giovedì 6 settembre 2018

Andrea Ermano: Dopo la terza via, svoltare a sinistra

EDITORIALE Avvenire dei Lavoratori Dopo la “terza via” svoltare a sinistra La costruzione europea, unica nostra chance di contare qualcosa nel mondo che viene, viene presa a mazzate mentre le tre grandi potenze si contendono i termini di una nuova spartizione del pianeta in aree d’influenza. Per dargli una mano, l’obiettivo dichiarato dei sovranisti del Vecchio Continente è vincere le europee del 2019 e cacciare il PSE all’opposizione. di Andrea Ermano Sulle note della marcia trionfale pro Salvini – santo subito e ora anche martire, dacché alcuni magistrati hanno avuto l’ardire di sottoporre il Ministro a indagine giudiziaria per avere questi vietato lo sbarco di stranieri sul sacro suolo patrio – l’estate sta finendo. Scampati all’ammazzamento nei conflitti centroafricani? Alla morte per sete nel deserto? Alle violenze plurime nei lager libici? All’annegamento nel Mediterraneo? La lega se ne frega. E vola verso vette di consenso a trentadue stelle. Un italiano su tre adora il Capo. Il quale per parte sua – dopo i primi mesi di propaganda al governo – sembra volersi accomodare in un riposizionamento moderato, forse puntando sulla confluenza nel PPE, come Orban e Berlusconi. L’obiettivo dichiarato: vincere le europee del 2019 e cacciare il PSE all’opposizione. No, di grazia, ancora i socialisti europei?! Ma non erano morti e rimorti? E di che sarebbero rei, stavolta? In politica, spiegano gli psicologi, l’universalismo tenderebbe sempre a perdere contro il particolarismo perché le pulsioni profonde delle masse prediligerebbero la chiusura securitaria: «Salvini vince facile perché ha elevato questa tendenza della vita pulsionale alla dignità dell’azione politica», sostiene Recalcati. Anche la totale subalternità del M5S verso il leader nazional-padano si spiegherebbe in questo quadro: «Cosa conta di più? Impugnare populisticamente l’ideale della giustizia e dell’onestà, oppure invocare il pericolo imminente di una rottura degli argini, di un’inondazione pestilenziale dell’immigrato?». Certo, se la politica si riducesse alla psicologia di massa e questa alla propaganda xenofoba, sempre il particolarismo prevarrebbe sull’universalismo (e il socialismo è un universalismo). Ma – ancorché il particolarismo partecipi a un comune sentire identitario sovranista – la sua forza aggregante sul piano collettivo resta instabile, per la contradizion che nol consente. Attrarre le repulsioni, estendere oltre misura le restrizioni e aprire ciò che di per sé vorrebbe chiudersi è fatica improba. E un esempio di ciò si ha con Orban, Salvini, Kurz e consorti, tutti d’accordo nel non aiutarsi reciprocamente. Là fuori, sul piano oggettivo, le determinanti fondamentali della nostra vita hanno assunto, oggi come non mai, una dimensione universale: il clima, la sovrappopolazione, l’accelerazione tecnologica, gli squilibri strategici, il turbo-capitalismo finanziario ecc. esigono risposte di tipo universalistico e non ammettono soluzioni particolaristiche, pena la catastrofe multipla. Ma perché impressionarsi per così poco? Non si sono impressionati gli strateghi del particolarismo turbo-capitalista, autori del più grande trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi che la storia ricordi. Non si stanno minimamente impressionando neppure gli strateghi del particolarismo sovranista che ha ormai il vento in poppa in tutto l’Occidente. Con la differenza che i trumpiani al di là dell’Atlantico possono sovraneggiare ancora un po’, mentre per noi al di qua dell’acqua si tratta ormai di un lusso rischiosissimo. La costruzione europea, unica nostra chance di contare qualcosa nel mondo che viene, viene presa sistematicamente a mazzate mentre le tre superpotenze si contendono i termini di una nuova spartizione del pianeta in aree d’influenza. Come nell’Italia degli anni Novanta, così oggi in Europa la crisi della cultura politica novecentesca si accompagna alle retoriche del “nuovo” e del “cambiamento”. In Italia, come ben sappiamo, hanno veicolato un declino economico e sociale senza precedenti, sempre più ossessionato da tematiche securitarie, che non sarebbero né di destra né di sinistra, dicono. Ma proprio la parola “sicurezza” assume a sinistra un valore decisivo e significa anzitutto “sicurezza sociale”. Se ne è ricordato di recente Walter Veltroni, che ha ammesso i gravi errori compiuti dal suo Pds-Ds-Pd nell’aver privilegiato le politiche neo-liberali (a favore dei ricchi) e dell’austerità (a sfavore dei poveri) tramite scelte massicciamente disorientanti per il popolo di sinistra. Oggi, tant’anni dopo, l’uomo del Lingotto non dice più “corriamo da soli”, parla invece di umiltà, di autocritica, di ravvedimento, e proclama: “La sinistra è dare sicurezza sociale”. Contribuisce così – quanto meno a sinistra e quanto meno sul piano delle idee – a una chiarificazione critica verso l’epoca dell’ideologia neo-liberale, la cui mossa programmatica iniziale, trent’anni fa, fu: Tanto stato di diritto quant’è possibile, tanto stato sociale quant’è necessario. Non era così. Questa asimmetria si è rivelata disastrosa. E per fortuna che i tempi di abbattimento dello stato sociale sono stati frenati da diversi vincoli e resistenze. Perché, senza lo stato sociale, la strisciante sindrome weimariana in corso sarebbe esplosa con effetti ben più dirompenti. Dunque, come si vede e come volevasi dimostrare, è davvero la sicurezza sociale a costituire garanzia di tenuta ultima per l’ordine liberale. Di qui ben si comprende anche la “verità dialettica” dei nostri avversari populisti e sovranisti al governo: catapultati a Palazzo Chigi anche perché – insieme alle odiosissime spinte xenofobe di estrema destra che li caratterizzano – essi agitano confusamente alcune tipiche istanze di sinistra, come la perequazione dei redditi minimi e delle pensioni. Per concludere, un dato demoscopico: circa il 15-20% degli italiani desidererebbe il ritorno di un partito socialdemocratico nel nostro Paese e, oltre a questi, circa il 20% desidererebbe il ritorno di un partito “di sinistra”. Coloro i quali tolsero le parole “socialismo” e “sinistra” dal nostro panorama politico hanno di che riflettere. Ne consegue una domanda. Il PD può assumere un profilo più “socialdemocratico” e più “di sinistra”? Noi ce lo auguriamo. È, del resto, quanto già accade nelle formazioni laburiste e democratiche d’area anglosassone, che dopo la “terza via” hanno decisamente svoltato. Ma si tratta – anche lì – di un percorso non facile e non semplice. Il limite maggiore sta – non solo nel rapporto con il “popolo di sinistra” – ma anche nell’incredibile povertà della cultura politica quanto ad analisi, strategie e programmi. Per dire, non si vede, nell’epoca della globalizzazione dei destini umani, una teoria tanto della polis quanto della cosmopolis, per esempio a riguardo dei diritti e dei doveri del cittadino, ma manca anche una teoria del lavoro umano nell’epoca della transizione iper-tecnologica in atto. Insomma, il lavoro non manca.

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