutto sui fondamentali, letti con lenti del tutto divergenti dalla sinistra europea e da quella sudamericana. Quest’ultima impegnata a celebrare “il ritorno dello Stato come ritorno della politica sullo sfondo del catastrofico fallimento del paradigma neoliberista”, nelle parole del principale consigliere politico di Lula Marco Aurélio Garcia. Il quale si è spinto a difendere il buon nome del populismo (“troppo spesso usato come insulto da coloro che vogliono attaccare le nostre politiche popolari e redistributive”), rivendicando il titolo di “progressisti” anche per il venezuelano Chavez e il boliviano Morales (non invitati al summit internazionale) e disegnando “un futuro post-capitalista” come scenario della sinistra brasiliana.
Ben altre le preoccupazioni degli europei, stretti tra l’incedere della crisi e lo sforzo per non smobilitare del tutto il capitale di idee e strumenti di governo costruito dalla metà degli anni Novanta. Abbondante la retorica, anche se sostenuta dalla tradizione migliore: come nel caso dei socialdemocratici svedesi, che per voce della nuova leader Mona Sahlin hanno ricordato i meriti storici del modello di welfare scandinavo. E poche le idee davvero buone, come quelle venute dal giovane e brillante ministro britannico del lavoro James Purnell. Un personaggio certamente destinato ad un ruolo di primo piano nel Labour del dopo-Brown e che ieri ha sfidato così il nuovo conformismo statalista: “Non è scontato che la crisi produca una situazione favorevole ai progressisti, soprattutto se cederemo alla tentazione di maledire il capitalismo. Il nostro compito è semmai quello di cambiarlo in senso più egualitario, limitando il ritorno dello Stato e usando la leva del governo per aumentare gli spazi di scelta per i cittadini su temi come la riforma dei servizi pubblici e le politiche educative”. Parole coraggiose in tempi di confusione progressista, pensieri confortanti per quello che potrebbe venire dopo la crisi.
Arendt: Il pescatore di perle
Credo che, nei tempi oscuri, questo grande pensiero di Hannah Arendt possa aiutarci: la nascita di nuove forme, sempre possibile. "Formazioni cristalline": trasparenti e pure.
P.
“[…«] in Benjamin abbiamo qualcosa di – se non unico – certo estremamente raro, il dono di pensare poeticamente. Questo pensiero, nutrito dell'oggi, lavora con i "frammenti di pensiero" che può strappare al passato e raccogliere intorno a sé. Come il pescatore di perle che arriva sul fondo del mare non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per rompere staccando nella profondità le cose preziose e rare, perle e coralli, e per riportarne frammenti alla superficie del giorno, esso si immerge nelle profondità del passato non per richiamarlo in vita così come era e per aiutare il rinnovamento di epoche già consumate. Quello che guida questo pensiero è la convinzione che il mondo vivente ceda alla rovina dei tempi, ma che il processo di decomposizione sia insieme anche un processo di cristallizzazione; che nella "protezione del mare" - nello stesso elemento non storico cui deve cedere tutto quanto si è compiuto nella storia - nascono nuove forme e formazioni cristalline che, rese invulnerabili contro gli elementi, sussistono e aspettano solo il pescatore di perle che le riporti alla luce: come "frammenti di pensiero", come frammenti o anche come eterni "fenomeni originari”. Hannah Arendt, “Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle”, in “Il futuro alle spalle”.
P.
“[…«] in Benjamin abbiamo qualcosa di – se non unico – certo estremamente raro, il dono di pensare poeticamente. Questo pensiero, nutrito dell'oggi, lavora con i "frammenti di pensiero" che può strappare al passato e raccogliere intorno a sé. Come il pescatore di perle che arriva sul fondo del mare non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per rompere staccando nella profondità le cose preziose e rare, perle e coralli, e per riportarne frammenti alla superficie del giorno, esso si immerge nelle profondità del passato non per richiamarlo in vita così come era e per aiutare il rinnovamento di epoche già consumate. Quello che guida questo pensiero è la convinzione che il mondo vivente ceda alla rovina dei tempi, ma che il processo di decomposizione sia insieme anche un processo di cristallizzazione; che nella "protezione del mare" - nello stesso elemento non storico cui deve cedere tutto quanto si è compiuto nella storia - nascono nuove forme e formazioni cristalline che, rese invulnerabili contro gli elementi, sussistono e aspettano solo il pescatore di perle che le riporti alla luce: come "frammenti di pensiero", come frammenti o anche come eterni "fenomeni originari”. Hannah Arendt, “Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle”, in “Il futuro alle spalle”.
Anna Finocchiaro: dichiarazione di voto sul testamento biologico
dal sito dell'Avvenire dei lavoratori
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Un disegno di legge fatto
d'inganno e di tradimento
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La dichiarazione di voto in aula della presidente del gruppo del Pd al Senato.
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di Anna Finocchiaro
presidente del gruppo del Pd al Senato
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Questo disegno di legge è fondato sul tradimento e su parole ingannevoli. Il suo titolo dice "disposizioni in materia di dichiarazioni di volontà anticipate" e dunque gli italiani sono portati a credere che chi esprimerà una propria volontà, sia essa quella che chiede di essere mantenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, sia quella di finire la propria vita naturalmente, questa volontà sarà rispettata.
Non è così. Quelle dichiarazioni di volontà non sono vincolanti, potranno essere comunque disattese e il tradimento arriverà nel momento della maggiore debolezza, quando non ci sarà più la possibilità di dire NO e dire SI.
C'è una straordinaria violenza in questo. Voi vi state arrogando il diritto di sostituirvi a ciascun uomo, di scambiare la sua volontà con la vostra. Nessuno, niente, vi autorizza salvo la vostra prepotenza.
Non vi autorizza la Costituzione, che state allo stesso modo tradendo e non vi rendete conto, proprio voi che vi chiamate Popolo delle libertà, (la vostra, suppongo) di quanto il pensiero cattolico democratico seppe, in quell'articolo 32 della Costituzione, difendere la libertà e la dignità umana (così intimamente connesse da non poter essere scisse) contro l'orrore e la violenza della volontà di Stato nell'imposizione di pratiche sanitarie sui corpi. Qui vi perdete.
Qui si capisce quanto fragile sia la vostra concezione della libertà e della dignità dell'uomo, della sua volontà libera di tornare naturalmente, per chi crede, creatura di Dio, tra le braccia del Padre o, per chi non crede, di finire dignitosamente come è naturale che accada, sperando di avere lasciato segni, affetti, esempi nel mondo.
Tornare naturalmente, presidente Gasparri, che c'entra l'eutanasia? Perché vuole ancora inquinare questa discussione? Il PD è contrario all'eutanasia - chiaro?
Sì, sottosegretario Roccella, le parole possono essere spade. Voi avete brandito come spade le parole vita e morte, facendo un gran fracasso. Qui dove era tempo del raccoglimento e della parola pesata. Qui dove il vostro fracasso voleva nascondere che ciò di cui si stava parlando era altro, era la scelta tra vita artificiale e morte naturale.
Era, come dire, un altro tema. Che avete voluto ignorare ed eludere. Perché qui, ancora, avreste dovuto fare i conti con un'altra grande questione, seria, inquietante e cioè come si ricollochi la dignità della persona umana di fronte al progredire della scienza. E se vi sia e vi possa essere una prepotenza della scienza che travolge il senso dell'esistenza umana. E se la dignitosa libertà dell'uomo possa essere argine rispetto a questo. Non vi capisco, e forse, se riflettete non lo capite anche voi. Perché, come in molti sostengono, e come dice la legge sulla fecondazione assistita, non è legittimo manipolare la vita per evitare malattie e malformazioni, ed invece sarebbe ed è, secondo voi, legittimo manipolare la morte e costringere un corpo per mesi, per anni, su un letto, attaccato a macchine, tubi e cannule. In un'ossessione, che è vostra, ma non di quell' uomo o di quella donna a cui quel corpo appartiene, perché la loro volontà era che si compisse naturalmente ciò che è scritto che deve compiersi.
Noi vogliamo garantire il diritto di quella scelta. Solo questo. Ho ascoltato i vostri interventi sul diritto alla vita. Non mi hanno convinto. Innanzitutto come giurista.
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Anna Finocchiaro
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Non c'è un diritto che vive fuori dal soggetto che ne dispone e che lo esercita. Io ho il diritto alla vita e lo Stato deve garantire che io possa esercitarlo e non dispone della inviolabilità del mio corpo. Ce l'ho perché sono una donna o un uomo, e vivo in un paese democratico. Io ho diritto a non vedere praticati sul mio corpo trattamenti sanitari che non voglio, e lo Stato deve garantire questo diritto.
Noi abbiamo in ogni maniera consentita, cercato di trasferire nel testo la netta affermazione della sacralità della vita, della sua intangibilità e della conseguente impossibilità di disporne da parte di qualunque soggetto istituzionale.
Ma vi sfugge un particolare. O meglio un essenziale presupposto. La Costituzione non crea diritti, li riconosce perché essi appartengono agli uomini che nascono liberi ed uguali, e il patto tra gli uomini - la Costituzione democratica - è che lo Stato rispetti quei diritti, li garantisca nel loro esercizio, promuova ogni condizione perché possano esplicarsi. Perché lo Stato limiti la propria forza, non perché la trasformi, in ogni campo, in un suo monopolio. Individuo e Stato, libertà e autorità, questo è il punto. E lo era nel '48 perché uscivamo da uno Stato totalitario, perché altrove, con i regimi comunisti si radicavano altri regimi totalitari. Voi sembrate ignorarlo. Voi che vi chiamate Popolo delle libertà.
E c'è un'altra cosa che voglio dire, parlo come Presidente del mio Gruppo, ma parlo anche come persona. Io ho imparato molto, proprio molto, dal dibattito interno al mio gruppo, dal confronto così serrato, e anche difficile talvolta con sensibilità diverse dalle mie su queste questioni.
Ho imparato a dubitare. Delle mie certezze, della mia pretesa razionalità, del cartesianesimo delle mie convinzioni. Ho dubitato. E' stato un privilegio e faceva male, è stato costoso. Ma io e gli altri, cito Franco Marini, ma potrei citare Bosone o Soliani o Rutelli o Scanu e i tanti altri, e dovrei citarli uno per uno ma non posso, abbiamo potuto farlo, di discutere così fra noi, e poi di decidere, rispettandoci di più e di più comprendendoci, perché, appunto, non abbiamo avuto paura di farlo. E io, per prima, ho sperimentato mentre infuriavano su di noi le polemiche e le ricostruzioni, anche grottesche - spesso ingenerose - di questo lavoro, che esso poteva essere fatto solo partendo dal riconoscimento pieno e senza condizioni, dell' a priori della libertà di ciascuno. La straordinaria bellezza di questo percorso, il suo straordinario valore sono il nostro contributo politico. Da parte vostra ho visto paura e sordità. Non un segno, uno solo, che eravate disponibili ad ascoltare, a comprendere, a dubitare. Eppure molte sono state le occasioni che con sforzo sincero vi sono state offerte dai nostri senatori e dalle nostre senatrici. Sono forte di tutto questo nell'annunciare il voto contrario del Gruppo del PD a questo testo mentre, come è inevitabile, tra pochi minuti, tra i vostri scroscianti applausi, morirà la libertà e la dignità dell'uomo - così come garantita dall'art. 32, 2° comma, 2^ Parte della Costituzione repubblicana, così come fu scritta da Aldo Moro.
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Un disegno di legge fatto
d'inganno e di tradimento
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La dichiarazione di voto in aula della presidente del gruppo del Pd al Senato.
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di Anna Finocchiaro
presidente del gruppo del Pd al Senato
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Questo disegno di legge è fondato sul tradimento e su parole ingannevoli. Il suo titolo dice "disposizioni in materia di dichiarazioni di volontà anticipate" e dunque gli italiani sono portati a credere che chi esprimerà una propria volontà, sia essa quella che chiede di essere mantenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, sia quella di finire la propria vita naturalmente, questa volontà sarà rispettata.
Non è così. Quelle dichiarazioni di volontà non sono vincolanti, potranno essere comunque disattese e il tradimento arriverà nel momento della maggiore debolezza, quando non ci sarà più la possibilità di dire NO e dire SI.
C'è una straordinaria violenza in questo. Voi vi state arrogando il diritto di sostituirvi a ciascun uomo, di scambiare la sua volontà con la vostra. Nessuno, niente, vi autorizza salvo la vostra prepotenza.
Non vi autorizza la Costituzione, che state allo stesso modo tradendo e non vi rendete conto, proprio voi che vi chiamate Popolo delle libertà, (la vostra, suppongo) di quanto il pensiero cattolico democratico seppe, in quell'articolo 32 della Costituzione, difendere la libertà e la dignità umana (così intimamente connesse da non poter essere scisse) contro l'orrore e la violenza della volontà di Stato nell'imposizione di pratiche sanitarie sui corpi. Qui vi perdete.
Qui si capisce quanto fragile sia la vostra concezione della libertà e della dignità dell'uomo, della sua volontà libera di tornare naturalmente, per chi crede, creatura di Dio, tra le braccia del Padre o, per chi non crede, di finire dignitosamente come è naturale che accada, sperando di avere lasciato segni, affetti, esempi nel mondo.
Tornare naturalmente, presidente Gasparri, che c'entra l'eutanasia? Perché vuole ancora inquinare questa discussione? Il PD è contrario all'eutanasia - chiaro?
Sì, sottosegretario Roccella, le parole possono essere spade. Voi avete brandito come spade le parole vita e morte, facendo un gran fracasso. Qui dove era tempo del raccoglimento e della parola pesata. Qui dove il vostro fracasso voleva nascondere che ciò di cui si stava parlando era altro, era la scelta tra vita artificiale e morte naturale.
Era, come dire, un altro tema. Che avete voluto ignorare ed eludere. Perché qui, ancora, avreste dovuto fare i conti con un'altra grande questione, seria, inquietante e cioè come si ricollochi la dignità della persona umana di fronte al progredire della scienza. E se vi sia e vi possa essere una prepotenza della scienza che travolge il senso dell'esistenza umana. E se la dignitosa libertà dell'uomo possa essere argine rispetto a questo. Non vi capisco, e forse, se riflettete non lo capite anche voi. Perché, come in molti sostengono, e come dice la legge sulla fecondazione assistita, non è legittimo manipolare la vita per evitare malattie e malformazioni, ed invece sarebbe ed è, secondo voi, legittimo manipolare la morte e costringere un corpo per mesi, per anni, su un letto, attaccato a macchine, tubi e cannule. In un'ossessione, che è vostra, ma non di quell' uomo o di quella donna a cui quel corpo appartiene, perché la loro volontà era che si compisse naturalmente ciò che è scritto che deve compiersi.
Noi vogliamo garantire il diritto di quella scelta. Solo questo. Ho ascoltato i vostri interventi sul diritto alla vita. Non mi hanno convinto. Innanzitutto come giurista.
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Anna Finocchiaro
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Non c'è un diritto che vive fuori dal soggetto che ne dispone e che lo esercita. Io ho il diritto alla vita e lo Stato deve garantire che io possa esercitarlo e non dispone della inviolabilità del mio corpo. Ce l'ho perché sono una donna o un uomo, e vivo in un paese democratico. Io ho diritto a non vedere praticati sul mio corpo trattamenti sanitari che non voglio, e lo Stato deve garantire questo diritto.
Noi abbiamo in ogni maniera consentita, cercato di trasferire nel testo la netta affermazione della sacralità della vita, della sua intangibilità e della conseguente impossibilità di disporne da parte di qualunque soggetto istituzionale.
Ma vi sfugge un particolare. O meglio un essenziale presupposto. La Costituzione non crea diritti, li riconosce perché essi appartengono agli uomini che nascono liberi ed uguali, e il patto tra gli uomini - la Costituzione democratica - è che lo Stato rispetti quei diritti, li garantisca nel loro esercizio, promuova ogni condizione perché possano esplicarsi. Perché lo Stato limiti la propria forza, non perché la trasformi, in ogni campo, in un suo monopolio. Individuo e Stato, libertà e autorità, questo è il punto. E lo era nel '48 perché uscivamo da uno Stato totalitario, perché altrove, con i regimi comunisti si radicavano altri regimi totalitari. Voi sembrate ignorarlo. Voi che vi chiamate Popolo delle libertà.
E c'è un'altra cosa che voglio dire, parlo come Presidente del mio Gruppo, ma parlo anche come persona. Io ho imparato molto, proprio molto, dal dibattito interno al mio gruppo, dal confronto così serrato, e anche difficile talvolta con sensibilità diverse dalle mie su queste questioni.
Ho imparato a dubitare. Delle mie certezze, della mia pretesa razionalità, del cartesianesimo delle mie convinzioni. Ho dubitato. E' stato un privilegio e faceva male, è stato costoso. Ma io e gli altri, cito Franco Marini, ma potrei citare Bosone o Soliani o Rutelli o Scanu e i tanti altri, e dovrei citarli uno per uno ma non posso, abbiamo potuto farlo, di discutere così fra noi, e poi di decidere, rispettandoci di più e di più comprendendoci, perché, appunto, non abbiamo avuto paura di farlo. E io, per prima, ho sperimentato mentre infuriavano su di noi le polemiche e le ricostruzioni, anche grottesche - spesso ingenerose - di questo lavoro, che esso poteva essere fatto solo partendo dal riconoscimento pieno e senza condizioni, dell' a priori della libertà di ciascuno. La straordinaria bellezza di questo percorso, il suo straordinario valore sono il nostro contributo politico. Da parte vostra ho visto paura e sordità. Non un segno, uno solo, che eravate disponibili ad ascoltare, a comprendere, a dubitare. Eppure molte sono state le occasioni che con sforzo sincero vi sono state offerte dai nostri senatori e dalle nostre senatrici. Sono forte di tutto questo nell'annunciare il voto contrario del Gruppo del PD a questo testo mentre, come è inevitabile, tra pochi minuti, tra i vostri scroscianti applausi, morirà la libertà e la dignità dell'uomo - così come garantita dall'art. 32, 2° comma, 2^ Parte della Costituzione repubblicana, così come fu scritta da Aldo Moro.
Vittorio Melandri: e la sinistra che fa?
Colonna sonora, gli applausi per Debora; trama, remake del film “C’eravamo tanto amati”
E la sinistra“che fa”: “se gratta”.
Fortuna c’è Fini “un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d’un uomo di Stato”.
Ecco due lettere che non vedranno mai la pagina dei fogli a cui sono state indirizzate. Fatte circolare così, tanto per essere in armonia con il tempo uggioso, e con il fatto che Eugenio Scalfari su la Repubblica di questa mattina 29 marzo, definisce il “fascista” Fini “un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d’un uomo di Stato”.
Buona domenica, vittorio
Caro Parlato
Per dirla con Elio Veltri, l’Italia è “un paese europeo per caso”, e per dirla con Ezio Mauro, “il vecchio populismo (che la anima e guida) non può reggere a lungo la sfida della modernità nel cuore dell’Europa”. Racchiusa in queste due “parentesi” se ne sta, ormai ridotta al lumicino, la speranza che non tutto sia perduto per i cittadini di una Repubblica che ai suoi vertici vede oggi “quattro intoccabili”. Un Presidente della Repubblica, per dirla ancora con Scalfari, che è sì “elemento di massima garanzia che si batterà fino all’ultimo per impedire che possa esistere una Costituzione di maggioranza”, e pure già comunista seppur “migliorista”, ma a cui nessuno chiede conto del perché abbia lumeggiato il compaesano Giovanni Leone con parole a dir poco fragili: “ un giurista al Quirinale”. Un Presidente del Senato, per dirla con Barbara Spinelli, su cui solo in Italia si è “esitato a indagare (…) - dopo le rivelazioni di Abbate e Travaglio - scoraggiando la sua nomina a Presidente del Senato”; non per caso seconda carica dello Stato. Un presidente della Camera che oggi dichiara infastidito che su Mussolini Benito ha cambiato idea, lo dimostrerebbe quello che ha fatto negli ultimi quindici anni, ma a cui nessun fa osservare che quando nel marzo-aprile del 1994 ad Alberto Statera dichiarava che lo stesso Mussolini era “il miglior statista del secolo”, non era un “pischello” di borgata, ma un uomo maturo con alle spalle 42 anni di vita, di cui almeno venti spesi nell’impegno politico di “alto” profilo. Un Presidente del Consiglio che sin dal 1990 una Corte di Appello (pur senza effetti giuridici per sopravvenuta amnistia) ha riconosciuto spergiuro quando dichiarava non veritiera la sua affiliazione alla loggia Propaganda 2 (P2), tessera 1816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625. Caro Parlato, si ha un bell’essere critici sull’assetto politico di questa Europa, ma se non ci fosse almeno questa, non vedo proprio a cosa gli italiani del futuro potranno aggrapparsi; non certo ad una sinistra rispetto alla quale, a tutt’oggi, formulando un “che fa”, di leninista memoria, e scimmiottando amaramente il poeta, si può solo rispondere: “se gratta”.
Cara Unità
Sono fra quelle migliaia di frequentatori della rete che hanno cliccato sul video dell’intervento della compagna (si può dire?) Debora Serrachiani all’assemblea nazionale dei Circoli PD, partito che si prefigge di aumentare i suoi consensi, e che quindi per conseguenza logica, non dovrebbe essere infastidito dal confronto con chi come me il consenso sino ad ora glielo ha negato. Ebbene, condizionato dall’esperienza, non posso intanto evitare di ricordare che gli applausi, da sempre, nelle nostre assemblee di sinistra, ma anche in quelle di centro che non hanno mai nascosto di “guardare a sinistra”, si è usato riservarli ai più franchi e trasparenti di noi, come è il caso del tutto evidente di Serrachiani, salvo poi riservare i voti ad altri, e cito per tutti tre nomi in ordine alfabetico: Andreatta, Ingrao, Lombardi. Aggiungo che colpisce come un pugno sotto la cintura, l’opera di “riciclaggio” e “auto-riciclaggio” in corso, di cui si legge in queste ore sui giornali. Ovunque si “riciclano” consiglieri regionali in candidati alle provinciali, sindaci di piccoli comuni candidati in comuni un poco più grandi, consiglieri provinciali scaduti in candidati di riserva pronti all’uso, sindaci simbolo pronti a sacrificarsi per reggere il simbolo UE, Presidenti di Regione disposti anche a farsi “di-scaricare” in qualche ri-valorizzatore con il bollino europeo, etc., etc., etc. Ovviamente resta sempre la speranza che i media stiano solo facendo calcolata e perversa disinformazione, ma non invidio Maurizio Migliavacca. Quando nel 1999 in una assemblea DS a Fiorenzuola D’Arda, sostenevamo insieme il referendum per l’abolizione della quota proporzionale residua, avevamo innanzi i cittadini che lo avevano eletto parlamentare nel collegio; oggi, anche a causa del fallimento di quel referendum, gli tocca il compito “ingrato”(?) di pilotare una macchina, che, anche in Europa e pure nelle amministrative, gode di un assetto che di fatto gli permette di sorpassare gli elettori e porta direttamente a destinazione gli eletti. Colonna sonora, gli applausi per Debora; trama, remake del film “C’eravamo tanto amati”.
E la sinistra“che fa”: “se gratta”.
Fortuna c’è Fini “un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d’un uomo di Stato”.
Ecco due lettere che non vedranno mai la pagina dei fogli a cui sono state indirizzate. Fatte circolare così, tanto per essere in armonia con il tempo uggioso, e con il fatto che Eugenio Scalfari su la Repubblica di questa mattina 29 marzo, definisce il “fascista” Fini “un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d’un uomo di Stato”.
Buona domenica, vittorio
Caro Parlato
Per dirla con Elio Veltri, l’Italia è “un paese europeo per caso”, e per dirla con Ezio Mauro, “il vecchio populismo (che la anima e guida) non può reggere a lungo la sfida della modernità nel cuore dell’Europa”. Racchiusa in queste due “parentesi” se ne sta, ormai ridotta al lumicino, la speranza che non tutto sia perduto per i cittadini di una Repubblica che ai suoi vertici vede oggi “quattro intoccabili”. Un Presidente della Repubblica, per dirla ancora con Scalfari, che è sì “elemento di massima garanzia che si batterà fino all’ultimo per impedire che possa esistere una Costituzione di maggioranza”, e pure già comunista seppur “migliorista”, ma a cui nessuno chiede conto del perché abbia lumeggiato il compaesano Giovanni Leone con parole a dir poco fragili: “ un giurista al Quirinale”. Un Presidente del Senato, per dirla con Barbara Spinelli, su cui solo in Italia si è “esitato a indagare (…) - dopo le rivelazioni di Abbate e Travaglio - scoraggiando la sua nomina a Presidente del Senato”; non per caso seconda carica dello Stato. Un presidente della Camera che oggi dichiara infastidito che su Mussolini Benito ha cambiato idea, lo dimostrerebbe quello che ha fatto negli ultimi quindici anni, ma a cui nessun fa osservare che quando nel marzo-aprile del 1994 ad Alberto Statera dichiarava che lo stesso Mussolini era “il miglior statista del secolo”, non era un “pischello” di borgata, ma un uomo maturo con alle spalle 42 anni di vita, di cui almeno venti spesi nell’impegno politico di “alto” profilo. Un Presidente del Consiglio che sin dal 1990 una Corte di Appello (pur senza effetti giuridici per sopravvenuta amnistia) ha riconosciuto spergiuro quando dichiarava non veritiera la sua affiliazione alla loggia Propaganda 2 (P2), tessera 1816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625. Caro Parlato, si ha un bell’essere critici sull’assetto politico di questa Europa, ma se non ci fosse almeno questa, non vedo proprio a cosa gli italiani del futuro potranno aggrapparsi; non certo ad una sinistra rispetto alla quale, a tutt’oggi, formulando un “che fa”, di leninista memoria, e scimmiottando amaramente il poeta, si può solo rispondere: “se gratta”.
Cara Unità
Sono fra quelle migliaia di frequentatori della rete che hanno cliccato sul video dell’intervento della compagna (si può dire?) Debora Serrachiani all’assemblea nazionale dei Circoli PD, partito che si prefigge di aumentare i suoi consensi, e che quindi per conseguenza logica, non dovrebbe essere infastidito dal confronto con chi come me il consenso sino ad ora glielo ha negato. Ebbene, condizionato dall’esperienza, non posso intanto evitare di ricordare che gli applausi, da sempre, nelle nostre assemblee di sinistra, ma anche in quelle di centro che non hanno mai nascosto di “guardare a sinistra”, si è usato riservarli ai più franchi e trasparenti di noi, come è il caso del tutto evidente di Serrachiani, salvo poi riservare i voti ad altri, e cito per tutti tre nomi in ordine alfabetico: Andreatta, Ingrao, Lombardi. Aggiungo che colpisce come un pugno sotto la cintura, l’opera di “riciclaggio” e “auto-riciclaggio” in corso, di cui si legge in queste ore sui giornali. Ovunque si “riciclano” consiglieri regionali in candidati alle provinciali, sindaci di piccoli comuni candidati in comuni un poco più grandi, consiglieri provinciali scaduti in candidati di riserva pronti all’uso, sindaci simbolo pronti a sacrificarsi per reggere il simbolo UE, Presidenti di Regione disposti anche a farsi “di-scaricare” in qualche ri-valorizzatore con il bollino europeo, etc., etc., etc. Ovviamente resta sempre la speranza che i media stiano solo facendo calcolata e perversa disinformazione, ma non invidio Maurizio Migliavacca. Quando nel 1999 in una assemblea DS a Fiorenzuola D’Arda, sostenevamo insieme il referendum per l’abolizione della quota proporzionale residua, avevamo innanzi i cittadini che lo avevano eletto parlamentare nel collegio; oggi, anche a causa del fallimento di quel referendum, gli tocca il compito “ingrato”(?) di pilotare una macchina, che, anche in Europa e pure nelle amministrative, gode di un assetto che di fatto gli permette di sorpassare gli elettori e porta direttamente a destinazione gli eletti. Colonna sonora, gli applausi per Debora; trama, remake del film “C’eravamo tanto amati”.
Sergio Ferrari: la doppia crisi italiana
Associazione LABOUR – Riccardo Lombardi
Roma, 28 marzo ‘09
La doppia crisi italiana
Sergio Ferrari*
Ammesso, e non concesso che, come alcuni sostengono, la crisi economica internazionale abbia riflessi minori nel caso italiano - un aspetto comunque non sufficiente per sminuirne la drammaticità - occorre ricordare come essa si sovrapponga ad un’altra crisi, certo meno clamorosa, preesistente nel nostro paese da alcuni decenni. “Ridotta” al dato economico questa crisi si misura infatti in una capacita di produrre ricchezza inferiore a quella di tutti paesi dell’U.E.(15). Negli ultimi venti anni questa perdita corrisponde a oltre mezzo punto percentuale di Pil all’anno. Se si vuole risalire a quando inizia questa nostra difficoltà, anche per tentare di capirne le cause, ci si può collocare a metà degli anni ’80. (V. Fig 1).
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat
Da quegli anni il nostro sviluppo economico, sino ad allora superiore a quella media dell’Unione, incomincia a perdere colpi per avviarsi verso un declino sempre più evidente. Naturalmente questo andamento ha un rilievo in sé, ma per essere compreso occorre un confronto con i cambiamenti intervenuti nei paesi europei, in quanto deve essere successo da noi qualche cosa che non si è verificata altrove. In altri termini la ricerca di una causa del declino è una questione che implica una analisi su un orizzonte geopolitico opportuno. Un primo indizio molto significativo emerge dall’analisi dell’andamento della bilancia commerciale dei prodotti manifatturieri. In particolare se dal paniere di questi prodotti vengono distinti e aggregati i prodotti ad alta tecnologia, l’andamento del corrispondente saldo commerciale indica un anomalia dell’Italia nel senso che il nostro paese accumula un deficit crescente rispetto ad andamenti positivi degli altri paesi industrializzati. (V. Graf.1)
Una “divergenza tecnologica” di questa entità rappresenta una questione strutturale le cui origini vanno ricercate in alcune caratteristiche storiche del nostro sistema produttivo – familismo, ritardi della classe borghese, cultura crociana, crisi della grande impresa, ecc. - ma, come accennato, anche nei mutamenti intervenuti negli altri paesi. In questa direzione occorre ricordare che dall’inizio degli anni ’70 era cambiato il sistema monetario con il superamento degli accordi di Bretton Woods del 1944. Probabilmente ancora più rilevanti sono stati però gli effetti della prima crisi petrolifera che aveva colto di sorpresa tutte le economie e particolarmente quelle - cioè quasi tutte - che presentavano una forte dipendenza energetica e che, quindi, venivano colpite con un forte appesantimento dei loro equilibri commerciali. La seconda crisi energetica della fine degli anni ’70 – diversa nelle cause dalla prima – confermava una situazione non contingente che dal punto di vista commerciale imponeva un ulteriore recupero di capacità esportatrici, basate tuttavia non sull’impiego delle materie prime.
Grafico 1
Fonte: Elaborazioni su dati de” L’Osservatorio ENEA sull’Italia nella Competizione Tecnologica Internazionale”.
In questo quadro che mutava le relazioni economiche internazionali, quasi tutti i paesi puntarono su una diversa competitività tecnologica, seconda la logica economica che rintraccia nel cambiamento tecnologico la variazione positiva della produttività.
Nella situazione italiana una serie di condizioni avevano portato alla ribalta un sistema produttivo centrato sulla preminenza delle PMI e delle produzioni di beni, prevalentemente di consumo, a basso contenuto tecnologico. Per svariati anni tale sistema aveva espresso capacità di sviluppo utilizzando bassi salari, svalutazioni della lira ed economie di tipo marshalliano. Un mix di successo particolarmente efficace sino al momento in cui, da un lato l’accumulo della capacità competitiva di natura tecnologica da parte degli altri paesi tendeva a spostare le specializzazioni produttive, ma intanto lasciava spazi alle produzioni italiane e, dall’altro, doveva ancora manifestarsi in termini consistenti la concorrenza da parte di paesi in via di sviluppo. Una situazione che sembrava confermare la straordinarietà di una situazione in controtendenza rispetto al quadro internazionale, per cui si è parlato di un abbastanza originale secondo miracolo economico, di una capacità di “sviluppo senza ricerca scientifica e tecnologica”. Sono stati pochi quelli che hanno cercato di richiamare l’attenzione su una situazione fortunata, ma che aveva in sè delle grandissime debolezze strutturali. Nonostante queste debolezze si andassero concretamente manifestandosi, le cause e le interpretazioni prevalenti del declino italiano si preferì, e si preferisce tuttora, ricercarle in altre condizioni, alcune risibili se non fossero drammatiche e con una prevalenza attribuita al costo del lavoro, e sebbene la realtà sia opposta, nel senso che il costo del lavoro in Italia è stato ed è inferiore a quello dei Paesi comunitari. Lo stesso recente accordo sulla contrattazione sindacale contiene elementi che confermano questa lettura e il tentativo impossibile di difendere la conservazione di un sistema produttivo che, così com’è, rappresenta la causa del declino del paese. Politicamente la questione è comprensibile in quanto modificare questa situazione significa sviluppare una politica industriale i cui ingredienti non possono essere gli incentivi, sempre ben accolti, ma dovrebbero essere rintracciati in un ruolo diverso dell’intervento pubblico, mentre da anni anche il centro-sinistra e anche gli esponenti economici di quell’area sono fossilizzati su tema del libero mercato e della mano invisibile.
Se si vanno a esaminare gli elementi strutturali del nostro sistema produttivo a confronto con gli altri paesi, occorre porre attenzione a due caratteristiche:
- la struttura dimensionale delle imprese manifatturiere percentualmente molto inferiore a quella esistente nell’UE. Di conseguenza se è fortemente maggiore la percentuale di addetti nelle piccole imprese, è anche molto minore la percentuale di addetti impegnati nelle medie e grandi imprese. (V. Tab. 1).
Tabella 1 - Percentuale di addetti per dimensione d’impresa (2005)
Con 20 o meno Con 250 o più
Ita 30,7 26,3
Fra 17 47,7
Ger 14,1 54
Fin 12,7 53,1
Sve 14,5 52,1
Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat.
- una composizione professionale sostanzialmente spostata su basse qualifiche e che può essere ben rappresenta dalla dotazione di personale addetto alla ricerca che indica non solo una situazione costantemente peggiore ma, quel che è ancora più grave, un “encefalogramma” piatto rispetto ad un andamento costantemente crescente nei paesi dell’UE. (V. Graf. 2).
Grafico 2
Fonte: Elaborazione su dati OCSE.
Queste due caratteristiche, in qualche misura connesse, ne implicano altre che riguardano direttamente l’economia e il lavoro :
- un valore aggiunto nelle imprese a minor livello tecnologico che essendo mediamente inferiore del 20% rispetto a quello delle imprese ad alta tecnologia, si trasferisce sulla nostra più bassa capacità di crescita e nella minore occupazione;
- un livello retributivo nelle imprese più piccole inferiore del 20-30 % rispetto alla media-grande impresa e a parità di specializzazione produttiva.
La pesantezza di questa situazione non sta solo nelle differenze puntuali che separano l’Italia dall’Unione Europea ma anche nella tendenza al loro peggioramento.
Occorre rilevare che anche da noi vari governi hanno a più riprese approvato provvedimenti con l’intento di accrescere l’attività di ricerca e sviluppo delle imprese, anche recuperando risorse a scapito delle strutture di ricerca pubbliche, ma con risultati che dovrebbero indurre qualche riflessione.
Se queste agevolazioni potessero avere un effetto positivo non ci sarebbe molto da dire, in linea generale, e si potrebbero identificare criteri per assicurare l’interesse privato con quello pubblico. Interventi di questa natura presuppongono, tuttavia, che gli attori industriali non investano in R&S autonomamente per una specie di maggiore avarizia rispetto ai colleghi degli altri paesi. Una causa poco credibile essendo la realtà molto più semplice ed evidente, se la si vuole vedere, dal momento che gli imprenditori degli altri paesi, a parità di dimensione e di specializzazione produttiva, investono in ricerca e sviluppo più o meno quanto i nostri connazionali. In tutti i paesi l’entità della spesa in ricerca da parte delle imprese è collegata alla struttura dimensionale e alla tipologia del prodotto, cioè alla specializzazione produttiva. Queste condizioni non solo sono confermate dalle statistiche, ma hanno anche una evidenza logica che non dovrebbe richiedere particolari spiegazioni. Se si vuole modificare la specializzazione produttiva è difficile fare affidamento sulla base produttiva che si vorrebbe cambiare, perché il cambiamento di specializzazione produttiva è più vicino alla creazione di una nuova impresa che alla trasformazione di una impresa preesistente. E un’impresa ad alta tecnologia ha tre esigenze per poter nascere: disporre delle conoscenze opportune, dei relativi finanziamenti e delle capacità imprenditoriali. Il tutto con una strategia produttiva elaborata in anticipo. Il sistema industriale nazionale sembra del tutto carente nel fornire questi ingredienti. Ma poiché le logiche conseguenti richiederebbero un intervento pubblico ancora più inaccettabile del declino, si sta alimentando un circuito perverso che non è chiaro dove ci potrebbe portare, mentre i vari governi sembrano del tutto privi di politiche industriali adeguate.
Tutto questo è coperto oggi dalla crisi internazionale. Essa pone a tutti i paesi problemi gravissimi e per tempi incerti e non è ancora chiaro come e quando se ne potrà uscire.
Non è ancora chiaro nemmeno se le riflessioni sulle cause profonde della crisi che inducono a progettare modificazioni profonde del sistema produttivo e sociale – le tecnologie ambientali, già sul tappeto per motivi propri di sostenibilità dello sviluppo, la modificazione della qualità della domanda secondo il concetto del “cambiamento del motore senza fermare la macchina”, lo spostamento dei meccanismi di distribuzione delle risorse, ecc. - potranno avere uno sbocco positivo o meno, almeno a livello internazionale. Occorre mettere nel conto, infatti, l’elevata probabilità che non esistano le condizioni politiche per un processo di trasformazione di tale spessore, anche se sulla carta esistono le condizioni per cambiamenti radicali. Dalla crisi del ’29 si uscì dopo non pochi anni, ma con una serie di riforme in materia di ruolo del sindacato e redistribuzione della ricchezza, di welfare e quindi di qualità dello sviluppo rappresentata da quella che potremmo chiamare “la prima rivoluzione socialdemocratica”. Attualmente la crisi economica internazionale potrebbe dar luogo ad una seconda rivoluzione di quel tipo in parte riprendendo e sviluppando alcuni interventi di allora, particolarmente in materia di distribuzione della ricchezza, ma aggiungendo quelle modificazioni della domanda che da sole ne sarebbero il centro.
Keynes e Sylos Labini
Già negli anni ’20 Keynes, rilevava che “ i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi rientrano, tuttavia, in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione ci eleva …”. “ I bisogni della seconda categoria possono davvero essere inesauribili …..il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti..” Guardando avanti, ai progressi consentiti dallo sviluppo tecnologico e dai conseguenti aumenti della produttività, Keynes giunge alla conclusione “ che scartando l’eventualità di guerre e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo.” E’ vero che l’umanità si è “sprecata” a fare guerre, ma intanto quel secolo sta passando. E se come afferma Keynes “tre ore di lavoro al giorno sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Abramo”, (cioè la domanda di beni assoluti) si può anche incominciare ad affrontare la vecchia questione del socialismo riproposta recentemente da Sylos Labini secondo il quale “ il capitalismo è un sistema in evoluzione continua e può essere spinto da noi in una direzione o nell’altra. Il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell’alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo.”. . Coniugare e programmare queste due citazioni potrebbe costituire il mandato per elaborare un Programma/Progetto per la sinistra incominciando dall’impegno a livello europeo. Anche perché a livello internazionale per ora l’accento sembra orientato a riprendere il cammino precedente, con quegli aggiustamenti ambientali, o presunti tali, ma che non modificano le logiche di fondo.
Anche per quanto riguarda il nostro paese il sistema produttivo si dovrà misurare con i processi di selezione indotti dalle difficoltà competitive accentuate dalla crisi economica. Queste non possono che accrescere i processi di espulsione delle imprese in relazione alle diverse capacità competitive. In questo senso le debolezze strutturali derivanti dal nanismo e dalla nostra specializzazione produttiva rappresentano un fattore di maggiore rischio della nostra economia reale che potrà manifestarsi, tra l’altro, con una accresciuta riduzione dei livelli occupazionali .
A meno che non si voglia uscire da questa situazione non solo in virtù degli effetti di trascinamento esogeni ma anche cercando di superare quei fattori di debolezza che comunque ci spingevano verso il declino.
*Segretario Associazione LABOUR “Riccardo Lombardi”
.
Roma, 28 marzo ‘09
La doppia crisi italiana
Sergio Ferrari*
Ammesso, e non concesso che, come alcuni sostengono, la crisi economica internazionale abbia riflessi minori nel caso italiano - un aspetto comunque non sufficiente per sminuirne la drammaticità - occorre ricordare come essa si sovrapponga ad un’altra crisi, certo meno clamorosa, preesistente nel nostro paese da alcuni decenni. “Ridotta” al dato economico questa crisi si misura infatti in una capacita di produrre ricchezza inferiore a quella di tutti paesi dell’U.E.(15). Negli ultimi venti anni questa perdita corrisponde a oltre mezzo punto percentuale di Pil all’anno. Se si vuole risalire a quando inizia questa nostra difficoltà, anche per tentare di capirne le cause, ci si può collocare a metà degli anni ’80. (V. Fig 1).
Fonte: Elaborazione su dati Eurostat
Da quegli anni il nostro sviluppo economico, sino ad allora superiore a quella media dell’Unione, incomincia a perdere colpi per avviarsi verso un declino sempre più evidente. Naturalmente questo andamento ha un rilievo in sé, ma per essere compreso occorre un confronto con i cambiamenti intervenuti nei paesi europei, in quanto deve essere successo da noi qualche cosa che non si è verificata altrove. In altri termini la ricerca di una causa del declino è una questione che implica una analisi su un orizzonte geopolitico opportuno. Un primo indizio molto significativo emerge dall’analisi dell’andamento della bilancia commerciale dei prodotti manifatturieri. In particolare se dal paniere di questi prodotti vengono distinti e aggregati i prodotti ad alta tecnologia, l’andamento del corrispondente saldo commerciale indica un anomalia dell’Italia nel senso che il nostro paese accumula un deficit crescente rispetto ad andamenti positivi degli altri paesi industrializzati. (V. Graf.1)
Una “divergenza tecnologica” di questa entità rappresenta una questione strutturale le cui origini vanno ricercate in alcune caratteristiche storiche del nostro sistema produttivo – familismo, ritardi della classe borghese, cultura crociana, crisi della grande impresa, ecc. - ma, come accennato, anche nei mutamenti intervenuti negli altri paesi. In questa direzione occorre ricordare che dall’inizio degli anni ’70 era cambiato il sistema monetario con il superamento degli accordi di Bretton Woods del 1944. Probabilmente ancora più rilevanti sono stati però gli effetti della prima crisi petrolifera che aveva colto di sorpresa tutte le economie e particolarmente quelle - cioè quasi tutte - che presentavano una forte dipendenza energetica e che, quindi, venivano colpite con un forte appesantimento dei loro equilibri commerciali. La seconda crisi energetica della fine degli anni ’70 – diversa nelle cause dalla prima – confermava una situazione non contingente che dal punto di vista commerciale imponeva un ulteriore recupero di capacità esportatrici, basate tuttavia non sull’impiego delle materie prime.
Grafico 1
Fonte: Elaborazioni su dati de” L’Osservatorio ENEA sull’Italia nella Competizione Tecnologica Internazionale”.
In questo quadro che mutava le relazioni economiche internazionali, quasi tutti i paesi puntarono su una diversa competitività tecnologica, seconda la logica economica che rintraccia nel cambiamento tecnologico la variazione positiva della produttività.
Nella situazione italiana una serie di condizioni avevano portato alla ribalta un sistema produttivo centrato sulla preminenza delle PMI e delle produzioni di beni, prevalentemente di consumo, a basso contenuto tecnologico. Per svariati anni tale sistema aveva espresso capacità di sviluppo utilizzando bassi salari, svalutazioni della lira ed economie di tipo marshalliano. Un mix di successo particolarmente efficace sino al momento in cui, da un lato l’accumulo della capacità competitiva di natura tecnologica da parte degli altri paesi tendeva a spostare le specializzazioni produttive, ma intanto lasciava spazi alle produzioni italiane e, dall’altro, doveva ancora manifestarsi in termini consistenti la concorrenza da parte di paesi in via di sviluppo. Una situazione che sembrava confermare la straordinarietà di una situazione in controtendenza rispetto al quadro internazionale, per cui si è parlato di un abbastanza originale secondo miracolo economico, di una capacità di “sviluppo senza ricerca scientifica e tecnologica”. Sono stati pochi quelli che hanno cercato di richiamare l’attenzione su una situazione fortunata, ma che aveva in sè delle grandissime debolezze strutturali. Nonostante queste debolezze si andassero concretamente manifestandosi, le cause e le interpretazioni prevalenti del declino italiano si preferì, e si preferisce tuttora, ricercarle in altre condizioni, alcune risibili se non fossero drammatiche e con una prevalenza attribuita al costo del lavoro, e sebbene la realtà sia opposta, nel senso che il costo del lavoro in Italia è stato ed è inferiore a quello dei Paesi comunitari. Lo stesso recente accordo sulla contrattazione sindacale contiene elementi che confermano questa lettura e il tentativo impossibile di difendere la conservazione di un sistema produttivo che, così com’è, rappresenta la causa del declino del paese. Politicamente la questione è comprensibile in quanto modificare questa situazione significa sviluppare una politica industriale i cui ingredienti non possono essere gli incentivi, sempre ben accolti, ma dovrebbero essere rintracciati in un ruolo diverso dell’intervento pubblico, mentre da anni anche il centro-sinistra e anche gli esponenti economici di quell’area sono fossilizzati su tema del libero mercato e della mano invisibile.
Se si vanno a esaminare gli elementi strutturali del nostro sistema produttivo a confronto con gli altri paesi, occorre porre attenzione a due caratteristiche:
- la struttura dimensionale delle imprese manifatturiere percentualmente molto inferiore a quella esistente nell’UE. Di conseguenza se è fortemente maggiore la percentuale di addetti nelle piccole imprese, è anche molto minore la percentuale di addetti impegnati nelle medie e grandi imprese. (V. Tab. 1).
Tabella 1 - Percentuale di addetti per dimensione d’impresa (2005)
Con 20 o meno Con 250 o più
Ita 30,7 26,3
Fra 17 47,7
Ger 14,1 54
Fin 12,7 53,1
Sve 14,5 52,1
Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat.
- una composizione professionale sostanzialmente spostata su basse qualifiche e che può essere ben rappresenta dalla dotazione di personale addetto alla ricerca che indica non solo una situazione costantemente peggiore ma, quel che è ancora più grave, un “encefalogramma” piatto rispetto ad un andamento costantemente crescente nei paesi dell’UE. (V. Graf. 2).
Grafico 2
Fonte: Elaborazione su dati OCSE.
Queste due caratteristiche, in qualche misura connesse, ne implicano altre che riguardano direttamente l’economia e il lavoro :
- un valore aggiunto nelle imprese a minor livello tecnologico che essendo mediamente inferiore del 20% rispetto a quello delle imprese ad alta tecnologia, si trasferisce sulla nostra più bassa capacità di crescita e nella minore occupazione;
- un livello retributivo nelle imprese più piccole inferiore del 20-30 % rispetto alla media-grande impresa e a parità di specializzazione produttiva.
La pesantezza di questa situazione non sta solo nelle differenze puntuali che separano l’Italia dall’Unione Europea ma anche nella tendenza al loro peggioramento.
Occorre rilevare che anche da noi vari governi hanno a più riprese approvato provvedimenti con l’intento di accrescere l’attività di ricerca e sviluppo delle imprese, anche recuperando risorse a scapito delle strutture di ricerca pubbliche, ma con risultati che dovrebbero indurre qualche riflessione.
Se queste agevolazioni potessero avere un effetto positivo non ci sarebbe molto da dire, in linea generale, e si potrebbero identificare criteri per assicurare l’interesse privato con quello pubblico. Interventi di questa natura presuppongono, tuttavia, che gli attori industriali non investano in R&S autonomamente per una specie di maggiore avarizia rispetto ai colleghi degli altri paesi. Una causa poco credibile essendo la realtà molto più semplice ed evidente, se la si vuole vedere, dal momento che gli imprenditori degli altri paesi, a parità di dimensione e di specializzazione produttiva, investono in ricerca e sviluppo più o meno quanto i nostri connazionali. In tutti i paesi l’entità della spesa in ricerca da parte delle imprese è collegata alla struttura dimensionale e alla tipologia del prodotto, cioè alla specializzazione produttiva. Queste condizioni non solo sono confermate dalle statistiche, ma hanno anche una evidenza logica che non dovrebbe richiedere particolari spiegazioni. Se si vuole modificare la specializzazione produttiva è difficile fare affidamento sulla base produttiva che si vorrebbe cambiare, perché il cambiamento di specializzazione produttiva è più vicino alla creazione di una nuova impresa che alla trasformazione di una impresa preesistente. E un’impresa ad alta tecnologia ha tre esigenze per poter nascere: disporre delle conoscenze opportune, dei relativi finanziamenti e delle capacità imprenditoriali. Il tutto con una strategia produttiva elaborata in anticipo. Il sistema industriale nazionale sembra del tutto carente nel fornire questi ingredienti. Ma poiché le logiche conseguenti richiederebbero un intervento pubblico ancora più inaccettabile del declino, si sta alimentando un circuito perverso che non è chiaro dove ci potrebbe portare, mentre i vari governi sembrano del tutto privi di politiche industriali adeguate.
Tutto questo è coperto oggi dalla crisi internazionale. Essa pone a tutti i paesi problemi gravissimi e per tempi incerti e non è ancora chiaro come e quando se ne potrà uscire.
Non è ancora chiaro nemmeno se le riflessioni sulle cause profonde della crisi che inducono a progettare modificazioni profonde del sistema produttivo e sociale – le tecnologie ambientali, già sul tappeto per motivi propri di sostenibilità dello sviluppo, la modificazione della qualità della domanda secondo il concetto del “cambiamento del motore senza fermare la macchina”, lo spostamento dei meccanismi di distribuzione delle risorse, ecc. - potranno avere uno sbocco positivo o meno, almeno a livello internazionale. Occorre mettere nel conto, infatti, l’elevata probabilità che non esistano le condizioni politiche per un processo di trasformazione di tale spessore, anche se sulla carta esistono le condizioni per cambiamenti radicali. Dalla crisi del ’29 si uscì dopo non pochi anni, ma con una serie di riforme in materia di ruolo del sindacato e redistribuzione della ricchezza, di welfare e quindi di qualità dello sviluppo rappresentata da quella che potremmo chiamare “la prima rivoluzione socialdemocratica”. Attualmente la crisi economica internazionale potrebbe dar luogo ad una seconda rivoluzione di quel tipo in parte riprendendo e sviluppando alcuni interventi di allora, particolarmente in materia di distribuzione della ricchezza, ma aggiungendo quelle modificazioni della domanda che da sole ne sarebbero il centro.
Keynes e Sylos Labini
Già negli anni ’20 Keynes, rilevava che “ i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi rientrano, tuttavia, in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione ci eleva …”. “ I bisogni della seconda categoria possono davvero essere inesauribili …..il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti..” Guardando avanti, ai progressi consentiti dallo sviluppo tecnologico e dai conseguenti aumenti della produttività, Keynes giunge alla conclusione “ che scartando l’eventualità di guerre e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo.” E’ vero che l’umanità si è “sprecata” a fare guerre, ma intanto quel secolo sta passando. E se come afferma Keynes “tre ore di lavoro al giorno sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Abramo”, (cioè la domanda di beni assoluti) si può anche incominciare ad affrontare la vecchia questione del socialismo riproposta recentemente da Sylos Labini secondo il quale “ il capitalismo è un sistema in evoluzione continua e può essere spinto da noi in una direzione o nell’altra. Il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell’alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo.”. . Coniugare e programmare queste due citazioni potrebbe costituire il mandato per elaborare un Programma/Progetto per la sinistra incominciando dall’impegno a livello europeo. Anche perché a livello internazionale per ora l’accento sembra orientato a riprendere il cammino precedente, con quegli aggiustamenti ambientali, o presunti tali, ma che non modificano le logiche di fondo.
Anche per quanto riguarda il nostro paese il sistema produttivo si dovrà misurare con i processi di selezione indotti dalle difficoltà competitive accentuate dalla crisi economica. Queste non possono che accrescere i processi di espulsione delle imprese in relazione alle diverse capacità competitive. In questo senso le debolezze strutturali derivanti dal nanismo e dalla nostra specializzazione produttiva rappresentano un fattore di maggiore rischio della nostra economia reale che potrà manifestarsi, tra l’altro, con una accresciuta riduzione dei livelli occupazionali .
A meno che non si voglia uscire da questa situazione non solo in virtù degli effetti di trascinamento esogeni ma anche cercando di superare quei fattori di debolezza che comunque ci spingevano verso il declino.
*Segretario Associazione LABOUR “Riccardo Lombardi”
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sabato 28 marzo 2009
Bobo Craxi: giù le mani da Bettino
GIU’ LE MANI DA BETTINO, CRAXI NON C’ENTRA COL PDL Intervista di Bobo Craxi al Riformista del 28 Marzo 2009
"L'omaggio di Berlusconi a Craxi celebra la nostra fine, non il riscatto dei socialisti attraverso di lui." Bobo, figlio di Bettino Craxi, non ha gradito la citazione del padre fatta dal premier dal palco della Fiera di Roma: "Craxi, col Pdl, non c'entra niente". Giù le mani da Craxi? "Il punto è che il disegno teorico e politico del berlusconismo con Craxi non c'entra nulla. A parte che, nonostante l'amicizia tra mio padre e Berlusconi non ci fu mai un passaggio diretto di consegne, sono certo che mio padre non avrebbe sostenuto l'attuale posizione di Berlusconi." Perché? "L'elemento dominante del craxismo è il rovesciamento dei rapporti di forza a sinistra e la sfida all'egemonia comunista per realizzare l'unità delle forze progressiste alternative alla Dc. Mio padre si considerava un epigono di Mitterrand, non di De Gaulle." Berlusconi invece? "Dopo la fase della difesa della libertà di fronte alla macchina da guerra c'è stata una involuzione politica. E ora il Pdl è un partito plebiscitario nella forma. Anche il riferimento al Ppe poi taglia definitivamente i ponti col filone socialista, laico e liberale proprio del Psi." Eppure ci sono tanti socialisti: Brunetta, Sacconi… "Sono socialisti perché stavano seduti allora dove sta seduto Fini oggi: alla quinta fila. Sono «ex». Punto. Non capiscono che il Pdl è un salto rispetto a Forza Italia. Non dico che Berlusconi è un fascista ma politologicamente il nuovo partito assomiglia al partito unico del ventennio: tiene dentro tutto e il suo contrario in nome di una alleanza nazionale. È una rottura anche rispetto alla Dc. Ai socialisti dico: uscite finché siete in tempo." Prevede una brutta fine per loro? "Come quella dei palestinesi di Giordania durante il settembre nero. Ricorda? Uscirono da Israele per chiedere rifugio in Giordania e furono massacrati. Quelli che sono andati in Forza Italia per non cadere nelle mani dei comunisti in nome dell'identità socialista stanno facendo la stessa fine." Il Pdl nasce da quindici anni di Seconda Repubblica. Non salva niente? "I comunisti, dopo il '92, avevano paura di scomparire e Berlusconi aveva paura di essere travolto dalla fine della Prima Repubblica. Ora, ciò che resta di quella paura, è la vittoria di Berlusconi." Nel '94 i socialisti scelsero lui. "Sì. Era necessaria una discontinuità. Nel vuoto politico gli elettori socialisti votarono contro la gioiosa macchina da guerra per salvare la loro identità. Anche se Berlusconi, in nome della retorica del nuovo, non mise i parlamentari socialisti nelle liste per paura di compromettersi l'immagine." Un tradimento rispetto all'amicizia con Craxi? "Diciamo che al di là dell'amicizia il rapporto è controverso dall'inizio. Basti pensare che nel libro che Berlusconi ha mandato a tutti gli italiani Craxi è assente. Dopo la riabilitazione, la cancellazione: un'operazione staliniana." Proprio non le piace il Pdl. "Ma scusi, guardi anche le politiche del governo: una volta sono di destra, una di sinistra. L'elemento coagulante non è ideologico né programmatico. Nel richiamo al popolo le singole appartenenze si sgretolano." Che pensiero le viene dopo il discorso di Berlusconi? "Mi vengono in mente i diari di Nenni in esilio a Ponza. Diceva che il ventennio aveva rappresentato per Mussolini la gloria e per i socialisti l'esilio. Anche Berlusconi ha vissuto con i socialisti vent'anni di gloria. Ora il suo omaggio a mio padre è doloroso, perché celebra la nostra fine, non il nostro riscatto attraverso di lui." A.D.A.
"L'omaggio di Berlusconi a Craxi celebra la nostra fine, non il riscatto dei socialisti attraverso di lui." Bobo, figlio di Bettino Craxi, non ha gradito la citazione del padre fatta dal premier dal palco della Fiera di Roma: "Craxi, col Pdl, non c'entra niente". Giù le mani da Craxi? "Il punto è che il disegno teorico e politico del berlusconismo con Craxi non c'entra nulla. A parte che, nonostante l'amicizia tra mio padre e Berlusconi non ci fu mai un passaggio diretto di consegne, sono certo che mio padre non avrebbe sostenuto l'attuale posizione di Berlusconi." Perché? "L'elemento dominante del craxismo è il rovesciamento dei rapporti di forza a sinistra e la sfida all'egemonia comunista per realizzare l'unità delle forze progressiste alternative alla Dc. Mio padre si considerava un epigono di Mitterrand, non di De Gaulle." Berlusconi invece? "Dopo la fase della difesa della libertà di fronte alla macchina da guerra c'è stata una involuzione politica. E ora il Pdl è un partito plebiscitario nella forma. Anche il riferimento al Ppe poi taglia definitivamente i ponti col filone socialista, laico e liberale proprio del Psi." Eppure ci sono tanti socialisti: Brunetta, Sacconi… "Sono socialisti perché stavano seduti allora dove sta seduto Fini oggi: alla quinta fila. Sono «ex». Punto. Non capiscono che il Pdl è un salto rispetto a Forza Italia. Non dico che Berlusconi è un fascista ma politologicamente il nuovo partito assomiglia al partito unico del ventennio: tiene dentro tutto e il suo contrario in nome di una alleanza nazionale. È una rottura anche rispetto alla Dc. Ai socialisti dico: uscite finché siete in tempo." Prevede una brutta fine per loro? "Come quella dei palestinesi di Giordania durante il settembre nero. Ricorda? Uscirono da Israele per chiedere rifugio in Giordania e furono massacrati. Quelli che sono andati in Forza Italia per non cadere nelle mani dei comunisti in nome dell'identità socialista stanno facendo la stessa fine." Il Pdl nasce da quindici anni di Seconda Repubblica. Non salva niente? "I comunisti, dopo il '92, avevano paura di scomparire e Berlusconi aveva paura di essere travolto dalla fine della Prima Repubblica. Ora, ciò che resta di quella paura, è la vittoria di Berlusconi." Nel '94 i socialisti scelsero lui. "Sì. Era necessaria una discontinuità. Nel vuoto politico gli elettori socialisti votarono contro la gioiosa macchina da guerra per salvare la loro identità. Anche se Berlusconi, in nome della retorica del nuovo, non mise i parlamentari socialisti nelle liste per paura di compromettersi l'immagine." Un tradimento rispetto all'amicizia con Craxi? "Diciamo che al di là dell'amicizia il rapporto è controverso dall'inizio. Basti pensare che nel libro che Berlusconi ha mandato a tutti gli italiani Craxi è assente. Dopo la riabilitazione, la cancellazione: un'operazione staliniana." Proprio non le piace il Pdl. "Ma scusi, guardi anche le politiche del governo: una volta sono di destra, una di sinistra. L'elemento coagulante non è ideologico né programmatico. Nel richiamo al popolo le singole appartenenze si sgretolano." Che pensiero le viene dopo il discorso di Berlusconi? "Mi vengono in mente i diari di Nenni in esilio a Ponza. Diceva che il ventennio aveva rappresentato per Mussolini la gloria e per i socialisti l'esilio. Anche Berlusconi ha vissuto con i socialisti vent'anni di gloria. Ora il suo omaggio a mio padre è doloroso, perché celebra la nostra fine, non il nostro riscatto attraverso di lui." A.D.A.
venerdì 27 marzo 2009
L'impresa pubblica competitiva
Economia e Politica
Oggi 27 marzo 2009, 11 ore fa
L’impresa pubblica competitiva. Una proposta
Oggi 27 marzo 2009, 11 ore fa | admin
L’entrata o la mera minaccia di entrata di una impresa pubblica nei diversi settori industriali e finanziari potrebbe servire ad indurre le imprese private già operanti ad evitare pratiche monopolistiche.
L’impresa pubblica competitiva (IPC) è definibile come un’impresa di proprietà pubblica che opera in competizione con imprese private. I suoi manager sono esposti a un vincolo di bilancio duro, nel senso che il governo non sarà pronto a ripianare qualsiasi perdita, e hanno l’obbligo di pareggiare il bilancio entro un arco temporale di medio periodo, pena il licenziamento. Nei costi può essere incluso un profitto normale da utilizzare per l’autofinanziamento della crescita e delle innovazioni. Non è tenuta a distribuire profitti, ma può finanziarsi sul mercato del credito, prendendo a prestito tutto quello che vuole, se riesce a persuadere i prestatori.
Produce beni privati in settori caratterizzati da relativa omogeneità dei prodotti e delle tecnologie. La relativa omogeneità dei prodotti assicura la sensibilità dei ricavi alla competizione di prezzo. La relativa omogeneità delle tecnologie, intesa come una situazione in cui tutte le imprese del settore hanno facile accesso alla stessa tecnologia, assicura l’uniformità del saggio di profitto se c’è uniformità dei prezzi.
Lo scopo principale dell’IPC è di costringere le imprese private a praticare prezzi concorrenziali, impedendo comportamenti collusivi e sfruttamento oligopolistico dei consumatori. L’IPC sarebbe particolarmente utile in quei settori in cui la dismissione delle vecchie imprese pubbliche (comprese quelle a partecipazione statale) ha contribuito a creare condizioni oligopolistiche e in cui la concorrenza internazionale non è efficace, ad esempio perché gli stessi mercati internazionali sono dominati da imprese oligopolistiche.
L’IPC praticherebbe prezzi concorrenziali che assicurano solo il profitto normale e, se detiene una consistente quota di mercato, svolgerebbe una efficace azione competitiva. L’efficacia della competizione di prezzo sarebbe assicurata dalla omogeneità dei prodotti e delle tecnologie. Naturalmente è favorita anche la competizione non di prezzo, soprattutto quella che passa per la qualità dei prodotti.
Un secondo scopo dell’IPC è quello dell’investimento nella ricerca e nell’innovazione. Ogni innovazione che crea un vantaggio competitivo porterebbe alla riduzione dei prezzi e all’aumento della quota di mercato. Ciò implica anche aumento del tasso di crescita e dei profitti reinvestiti. Le imprese private esposte a questo tipo di concorrenza sarebbero a loro volta costrette a investire in innovazioni se non vogliono perdere quote di mercato. In questo ambito l’IPC svolgerebbe anche una funzione di indirizzo della ricerca, orientando l’innovazione verso direzioni socialmente benefiche.
L’IPC, per fare un esempio, già potrebbe esistere nel settore della televisione. Sarebbe la RAI, se fosse gestita nell’ottica di cui sopra. In questo settore però non esiste una vera competitività di prezzo, gran parte degli introiti delle imprese provenendo dalla pubblicità e dal canone. In tal caso la competitività deve agire soprattutto sull’innovazione e la qualità del prodotto. Laddove invece, come nei canali a pagamento, la competitività di prezzo è possibile, l’impresa pubblica deve svolgere un’azione aggressiva.
Un altro settore in cui può esistere l’IPC è quello dei tabacchi. Qui la concorrenza internazionale è inefficace perché lo stesso mercato mondiale è dominato da poche multinazionali oligopolistiche. Per di più la competitività di prezzo sarebbe dannosa, in quanto stimolerebbe l’aumento della domanda. In questo caso si dovrebbe partire dal principio che il “bene” prodotto dall’impresa pubblica non è il fumo, ma la riduzione del danno associato al fumo. Un’impresa di stato, se esistesse, dovrebbe praticare politiche competitive soprattutto nella “qualità” del prodotto, nella ricerca di prodotti meno dannosi e nella tutela della salute dei consumatori.
Nei settori in cui, a causa delle recenti dismissioni, non esistono IPC, sarebbe necessario avviare una politica di riacquisto da parte dello stato. Penso in particolare ai settori delle assicurazioni, dell’energia elettrica, delle banche e della telefonia.
Si potrebbe essere tentati di sollevare la solita critica contro i fallimenti dello stato: i manager delle IPC sarebbero tentati di concedere molto slack gestionale per massimizzare la propria utilità in contrasto con la funzione obiettivo postagli dalle autorità pubbliche, sicuri di non dovere rendere conto agli azionisti per l’inefficienza produttiva e le perdite d’esercizio. Ma una tale critica sarebbe scarsamente efficace, perché le IPC opererebbero sui mercati dei requisiti produttivi e dei beni in competizione con quelle private, mentre uno stringente vincolo di bilancio metterebbe a rischio il posto di lavoro dei manager inefficienti.
Più plausibile sembra un altro tipo di critica. I manager delle IPC potrebbero essere tentati di accedere tacitamente a pratiche collusive con gli oligopoli privati. Accettando prezzi oligopolistici si metterebbero al sicuro dai rischi di perdita e potrebbero massimizzare i propri redditi. Ci rimetterebbero i consumatori, che non potrebbero usufruire dell’abbassamento dei prezzi a cui le IPC sono istituzionalmente impegnate.
Si può suggerire che, per far fronte a questa evenienza, si imponga la presenza di rappresentanti degli utenti nei consigli d’amministrazione. La cosa sarebbe fattibile utilizzando esponenti eletti da associazioni dei consumatori legalmente riconosciute. Sarebbe ancora più facilmente praticabile in quelle situazioni in cui gli utenti sono legati all’impresa da contratti espliciti: telecomunicazioni, energia elettrica, assicurazioni, banche, servizi di pubblica utilità etc. In questi casi i rappresentanti degli utenti di ogni singola IPC potrebbero essere formalmente eletti dagli utenti stessi.
Alcuni giornalisti tendono a ridicolizzare l’idea che lo stato debba produrre panettoni. Alcuni professori sostengono che non è comunque necessario, in quanto la contendibilità dei mercati indurrebbe le imprese a comportarsi in modo competitivo anche in mercati non atomistici. Il problema è che la teoria dei mercati contendibili[1] non funziona nei settori in cui, tra l’altro, esistono elevati costi irrecuperabili.
Ebbene l’IPC contribuirebbe a risolvere tale problema. La collettività dovrebbe annunciare di essere pronta ad assumersi questi costi nei casi in cui le imprese private non sarebbero disposte a farlo. Sarebbe pronta sia per i vantaggi generati dalla concorrenza sia per l’implicita capacità pubblica di assicurare i rischi. La semplice disponibilità ad assumersi costi non recuperabili sarebbe un fattore di aumento della contendibilità dei mercati per il solo fatto che c’è. Così potrebbe non essere necessario che lo stato produca panettoni, anche se questo fosse un mercato oligopolistico. Sarebbe necessario emanare una normativa che rende possibile l’IPC. Poi, l’entrata dello stato in alcuni settori, ad esempio quello della telefonia, potrebbe contribuire a creare comportamenti non collusivi anche nel mercato dei panettoni.
*L’autore è professore ordinario di economia politica nell’Università di Siena.
[1] Un mercato si dice contendibile quando vi possono entrare nuove imprese senza sostenere costi irrecuperabili, cioè costi il cui valore non può essere recuperato con l’uscita dell’impresa. Le grandi imprese che operano in mercati non contendibili tendono naturalmente a sviluppare posizioni monopolistiche. Ad esempio, una nuova impresa che volesse entrare nel mercato dei trasporti ferroviari dovrebbe sostenere costi enormi per costruire nuove ferrovie. Se l’impresa volesse uscire dal mercato in un secondo momento (perché si accorge di non fare profitti) non potrebbe recuperare il valore dell’investimento iniziale in quanto non esiste un mercato remunerativo per le ferrovie di seconda mano. In queste condizioni un nuova impresa difficilmente deciderà di entrare nel mercato. Perciò le imprese che già vi operano godono di un privilegio monopolistico in quanto non sono esposte alla contendibilità della propria quota di mercato da parte di potenziali concorrenti.
Oggi 27 marzo 2009, 11 ore fa
L’impresa pubblica competitiva. Una proposta
Oggi 27 marzo 2009, 11 ore fa | admin
L’entrata o la mera minaccia di entrata di una impresa pubblica nei diversi settori industriali e finanziari potrebbe servire ad indurre le imprese private già operanti ad evitare pratiche monopolistiche.
L’impresa pubblica competitiva (IPC) è definibile come un’impresa di proprietà pubblica che opera in competizione con imprese private. I suoi manager sono esposti a un vincolo di bilancio duro, nel senso che il governo non sarà pronto a ripianare qualsiasi perdita, e hanno l’obbligo di pareggiare il bilancio entro un arco temporale di medio periodo, pena il licenziamento. Nei costi può essere incluso un profitto normale da utilizzare per l’autofinanziamento della crescita e delle innovazioni. Non è tenuta a distribuire profitti, ma può finanziarsi sul mercato del credito, prendendo a prestito tutto quello che vuole, se riesce a persuadere i prestatori.
Produce beni privati in settori caratterizzati da relativa omogeneità dei prodotti e delle tecnologie. La relativa omogeneità dei prodotti assicura la sensibilità dei ricavi alla competizione di prezzo. La relativa omogeneità delle tecnologie, intesa come una situazione in cui tutte le imprese del settore hanno facile accesso alla stessa tecnologia, assicura l’uniformità del saggio di profitto se c’è uniformità dei prezzi.
Lo scopo principale dell’IPC è di costringere le imprese private a praticare prezzi concorrenziali, impedendo comportamenti collusivi e sfruttamento oligopolistico dei consumatori. L’IPC sarebbe particolarmente utile in quei settori in cui la dismissione delle vecchie imprese pubbliche (comprese quelle a partecipazione statale) ha contribuito a creare condizioni oligopolistiche e in cui la concorrenza internazionale non è efficace, ad esempio perché gli stessi mercati internazionali sono dominati da imprese oligopolistiche.
L’IPC praticherebbe prezzi concorrenziali che assicurano solo il profitto normale e, se detiene una consistente quota di mercato, svolgerebbe una efficace azione competitiva. L’efficacia della competizione di prezzo sarebbe assicurata dalla omogeneità dei prodotti e delle tecnologie. Naturalmente è favorita anche la competizione non di prezzo, soprattutto quella che passa per la qualità dei prodotti.
Un secondo scopo dell’IPC è quello dell’investimento nella ricerca e nell’innovazione. Ogni innovazione che crea un vantaggio competitivo porterebbe alla riduzione dei prezzi e all’aumento della quota di mercato. Ciò implica anche aumento del tasso di crescita e dei profitti reinvestiti. Le imprese private esposte a questo tipo di concorrenza sarebbero a loro volta costrette a investire in innovazioni se non vogliono perdere quote di mercato. In questo ambito l’IPC svolgerebbe anche una funzione di indirizzo della ricerca, orientando l’innovazione verso direzioni socialmente benefiche.
L’IPC, per fare un esempio, già potrebbe esistere nel settore della televisione. Sarebbe la RAI, se fosse gestita nell’ottica di cui sopra. In questo settore però non esiste una vera competitività di prezzo, gran parte degli introiti delle imprese provenendo dalla pubblicità e dal canone. In tal caso la competitività deve agire soprattutto sull’innovazione e la qualità del prodotto. Laddove invece, come nei canali a pagamento, la competitività di prezzo è possibile, l’impresa pubblica deve svolgere un’azione aggressiva.
Un altro settore in cui può esistere l’IPC è quello dei tabacchi. Qui la concorrenza internazionale è inefficace perché lo stesso mercato mondiale è dominato da poche multinazionali oligopolistiche. Per di più la competitività di prezzo sarebbe dannosa, in quanto stimolerebbe l’aumento della domanda. In questo caso si dovrebbe partire dal principio che il “bene” prodotto dall’impresa pubblica non è il fumo, ma la riduzione del danno associato al fumo. Un’impresa di stato, se esistesse, dovrebbe praticare politiche competitive soprattutto nella “qualità” del prodotto, nella ricerca di prodotti meno dannosi e nella tutela della salute dei consumatori.
Nei settori in cui, a causa delle recenti dismissioni, non esistono IPC, sarebbe necessario avviare una politica di riacquisto da parte dello stato. Penso in particolare ai settori delle assicurazioni, dell’energia elettrica, delle banche e della telefonia.
Si potrebbe essere tentati di sollevare la solita critica contro i fallimenti dello stato: i manager delle IPC sarebbero tentati di concedere molto slack gestionale per massimizzare la propria utilità in contrasto con la funzione obiettivo postagli dalle autorità pubbliche, sicuri di non dovere rendere conto agli azionisti per l’inefficienza produttiva e le perdite d’esercizio. Ma una tale critica sarebbe scarsamente efficace, perché le IPC opererebbero sui mercati dei requisiti produttivi e dei beni in competizione con quelle private, mentre uno stringente vincolo di bilancio metterebbe a rischio il posto di lavoro dei manager inefficienti.
Più plausibile sembra un altro tipo di critica. I manager delle IPC potrebbero essere tentati di accedere tacitamente a pratiche collusive con gli oligopoli privati. Accettando prezzi oligopolistici si metterebbero al sicuro dai rischi di perdita e potrebbero massimizzare i propri redditi. Ci rimetterebbero i consumatori, che non potrebbero usufruire dell’abbassamento dei prezzi a cui le IPC sono istituzionalmente impegnate.
Si può suggerire che, per far fronte a questa evenienza, si imponga la presenza di rappresentanti degli utenti nei consigli d’amministrazione. La cosa sarebbe fattibile utilizzando esponenti eletti da associazioni dei consumatori legalmente riconosciute. Sarebbe ancora più facilmente praticabile in quelle situazioni in cui gli utenti sono legati all’impresa da contratti espliciti: telecomunicazioni, energia elettrica, assicurazioni, banche, servizi di pubblica utilità etc. In questi casi i rappresentanti degli utenti di ogni singola IPC potrebbero essere formalmente eletti dagli utenti stessi.
Alcuni giornalisti tendono a ridicolizzare l’idea che lo stato debba produrre panettoni. Alcuni professori sostengono che non è comunque necessario, in quanto la contendibilità dei mercati indurrebbe le imprese a comportarsi in modo competitivo anche in mercati non atomistici. Il problema è che la teoria dei mercati contendibili[1] non funziona nei settori in cui, tra l’altro, esistono elevati costi irrecuperabili.
Ebbene l’IPC contribuirebbe a risolvere tale problema. La collettività dovrebbe annunciare di essere pronta ad assumersi questi costi nei casi in cui le imprese private non sarebbero disposte a farlo. Sarebbe pronta sia per i vantaggi generati dalla concorrenza sia per l’implicita capacità pubblica di assicurare i rischi. La semplice disponibilità ad assumersi costi non recuperabili sarebbe un fattore di aumento della contendibilità dei mercati per il solo fatto che c’è. Così potrebbe non essere necessario che lo stato produca panettoni, anche se questo fosse un mercato oligopolistico. Sarebbe necessario emanare una normativa che rende possibile l’IPC. Poi, l’entrata dello stato in alcuni settori, ad esempio quello della telefonia, potrebbe contribuire a creare comportamenti non collusivi anche nel mercato dei panettoni.
*L’autore è professore ordinario di economia politica nell’Università di Siena.
[1] Un mercato si dice contendibile quando vi possono entrare nuove imprese senza sostenere costi irrecuperabili, cioè costi il cui valore non può essere recuperato con l’uscita dell’impresa. Le grandi imprese che operano in mercati non contendibili tendono naturalmente a sviluppare posizioni monopolistiche. Ad esempio, una nuova impresa che volesse entrare nel mercato dei trasporti ferroviari dovrebbe sostenere costi enormi per costruire nuove ferrovie. Se l’impresa volesse uscire dal mercato in un secondo momento (perché si accorge di non fare profitti) non potrebbe recuperare il valore dell’investimento iniziale in quanto non esiste un mercato remunerativo per le ferrovie di seconda mano. In queste condizioni un nuova impresa difficilmente deciderà di entrare nel mercato. Perciò le imprese che già vi operano godono di un privilegio monopolistico in quanto non sono esposte alla contendibilità della propria quota di mercato da parte di potenziali concorrenti.
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