mercoledì 26 dicembre 2018

Franco Astengo: Ricostruzione

PREMESSA di Franco Astengo Care compagne e cari compagni, scusandomi del disturbo e della presunzione, mi permetto inviarvi un ulteriore intervento sul tema della ricostruzione della sinistra. L’intervento è inteso a completamento di una sorta di trittico elaborato in seguito alla stesura di altri due articoli inviati nei giorni scorsi e che troverete in calce sui temi del “ritorno alla politica” e della “disarticolazione del consenso e del dissenso”. L’ambizione, in questo caso, sarebbe quella di avviare un minimo di sistematizzazione di pensiero intorno alla necessità- appunto – di una ricostruzione di soggettività politica a sinistra al di fuori dell’affanno derivante dal politicismo immediato, che è stato fonte di tanti guai nel passato. E’ evidente come non possa essere abbandonata la lotta politica quotidiana ma è altrettanto certo che questa non possa, nella fase corrente, tradursi in altro che in una ferma opposizione al quadro esistente sia sul piano internazionale, sia su quello interno. E’ necessario però dotarci di un livello di superiore riflessione proprio per riuscire a ritrovare la strada di un’adeguata conformazione politica ed in questa direzione cerca di muoversi questo modestissimo contributo. PRIMO CAPITOLO RICOSTRUZIONE E/ O RIFONDAZIONE Ricostruzione: è l'atto di ricostruire, sia in senso proprio che figurato, qualsiasi cosa che sia andata distrutta o persa. Rifondazione: “Profondo rinnovamento di istituzioni o organizzazioni politiche e sociali (per cui è usato anche come denominazione di movimenti, di partiti politici) “. La differenza tra i due termini indica con precisione la diversità di intenti che, rispetto anche al recente passato, è necessario cercare di mettere in atto al riguardo della realtà della sinistra italiana: serve proprio una ricostruzione di una “cosa” (scusatemi l’assonanza con una terminologia che ha portato davvero sfortuna) che è andata distrutta (opportuno, in questo caso; scrivere di “distrutta” e non di perduta). In questi giorni si sta discutendo sull’uscita di un’edizione italiana della rivista “Jacobin”, ebdomadario della sinistra “radical” statunitense: “Jacobin” sviluppa un discorso anti – sovranista e di ritorno a Marx. E’ proprio l’idea del “ritorno a Marx” che può ispirare una riflessione. Partendo da una domanda: per quale via siamo approdati a Marx, noi della generazione successiva a quella della temperie degli anni’30 e poi della guerra mondiale. La generazione che ha approcciato alla politica nel momento più duro della divisione del mondo in blocchi e del peso, qui da noi, della divisione in classi? Come siamo stati capaci di cominciare da Marx? Abbiamo cominciato avendo riconosciuto Il grande merito teorico di Marx nel campo del pensiero sociale: quello di aver ricostituito mentalmente quell'unità andata dispersa con la divisione del lavoro, che diventa “divisione una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale” (dall’Ideologia Tedesca). Da quel momento in poi la nostra coscienza poteva realmente figurarsi di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente. Da quel momento la nostra coscienza è stata in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la “pura” teoria, teologia, filosofia morale. Ricostituire l'unità di natura e storia ha significato per noi leggendo Marx, giungere a concepire la storicità della natura e la naturalità della storia, guadagnando teoricamente le cadenze pratiche dei tipi storico-naturali della convivenza umana. Ma questa complementarietà di storia e natura nel pensiero di Marx conserverebbe una grossa lacuna se, in sede di teoria politico – sociale, Marx non avesse consapevolezza del carattere storico del suo stesso pensiero materialistico. Di fatto Marx raggiunge questa consapevolezza proprio quando si rende conto che egli riesce ora a vedere e a capire ciò che Aristotele non vide e non capì, perché Marx può vedere e capire ciò che la società greca non aveva: una struttura naturale integralmente trattata dall'uomo, tale cioè da esprimere con il predominio dell'industria sull'agricoltura relazioni interamente sociali, definitivamente slacciate dai vincoli naturalistici. Marx riconosce il merito di Hegel di aver visto la separazione di Stato e società civile nel mondo moderno, ma gli fa carico di non averne visto le fondamenta storiche moderne e di averla supposta come una tappa del cammino compiuto dallo spirito nella storia temporale verso l'estasi dello spirito assoluto. Marx può allora concludere, per un verso, che il dualismo di Stato e Società civile è un prodotto storico, cioè articolazione effettiva di un tipo di relazioni sociali materiali, e per un altro che, quindi, la loro vera unificazione non può essere ideale, non di un superamento nella spiritualità hanno bisogno gli uomini ma, in primis, di una trasformazione che, riportando nella società civile il nesso comunitario che la divisione del lavoro e la dissociazione privatistica hanno fatto emigrare nella sfera astratta dello Stato politico, cancelli l'una come società puramente civile (o società dei privati) e l'altra come società puramente politica (o comunità soltanto illusoria in quanto astratta dai nessi sociali reali), ricostituendo una società omogenea. Lo sbocco comunistico di Marx è proprio l'esito pratico della sua rivoluzione teorica ed è appunto per la visione della necessità storica di una socializzazione dei rapporti moderni che Marx riesce non solo a vedere ma a prevedere l'irruzione popolare nella vita moderna. Lo “sbocco comunistico” di Marx segnalato poco sopra rappresentò così il riferimento saliente di un passaggio all'idea del comunismo come recinto dell' appartenenza politica, quale salto in avanti rispetto all'idea stessa della “appartenenza di classe”. Oggi si sta tentando di tornare indietro: non lo scrivo per nostalgia di quelli che tutti noi consideriamo i “vecchi tempi” cui fare sempre e comunque riferimento. Lo scrivo perché sono convinto che la lettura neo-liberista che ha egemonizzato il pensiero e l'azione politica a partire dagli anni'80 sembra aver dimenticato il fallimento storico della lettura liberale “classica”. Il mondo, nel corso del '900, ha imboccato strade del tutto impreviste dai teorici della civiltà liberale: associazionismo, conflitti di lavoro, sindacalismo, la vicenda bruciante dei tentativi di inveramento statuale dell'ipotesi marxiana, emancipazione coloniale, l'idea degli uomini non più individui separati ma membri sociali. E' caduta definitivamente l'ipotesi centrale della vecchia cultura liberale: che l'indipendenza dell'individuo dalla società fosse il fulcro della libertà moderna. L'individualismo arrivato alla forma della competizione personale fino a tramutarsi adesso nel veicolo della paura, si è rivelato esso stesso una specifica e storica forma sociale: si tende a non far riconoscere più la società come una ramificazione storica dell'individuo e non si rivendica più quella partecipazione consapevole (pensiamo al passaggio nella struttura dei partiti dall'integrazione di massa, al “pigliatutti”, fino al partito “elettorale – personale” di stampo populistico che oggi appare del tutto vincente, sia pure nel microcosmo della vicenda politica italiana) che rimane l'unica arma per evitare l'inconsapevole e gelida dominazione delle cose sugli uomini e quindi il privilegio di alcuni su altri. A mio giudizio il superamento di questo vero e proprio “blocco” nell'agire politico e sociale fortemente ri-determinatosi nel corso degli ultimi anni può ritornare ad essere d'attualità soltanto affrontando nuovamente quello che rimane un vero e proprio sbarramento sul piano teorico: l'idea che l'economia di mercato sia la sola efficiente forma di ordinare le forme di produzione. La brusca chiusura della storia del '900 non può esimerci, nell'analizzare i due aspetti fondamentali appena citati, dal parafrasare Claudio Napoleoni: “Cercate ancora!”. Cercare però significa puntare proprio a quell’idea di “ricostruzione” ispiratrice di questo lavoro. Un’idea di ricostruzione che non può che partire d un’espressione di necessità: quella della riconoscibilità della propria condizione sociale spezzando appunto, in un’ipotesi di prospettiva unitaria, quel meccanismo di disarticolazione del consenso e del dissenso ormai arrivata al punto di formare un intreccio di contraddizioni dalle quali origina l’impossibilità di stabilire un approccio concreto all’agire politico. La nostra è ormai una “disarticolazione soggettiva” che, nonostante generosi sforzi in atto, appare il presupposto insuperabile dello svilupparsi apparentemente inarrestabile dell’egemonia individualistica. In questo senso come può servire il ritorno a Marx? Pervengo quindi alla determinazione di alcune altre opzioni di fondo che sono rimaste, comunque nel mio orizzonte di ricerca rappresentando altrettanti fermi “paletti. Rimangono intatte le contraddizioni relative alla necessità inderogabile che le “garanzie” dell'individuo siano affidate in eterno alla gestione rappresentativa dello Stato e al sistema della “libera impresa”. Riprendiamo allora il punto dello “Stato sociale”. Ho sempre considerato il passaggio dello “Stato sociale” quale fase di transizione necessaria in un’idea di inestinguibile sviluppo storico. Oggi quel giudizio può essere riveduto? Apparentemente sì, visto che il moto della storia pare aver girato all'indietro la propria ruota (ribadisco qui quella che è ormai maturata come una convinzione profonda). Allora, dal nostro punto di vista, si tratta di lavorare per invertire la tendenza. Perché lo Stato sociale (il “welfare state” dei socialdemocratici e laburisti, il “compromesso” italiano, ad esempio) poteva a suo tempo ben essere considerato come “soggetto di transizione” ? Proprio rispetto a questo punto, fondamentale nella mia personale visione politica di lungo periodo, ritengo debba essere realizzata, anche in questa sede, una riflessione, tracciando contemporaneamente una fondamentale “linea di confine”. La nostra generazione ha assistito, nel corso degli anni, al maturare di contraddizioni che hanno seminato il dubbio circa la necessità inderogabile che le “garanzie” dell'individuo fossero affidate in eterno alla gestione rappresentativa dello Stato e il sistema della “libera impresa”. Queste contraddizioni sono state affrontate, sia nell'ottica socialdemocratica sia in quella del “socialismo reale” (alcuni hanno usato la definizione “capitalismo di Stato”) con l'allargamento delle dimensioni nell'attività dello Stato rappresentativo, in nome della necessità di stabilire rapporti sociali “moderni”. In questo modo si è cercato di colmare il solco divisorio fra politica e società con una progressiva espansione dell'economia pubblica e dell'intervento sociale in ogni campo (dall'istruzione, all'assistenza, dai lavori pubblici, alla previdenza sociale, dal commercio estero agli enti autarchici). Si confermava, in questo modo, la sostanziale unità tra Stato e società, la loro necessaria unificazione: ma tale conferma è stata data attraverso una subordinazione delle attività sociali alla gestione politico-burocratica che ha per un verso minato, attraverso il formarsi di “ceti separati” e di un’enorme “questione morale” l'originaria struttura dello Stato rappresentativo e per un altro ha sovrapposto alle competenze sociali il formalismo burocratico. In particolare sul piano economico, l'adesione alla programmazione dell'economia ha cozzato fatalmente a suo tempo, non essendo stata inserita in un progetto di socializzazione dei mezzi di produzione e scambio, nei suoi progetti di “armonizzazione” contro le imponenti risorse private delle grandi formazioni monopolistiche. La reazione da destra è stata quella, nel quadro del velocizzarsi dei rapporti economici a livello globale dovuti all'innovazione tecnologica, di provocare una fortissima torsione autoritaria al riguardo della realtà dello Stato rappresentativo moderno (mentre le strutture sovranazionali che pure sorgevano, come nel caso dell'Unione Europea, erano contraddistinte da un fortissimo “deficit democratico”). Da qui il diffondersi del predomino delle èlite economiche, la loro identificazione con le élite politiche e l'idea di una programmazione dell'economia risolta quale marginale coordinazione di sfere private fondamentalmente irriducibili, in un quadro di inedito intreccio tra struttura e sovrastruttura. La reazione a questo stato di cose ha assunto oggi una pericolosa visione di ritiro particolaristico fondato su principi che frettolosamente erano stati considerati ormai desueti nella modernità e che si sono avvalsi per la loro affermazione di una capacità di interpretazione apparentemente vincenti della modificazione nel rapporto tra struttura e sovrastruttura costruendo, su quella base, una vera e propria mitologia. Gli eredi della “sinistra storica”, sciolti i grandi soggetti ad integrazione di massa, hanno così operato una scissione sul piano teorico, allineandosi ad una forma di politica liberale, non riuscendo a farsi interpreti dell'eredità teorica dell’espansione sociale della democrazia. Per questo motivo ritengo, oggi come oggi, il ritorno a Marx può essere ben compreso nell’idea di un ritorno al programma dello Stato sociale, aggiornato alle novità dovute ai grandi processi in atto da tempo sul piano globale e alle nuove realtà sovranazionali, come quella sulla quale attestarsi in modo da contrastare efficacemente la crisi provocata dall'offensiva di destra. Può essere questo il punto di saldatura di una riflessione che si sta sviluppando, nel pieno di un imponente processo di “rivoluzione passiva” di conseguente guerra di posizione, utile all’avvio di un progetto di riconoscibilità della condizione sociale per le masse espropriate prima di tutta dalla possibilità concreto di esercitare l’agire politico in un quadro di forte crisi della democrazia liberale e del rinnovarsi di tensioni autoritarie tali da presupporre possibili scenari di guerra imperialista? Una conclusione con l’interrogativo nell’idea che appunto la discussione si possa riaprire su di un piano diverso da quello della mera conservazione di una sinistra del “residuo esistente”. Un compito di “ricostruzione”, appunto CAPITOLO SECONDO RITORNO ALLA POLITICA? L’INDIVIDUALISMO DIFENSIVO “Più fiducia nello Stato e nella Politica, L’Italia preferisce la democrazia”. Titola così “Repubblica” a proposito del rapporto Demos sugli italiani e le istituzioni pubblicato il 24 dicembre. Nell’incipit l’articolo di presentazione dei dati recita: “ Per anni, e da anni, in Italia ha soffiato un vento anti – politico. Partiti, leader, istituzioni e amministrazioni nazionali e locali nessuno è stato risparmiato dal sentimento di sfiducia largo e generalizzato. Oggi comunque sembrerebbe finito, comunque sospeso. Così almeno emerge dal XXI rapporto “Gli italiani e lo Stato” curato da Demos per la “Repubblica”. Pur tuttavia la lettura dei dati induce a un qualche minor ottimismo rispetto alla segnalata inversione di tendenza, soprattutto se si analizzano alcuni aspetti particolari che pure risultano segnalati e approfonditi nell’analisi di Demos. E’ il caso però di compiere un passo indietro e gettare uno sguardo sulle profonde modificazioni che il rapporto tra l’opinione pubblica e la politica ha subito nel corso degli anni e – ancora – quanto queste modificazioni abbiano inciso all’interno della stesso sistema politico italiano. Modificazioni, sia ben chiaro, verificatasi anche sulla base dei mutamenti di scenario avvenuti sul piano internazionale prima di tutto con lo svilupparsi del processo europeo, a partire dalla stipula dei trattati, in specie fondamentale quello di Maastricht. In sostanza servirebbe un bilancio dei trent’anni della lunga “transizione italiana” principiata dalla fine del sistema basato sui grandi partiti di massa che raccoglievano, all’incirca, quattro milioni di scritti complessivamente ai quali andavano aggiunti i milioni di iscritti al sindacato (all’interno dei quali iscritti non prevalevano numericamente i pensionati) e alle associazioni categoriali intermedie. Un bilancio che naturalmente dovrebbe comprendere la valutazione riguardante l’abbassamento della percentuale dei votanti, mantenutasi costante per un lungo periodo attorno al 90% e poi scesa, pur con qualche recupero, di decine di punti fino a toccare, nell’occasione ad esempio, dei ballottaggi cifre al di sotto del 50%. Intanto mutavano completamente i termini del dibattito politico, prima sempre più determinato dal video e in seguito reso ancora più complesso dall’entrata in scena dei nuovi strumenti di comunicazione che fanno sì come l’iniziativa politica si fonda con il racconto personale portando la personalizzazione a un livello esasperato fino alla confusione tra pubblico e privato. Questo sarebbe un punto non secondario da dirimere circa la valutazione del rapporto con la politica da parte dell’opinione pubblica in gran parte impegnata proprio nell’utilizzo di questi mezzi. Questi elementi di assoluta novità sul piano culturale hanno costruito un vero e proprio spostamento d’asse che ben si può rilevare nella documentazione analitica che accompagna le percentuali del sondaggio di Demos sui diversi argomenti. Non si dispone qui dello spazio necessario per un approfondimento come pure sarebbe necessario. E’ il caso però di rilevare le contraddizioni che si rilevano in questo presunto/possibile riavvicinamento alla politica. Prima di tutto i dati, come segnalano anche Giordani e Porcellato nel loro commento, rivelano un mix di individualismo, familismo e insoddisfazione al punto che riceve il massimo consenso la possibilità di autodifesa usando le armi: proprio il cavallo di battaglia della Lega. Si rivela così l’esistenza di una sorta di “individualismo difensivo” che sembra prendere il posto dell’aggressivo “individualismo competitivo” che aveva caratterizzato la fase centrale dell’emergere della crisi del 2008 e anni seguenti. Un “individualismo difensivo” che si pone, quale elemento diffuso di percezione sociale, in relazione proprio all’agire politico e al ruolo delle istituzioni. La linea di demarcazione tra il difensivo e il corporativo, infatti, è molto sottile: una combinazione che ha portato appunto allo scomposizione del dissenso e del consenso che ormai si esercitano su “single issue” in contraddizione tra loro; scelte appunto che vengono effettuate da singoli in funzione della propria conservazione di ruolo e di status, chiedendo proprio alle istituzioni di operare in funzione conservativa. E’ nata così quella particolare forma di populismo che oggi verifichiamo porsi in atto nella nostra realtà nazionale e che – a sinistra – sconfina addirittura in idee di tipo sovranista nel richiamo a una mal digerita “identità nazionale” pur esercitata nei tempi passati in funzione però di legittimazione della classe sul piano della presenza politica. Nasce così quello che, sempre in commento al rapporto di Demos, è definito da Ceccarini e Pierdomenico come “voglia di impegno ma disperso in mille rivoli”. Senza cioè che si possa definire un quadro di “interesse generale” o di prospettiva politica. Si giustifica in questo modo il voto, da un lato al M5S ben caratterizzato socialmente e geograficamente si direbbe in termini etnico – corporativi e dall’altro alla Lega. I due soggetti, attualmente al governo, hanno trovato la soluzione del “contratto” quale strumento per conciliare le rispettive divergenti basi di consenso. Si verificherà adesso, quando la manovra finanziaria dovrà essere posta con i piedi per terra dei provvedimenti concreti l’esito di questa vicenda. Le avvisaglie sono quelle di una “assenza d’anima” e di una piattaforma elaborato non tanto al ribasso ma estranea (nella trattativa con l’Europa) all’essenza delle due proposte politiche sulla base delle quali si era raccolto il consenso necessario per consentire proprio la stipula del contratto. Ma si tratta di una valutazione per forza provvisoria. L’altro punto sul quale si sviluppano le contraddizioni operanti nella società italiana, almeno secondo di dati elaborati da Demos, riguarda il concetto di democrazia e il tema della rappresentanza politica. Nell’analisi di Bordignon e Securo si rileva, infatti, come la democrazia sia stata definita come: ” l’unico orizzonte possibile per la maggioranza degli italiani”. Mentre rimane sullo sfondo un 19% che pensa accettabile, in determinate circostanze, un regime autoritario (percentuale non trascurabile) il tema della democrazia è affrontato da una percentuale molto rilevante di intervistate/i (40%) in un quadro di ridimensionamento delle funzioni del Parlamento. Si tratta di un dato frutto essenzialmente della scomparsa nel dibattito politico del concetto di “rappresentanza” e dello spostamento verso il “decisionismo” verificatosi proprio al momento della scomparsa dei grandi partiti di massa e alimentato, non solo dal cambiamento dei sistemi elettorali, ma soprattutto dalla crescita – a tutti i livelli-. dal peso della personalizzazione (a questo punto tornerebbe in ballo il discorso sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa in funzione della costruzione dell’élite). Il tema della rappresentanza politica e del fatto che la conclamata “centralità” del Parlamento (poi puntualmente disattesa nei fatti attraverso l’intreccio tra decretazione e voto di fiducia) deriva essenzialmente dall’incapacità di sintesi dovuta alla crisi verticale della soggettività coincidente con la sparizione della funzione di integrazione sociale svolta a suo tempo dai partiti. E’ emerso così un intreccio fra tecnocrazia decisionista e spinta al potere personale che sta realizzando forme inedite rispetto a quelle classiche della democrazia liberale (circola addirittura una tesi di “democrazia illiberale) soprattutto a livello internazionale, facendo registrare così anche forti difficoltà di tutti gli organismi sovranazionali compresi trattati di vario tipo incluso quello di non proliferazione nucleare con il ritorno di una fase geopolitica nella quale s’intravvedono nuove tensioni imperialiste. In questo senso la situazione italiana non è certo provinciale, ma soffre particolarmente del derivare da particolari condizioni di partenza quelle che erano state definite come “caso italiano”. “Caso Italiano” che era riassumibile nella particolare conformazione data alla democrazia parlamentare da una Costituzione che aveva mantenuto per decenni un forte influsso, anche morale, sulla dinamica politica. Adesso che il “caso italiano” può essere considerato all’opposto di come lo si poteva valutare anni addietro si riapre un dibattito di fondo sulla qualità della democrazia. I segnali del rapporto di Demos sono timidi ma sembrano andare nel senso del recupero di una dimensione di riflessione collettiva sul tema: toccherebbe a chi pensa di potersi impegnare in questa direzione ad affrontare la questione in termini non generico partendo proprio dal recupero di una espressione di sintesi da parte di rinnovate soggettività politiche. E’ il tema del partito che ritorna alla ribalta della riflessione politica. CAPITOLO TERZO DISARTICOLAZIONE DEL CONSENSO E DEL DISSENSO Non è vero quello che ha scritto Giovanni Belardelli in un commento apparso sul “Corriere della Sera”: “Rappresentanza in crisi. La classe dirigente tende sempre più a seguire passivamente le opinioni della maggioranza (forse soltanto quelle di chi urla di più).”. Intendiamoci bene: non c’è nessuna maggioranza che urla, bensì un esercizio anche piuttosto rozzo ma favorito dalle circostanze storiche dell’autonomia del politico estesa fino a non contemplare più il meccanismo di adesione o di rifiuto da parte del pubblico. Tutto questo avviene in tempi di sbandierata “democrazia diretta”, del resto principio mai disatteso come in questo momento. Anzi negato completamente proprio da chi la sta proponendo. In realtà attorno alla vicenda, non ancora conclusa, della manovra finanziaria abbiamo fin qui visto l’emergere di due fenomeni: 1) La miglior rappresentazione della “democrazia recitativa” da quando questa forma di agire politico si è imposta sulla scena per il tramite dei fenomeni emersi nel corso degli ultimi 30 anni: dalla fine cioè di quella che Scoppola aveva definito “Repubblica dei Partiti”; 2) Ci troviamo di fronte ad una vera e propria disarticolazione nelle espressioni sia di consenso, sia di dissenso portate avanti da minoranze in un quadro di complessiva passivizzazione sociale. La passivizzazione sociale, il presentarsi di un’enorme “zona grigia” pare rappresentare il fenomeno saliente di questa fase: masse indistinte che attendono provvedimenti calati dall’alto. Questo, ad esempio, il senso del rapporto tra voto al Movimento 5 stelle e proposta del reddito di cittadinanza che ha rappresentato la vera novità in atto trasformando addirittura in un fenomeno di massa il “voto di scambio”. Per converso gli elementi di attivizzazione sociale hanno assunto appunto la caratteristica di una reciproca disarticolazione tra il consenso e il dissenso, senza assumere mai la dimensione di un’iniziativa politica. Ne è prova di quest’affermazione la tipologia delle diverse manifestazioni organizzate su vari fronti ma tutte destinate a una “single issue”, (“madamine” e NO TAV, artigiani, Confindustria, pro migranti, anti migranti) nessuna in grado di esprimere una qualche ipotesi d’interesse generale. Fa fede di questo stato di cose la totale assenza dall’agone del Sindacato. La maggiore delle tre sigle confederali– la CGIL – appare impegnata quasi esclusivamente sul fronte delle proprie dinamiche interne al riguardo dell’elezione del nuovo segretario generale. Il Sindacato, un tempo il soggetto principalmente portatore di quell’interesse generale cui si è fatto cenno, è stato presente alle cronache soltanto per iniziative riguardanti momenti di sacrosanta difesa del posto di lavoro in diverse situazioni di difficoltà evidenziatesi in tutto il Paese. A questo punto diventerebbe stucchevole rimarcare l’assenza della soggettività politiche e sottolineare ancora come il luogo del massimo di passivizzazione espressa sia stato il Parlamento. Anche in questo caso, all’interno del Parlamento, la maggior forza di opposizione al governo appare del tutto ripiegata nella ricerca di nuovi equilibri interni e di conseguenza in una lotta che appare caratterizzata dalla pura dimensione del potere fine a se stesso. Ci sarebbe da rispolverare un discorso riguardante l’estensione delle contraddizioni sociali e la necessità di rivolgersi a esse per il tramite di una capacità di sintesi e proposta politica, ma anche muoversi in questa direzione apparirebbe anacronistico. Forse il nocciolo vero della questione sociale e politica di questa fase è stato colto dal filosofo Maurizio Iacono sulle colonne del “Tirreno”: si è scollato il rapporto fra conoscenza, critica e politica”. Insomma è prioritario il nodo tanto evocato e mai affrontato della cultura politica che non si esprime in un Paese in evidente crisi.

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