Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 giugno 2018
venerdì 29 giugno 2018
mercoledì 27 giugno 2018
L'Istat certifica il nuovo record dei poveri assoluti, sono oltre 5 milioni - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
Turkish Presidential Candidate Demirtaş “We will continue to fight” - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
martedì 26 giugno 2018
lunedì 25 giugno 2018
Franco Astengo: Ballottaggi 2018
NUMERI DAI BALLOTTAGGI 2018 di Franco Astengo
14 comuni capoluogo al ballottaggio: questo l’elemento politico più saliente del secondo turno delle amministrative 2018.
L’attenzione maggiore naturalmente è rivolta alle singole sfide, a quante città conquistate da uno schieramento o l’altro.
E’ il caso però, anche se l’operazione risulta molto difficile , di dare uno sguardo al risultato complessivo cercando anche, se pure in misura parziale, di attribuirgli un significato politico.
Andando per ordine, nei 14 centri capoluogo di provincia (è il caso di ricordare che le province continuano a far parte del nostro ordinamento istituzionale e che è stata soltanto sottratta ad elettrici ed elettori la facoltà di eleggerne direttamente i Consigli) i ballottaggi prevedevano questi confronti:
7 tra candidati del centro – destra versus candidati del PD ( Ancona, Massa, Pisa, Siena, Sondrio, Teramo);1 tra candidato del Pd e candidato del M5S ( Avellino); lo scontro “anomalo” tra Scajola e il centro – destra ad Imperia; 1 tra candidato del centro – destra e M5S (Terni), 3 tra candidati del centro destra e candidati di liste civiche (Messina, Siracusa, Viterbo), 1 tra M5S e Destra (Ragusa).
La prima annotazione riguarda la partecipazione al voto che, nei 14 capoluoghi è risultata superiore a quella della media nazionale, sia pure egualmente in calo rispetto a quella fatta registrare nel primo turno.
Il totale dei voti validi infatti, il 24 giugno, nei 14 comuni capoluogo è stato di 427.246 unità, rispetto ai 517.521 del primo turno (55,42% rispetto al totale degli iscritti nelle liste che era di 770.859). Un calo di 90.276 suffragi.
I candidati passati al ballottaggio avevano ottenuto complessivamente 340.897 voti : quindi sono stati recuperati dei 176.624 voti andati al primo turno ai candidati esclusi 86.349 voti pari al 48,88%: si può quindi confermare la tendenza della maggioranza dei candidati esclusi al primo turno a non partecipare al voto di ballottaggio.
Esaminando i dati complessivi per schieramento:
I candidati del PD ammessi al ballottaggio in 7 comuni al primo turno avevano ottenuto 87.666 voti, saliti al ballottaggio a 107.297 suffragi. Un incremento del 22,71% rispetto al totale dei voti recuperati (che ricordiamo è stato di 86.349). Si comprende come il PD stia pagando il caro prezzo della perdita delle roccheforti toscane, ma il dato complessivo non appare così disdicevole (da notare che nell’insieme dei 14 comuni arrivati al ballottaggio liste di sinistra fuori dal PD avevano ottenuto 30.581 voti).
Il centro – destra, sicuramente affermatosi sul piano del confronto diretto, ha realizzato – tra un turno e l’altro – un incremento minore di quello fatto segnare dal PD: da 171.409 voti a 179.699, un più 8.290 pari al 9.59% de voti recuperati dai candidati esclusi. Naturalmente, in questo caso, non è possibile distinguere tra i voti arrivati dalla Lega e quelli del resto dello schieramento . Ricordo soltanto le proporzioni del pre – ballottaggio riferite però a tutti e 20 i capoluoghi impegnati: Lega 11,22, Forza Italia 8,01, Fratelli d’Italia 8,48%, UDC 1,38% Popolo della Famiglia 0,37, PRI – ALA 0,45, Civiche di centro destra 22,67%.
I candidati del M5S sono stati sconfitti in 2 casi su 3 rispetto ai Comuni qui presi in esame: pur tuttavia la somma dei loro voti ha fatto registrare un discreto incremento rispetto al primo turno, allorquando ottennero 27.470 voti saliti a 40.730 il 24 giugno (una crescita di 13.260 suffragi pari al 15,34% dell’incremento).
Nel computo riguardante le liste civiche è stato sottratto il dato di Scajola ad Imperia, che costituiva sicuramente un caso particolare.
I tre candidati di lista civica hanno ottenuto il massimo incremento tra un turno e l’altro passando da 39.660 voti a 77.892: una crescita di 38.322 suffragi pari al 44,38% dei voti recuperati dall’insieme dei candidati in tutti i comuni capoluogo interessati. Naturalmente mettere questi dati in un unico calderone rappresenta una forzatura: ogni singolo caso andrà esaminato specificatamente a sé.
Da rilevare, infine, il dato di Ragusa, dove un candidato della Destra (non Centro – Destra) ha sconfitto quello del M5S raddoppiando quasi i propri voti da 7.295 a 13.492.
Infine il “caso Scajola”: vittoria avvenuta in “discesa” incrementando tra un turno e l’altro di soli 739 voti, meno della metà dell’incremento del suo diretto concorrente Lanteri ma sufficiente per mantenere un margine di vantaggio e creare sicuramente un “affaire” di natura insieme politica e morale.
Questi i primi dati utili per soddisfare qualche curiosità di carattere politico generale, anche se in occasioni del genere è complicato assegnare particolari valenze in quel senso.
Sarà necessaria anche un’analisi specifica Comune per Comune, magari estesa anche a Comuni non capoluogo: ma per quell’operazione sarà necessario disporre di più tempo.
Intanto si possono affermare almeno tre cose (anche se con beneficio d’inventario)
1) Il centro- destra consolida sicuramente le posizioni acquisite e conquista altre città importanti e significative sul piano simbolico, ma l’impressione che forniscono i dati complessivi non è quella di uno sfondamento vero e proprio;
2) Sul piano della raccolta dei voti il PD non fa registrare, in questo turno di ballottaggio, una debacle specialmente in raffronto al primo turno. Certo vale il discorso già fatto della perdita di Città- simbolo e di una conseguente drastica cura dimagrante sul piano della gestione del potere, però quanto ai voti come tali l’idea che forniscono i numeri è quella di una tenuta. Quale sarà la linea del Piave del PD dovranno in ogni caso deciderla i suoi dirigenti;
3) IL M5S uscito malconcio dal primo turno, ha realizzato nei ballottaggi un risultato di sostanziale arresto della caduta. Ai candidati del M5S non è escluso siano arrivati una parte di voti da sinistra. Quella sinistra che, in questa occasione, risultava totalmente assente: e questo è un altro elemento da considerare.
domenica 24 giugno 2018
Per la Grecia allenta la morsa del debito, e Tsipras prova a voltare pagina - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
Franco Astengo: Internazionalismo
INTERNAZIONALISMO di Franco Astengo
Esiste e non può essere negato il rischio concreto che, a sinistra, lo smarrimento che si sta affermando nella drammatica situazione in corso finisca con il far prevalere opzioni contrarie a quelle che debbono continuare a essere le basi teoriche di un movimento per l’eguaglianza e la solidarietà.
Un movimento per l’eguaglianza e la solidarietà collegato, nel suo divenire, alla storia del movimento operaio europeo, a quelli che sono stati – in passato – i partiti socialisti e comunisti nel loro sviluppo storico pur contraddittorio, complesso, difficile.
Mi riferisco al rischio dell’affermazione del cosiddetto “sovranismo di sinistra” che, addirittura prende per buona la possibilità di “incidere” – almeno per quel che riguarda il “caso italiano” - sul governo Lega – 5 stelle fornendo rispetto a esso quello che (pericolosamente) viene formulato come “giudizio articolato” sul quale basare una “opposizione flessibile”.
Verrebbe da dire: tanta voglia di accodarsi, visto che si vede occupato sia lo spazio di lotta sia quello di governo.
Verrebbe da pensare che una posizione del genere derivi – addirittura – da un retro pensiero da “socialismo in un solo paese” senza riflettere su tutte le conseguenze del caso.
Siccome in gioco c’è la possibilità di ricostituzione di una soggettività politica della sinistra italiana capace di affrontare le contraddizioni dell’oggi senza smarrire il proprio passato è il caso, allora, di rinverdire qualche principio di fondo, come quello del concetto d’internazionalismo.
Il concetto d’internazionalismo sottende l’esistenza di un principio comune : quello dell’impossibilità di concepire l’aspirazione alla libertà e all’eguaglianza entro i confini di una singola realtà statuale o, anche, sovranazionale come nel caso dell’Unione Europea.
Si ritiene, infatti, che ai valori di solidarietà ed eguaglianza sia connaturato un orientamento all’universalità che trascende i nazionalismi (fenomeno cui oggi stiamo assistendo come momento di imbarbarimento di ritorno) e si estende a tutto il mondo in nome della solidarietà tra i popoli e le classi.
Nell’internazionalismo socialista, il concetto si basa sul carattere universale dei principi di emancipazione sociale e porta a individuare nell’abolizione delle società divise in classi il presupposto per il superamento dei conflitti tra le nazioni.
L’internazionalismo deve trovare alimento nella necessità di coordinare le diverse organizzazioni nazionali all’interno di soggetti sovranazionali nella lotta comune contro l’organizzazione capitalistica che, come ha ben dimostrato anche la gestione della crisi in atto, applica ovunque la stessa logica di sfruttamento.
Sotto questo aspetto, in Europa, non si è compreso il rallentarsi, a causa di fenomeni particolarmente complessi, del meccanismo di cessione di sovranità dello “Stato – Nazione” che avrebbe dovuto essere incalzato proprio da una proposta internazionalista e non di ritorno proprio all’ambito nazionalista di cui sono stati protagonisti proprio i paesi dell’attuale gruppo di Visegrad, dopo la loro ammissione all’Unione Europea e l’esaurimento di funzione delle forze che erano state protagoniste della fase immediatamente seguente alla caduta del muro di Berlino.
Quelli dell’internazionalismo rappresentano principi elementari che dobbiamo tornare a portare avanti con grande determinazione e che debbono ispirare una ripresa di presenza delle forze di sinistra, anche in una realtà come quella italiana nella quale appaiono, in questo momento, quasi del tutto assenti.
Gli esempi storici cui riferirci non mancano, se si pensa al punto effettivo di sconfitta del movimento operaio che fu determinato nell’agosto del 1914 dallo scioglimento della seconda internazionale dovuto allo schierarsi del Partito Socialista Francese e della SPD tedesca all’interno delle rispettive “union sacrée” al momento dello scoppio della prima guerra mondiale.
Così come, sul versante opposto, non può essere dimenticato il coraggio di chi seppe opporsi a quella guerra esplicitando il proprio dissenso nel corso di ben due conferenze internazionali svoltesi in Svizzera, a Zimmerwald e a Kienthal.
Da ricordare ancora le brigate internazionali in Spagna come conseguenza del valore internazionalista dei Fronti Popolari e ancora , per riferirci alla seconda guerra mondiale, il carattere “europeo” della Resistenza così come in seguito sarebbe il caso di soffermarsi sul valore internazionalista del dissenso rivolto verso la realtà del cosiddetto “socialismo reale”. Dissenso dimostrato soprattutto nelle grandi occasioni storiche come quelle dell’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia. Dissenso palesato senza deflettere dalle concezioni fondamentali riguardanti appunto il principio di eguaglianza accompagnato a quello di libertà politica, pur restando all’interno del movimento comunista e socialista, senza scivolare a destra come sarebbe stato (anche opportunisticamente) facile.
Oggi è il caso davvero di tornare a riflettere meglio sui passaggi dell’internazionalismo: lo stesso recente documento di Lisbona siglato da alcune forze politiche di diversi paesi d’Europa va inteso utile per sviluppare un’azione politica rivolta ad altri soggetti in una visione più ampia della battaglia per la modifica e il superamento dell’attuale assetto dell’Unione Europea, così come prevede lo stesso “Piano B” elaborato da France Insoumise che, almeno a mio giudizio, potrebbe rappresentare il punto di partenza per lo sviluppo di un’azione politica comune.
Così come servirebbe la costruzione di un più largo spettro di rappresentanza politica, sia a livello di Sinistra Europea (considerato tra l’altro il progressivo esaurimento della funzione del PSE) e – in chiave istituzionale – dello stesso GUE al Parlamento Europeo.
Le elezioni europee del 2019 rappresenteranno un passaggio sicuramente importante da affrontare proprio in questa chiave: guai se la sinistra si presentasse con una visione nazionalistica, con l’idea di rinchiudere la rappresentazione (indispensabile) della lotta sociale dentro i confini nazionali.
Su quest’ultimo punto il cedimento alla destra sarebbe totale.
E’ il caso dunque di aprire un confronto a tutti i livelli in una dimensione sovranazionale per raggiungere un equilibrio di decisionalità politica capace di metterci in grado proficuamente di affrontare quelli che sono i dati d’incremento della disuguaglianza e di crescita della sopraffazione e dello sfruttamento che caratterizzano fortemente l’offensiva di destra in atto e che richiedono un forte livello di contrasto nella società e nella politica.
Contrasto senza sconti e senza ammiccamenti di sorta.
Non è retorico affermare ancora una volta (proprio in questi giorni in cui tanti si affannano a ricordarne i 170 dalla pubblicazione e i 200 anni dalla nascita del suo autore) il principio contenuto nell’appello che chiude il “Manifesto del partito comunista” di Marx ed Engels: “ Proletari di tutti i paesi unitevi!”.
Quell’esortazione rappresenta ancor oggi l’espressione di un’esigenza storica insuperabile e incancellabile.
venerdì 22 giugno 2018
giovedì 21 giugno 2018
mercoledì 20 giugno 2018
martedì 19 giugno 2018
Turkish Presidential Candidate Demirtaş Speaks - From Prison - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
Paolo Bagnoli: Il capo vero e il fuoco di paglia
Da Non mollare
la biscondola
il capo vero
e il fuoco di paglia
paolo bagnoli
Non era difficile capire – lo avanzammo già su
queste pagine – che, se si fosse fatto il governo,
esso sarebbe stato targato Matteo Salvini. Così è
stato. Non c’è bisogno che il Ministro dell’Interno
di metta la felpa con la scritta GOVERNO perché
lo si capisca meglio. La svolta a destra è stata
istituzionalizzata dalla Lega oggi nazionale, che
Salvini ha voluto e costruito, tanto da farne l’unico
partito articolato sul territorio, capace addirittura
di subentrare, nelle cosiddette regioni rosse, a
quella che era la sinistra dominante e sulla quale
aveva campato il Partito democratico.
Il Movimento 5 Stelle, finché si è trattato di
sfruttare la rabbia e di urlare nelle piazze la
necessità del cambiamento soprattutto in funzione
anticasta, ossia di tradurre in narrazione politica
quel Vaffa che è, e rimane, l’unico indirizzo
politico del grillismo, ha raccolto il consenso della
pancia di un Paese sconcertato e depoliticizzato
rispetto alla politica democratica e alle sue regole.
Ciò gli ha fruttato il primo posto nei consensi
elettorali, ma non è sulla rabbia che si costituisce
una nuova classe dirigente ossia personale
all’altezza di compiti istituzionali aventi cultura
della Repubblica. Alla prova del governo sono
arrivati impreparati, pieni di parole, ma
sostanzialmente vuoti di idee vere eppure, come ci
dicono i fatti romani di questi giorni, intrallazzatori
se pur non professionali.
La Lega, invece, è arrivata agli appuntamenti
con un disegno preciso; un azzardo che poteva
anche non funzionare, ma la furbizia e la capacità
di muoversi di Salvini le hanno permesso di
intitolarsi il governo. Salvini ha sfruttato
soprattutto la paura degli italiani verso gli stranieri
ridando sostanza politica a una questione mai
seriamente governata e, su ciò, non solo ha tolto
Di Maio dalla scena per quanto riguarda lo
specifico, ma a poco a poco lo ha relegato a
badante politico di Giuseppe Conte. Singolare
personaggio il presidente del consiglio; da persona
educata, come si è visto durante il dibattito sulla
7
nonmollare quindicinale post azionista | 022 | 18 giugno 2018
_______________________________________________________________________________________
fiducia alla Camera, ha chiesto addirittura a Di
Maio il placet sulle cose da dire in Aula. Il giovane
“capo politico”, di par suo, per lo più sorride,
proclama, ma sostanzialmente annaspa; cerca di
recuperare soprattutto via social . Con la
comunicazione, tuttavia, non si risolvono questioni
di fondo quali l’Acciaieria di Taranto oppure le
Infrastrutture, sulle quali il balbettio banale del
nuovo ministro che dovrebbe avere la competenza
è addirittura assordante. Alla fine, per capire il
vento che tira, basta vedere i telegiornali: Salvini
viene sempre prima di Di Maio, fatte salve le
notizie sull’indagine di Roma relativa al nuovo
stadio nelle quali i 5Stelle vengono prima della
Lega
Pensare che Salvini abbia in mente il modello
Putin fa venire i brividi. Per divenire il nuovo
dominus della politica italiana la scaltrezza e la
furbizia non sono fattori sufficienti perché, come
le pile, dopo un po’ si consumano e non c’è
possibilità di ricaricarle. La parabola di Matteo
Renzi, al proposito, è addirittura da manuale. Non
occorre essere raffinati politologici per sapere che
le crisi acute delle democrazie finiscono sempre a
destra e questo governo lo conferma con buona
pace dell’anima di sinistra del M5S che, se c’era
davvero, doveva venir fuori al momento
opportuno. Le sortite di Roberto Fico non
ingannino; parla a nuora perché suocera intenda,
ma la suocera, anche se volesse, non può
intendere; esse non smuovono nulla e poi il
Presidente della Camera ha il dovere esclusivo di
far funzionare con autorevolezza Montecitorio; in
questo e solo in questo è un’istituzione. Al resto
devono pensarci altri. Le presidenze delle Camere
non possono essere strumenti della politica
politicata. Con i Vaffa si possono prendere voti,
ma, alla lunga, non si va tanto lontano anche se la
smania di farsi notare sembra quasi insopprimibile.
Viene da domandarsi se Salvini sarà in grado di
realizzare una destra compiuta, magari profilata sul
modello decisionale e autoritativo di Putin o se la
deriva sia quella che conduce a Visegrad. Ad oggi
la crescita della Lega sembra quasi inarrestabile, ma
l’Italia è un Paese complesso e, al di là della
contingenza, quale idea di esso abbia il Ministro
degli Interni non è dato sapere. Le piazze
producono consenso, ma a questo non vi
corrisponde sempre la politica. Silvio Berlusconi
lo dimostra; oggi Forza Italia non sembra nelle
condizioni di bloccare lo smagrimento continuo e
pure per il partito democratico il futuro appare
assai incerto.
domenica 17 giugno 2018
Spagna, Governo Sánchez: la sanità torna universale e «via le lame da Ceuta» - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
Franco Astengo: Agenda politica e lavoro
AGENDA POLITICA E LAVORO di Franco Astengo
Poche righe scritte per esprimere ancora una volta un personale moto dell’anima d’indignazione e la sensazione di distacco profondo che il rutilante mondo del sottobosco politico – affaristico dimostra nei riguardi dei nodi vita della vita quotidiana e delle sue drammatiche realtà.
Mentre si stanno consumando le ormai usuali schermaglie legate – appunto – ad affari e a lotte di potere all’interno dello schieramento del “governo di cambiamento” (pubblicità personale, parole a vuoto, cene, pranzi, tangenti, speculazioni propagandistiche sulla pelle dei più deboli e non solo verso i migranti: il tutto come da copione) esplode sempre più violento il dramma del lavoro.
Dramma del lavoro che si è espresso come nel caso dell’operaio del gruppo GEDI che si è tolto la vita all’annuncio della possibilità che il centro stampa dove lavorava fosse in procinto di essere chiuso da parte dei “cervelloni” che dirigono il maxi –gruppo editoriale.
Possiamo aggiungere questa vittima alle centinaia di morti sul lavoro già avvenute nel 2018 (nel 2017 furono 632) a suffragio e testimonianza del processo d’intensificazione dello sfruttamento, materiale e morale, che sta contrassegnando questa fase di feroce gestione del ciclo capitalistico.
Tutto questo avviene in un’Italia nella quale il tema del lavoro appare assolutamente trascurato e l’impoverimento generale crescente (7,3 milioni di cittadine e cittadini in stato di disagio economico) mentre i nuovi governanti esercitano la fantasia del reddito di cittadinanza e nulla viene pensato sia in relazione al rapporto tra innovazione tecnologica e posti di lavoro, sia al riguardo del deficit di industrializzazione nei settori decisivi (siderurgia, chimica, meccanica, agro alimentare) che l’Italia accusa almeno dal tempo dello scioglimento dell’IRI e delle privatizzazioni di quelle che furono le PPSS e ancora del ruolo dell’Italia nel processo di ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro.
Se non ci si occupa di questo, se non si cerca di rappresentare la realtà dello sfruttamento, delle disuguaglianze, dell’assenza di lavoro, difficilmente si potrà risalire la china: per tutto ciò, vale la pena affermarlo in questo ennesimo momento di lutto, servirebbe ancora la “politica”, quell’attività capace di riflessione, proposta di soluzione, sentimenti collettivi di solidarietà.
“Politica” dell’esercizio della quale nel senso appena indicato si sono da tempo perse le tracce, sostituita dall’espressione di vanità individualistica che ormai sembra presiedere alla gestione del dimenticato interesse pubblico.
Ho scritto questo per sommi capi allo scopo di esprimere un immediato “grido di dolore”: per le analisi sui massimi sistemi ci sarà tempo più avanti.
L’indignazione è forse in questo momento la migliore espressione possibile di un’idea pienamente politica.
sabato 16 giugno 2018
venerdì 15 giugno 2018
giovedì 14 giugno 2018
Dati Istat sull'occupazione: la crescita è senza occupazione fissa - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
mercoledì 13 giugno 2018
martedì 12 giugno 2018
Franco Astengo: Amministrative 2018
AMMINISTRATIVE 2018: NUMERI SPARSI di Franco Astengo
Non è facile riuscire a fornire un indirizzo politico complessivo ai dati usciti dalle urne il 10 giugno scorso: elezioni comunali che hanno visto impegnati, tra gli altri, elettrici ed elettori di 20 Città capoluogo.
Brescia, Catania, Siena, Pisa, Ancona, Avellino, Barletta, Brindisi, Imperia, Massa, Messina, Ragusa, Siracusa, Sondrio, Teramo, Terni, Trapani, Treviso, Vicenza, Viterbo: su questi 20 comuni si è concentrato il nostro tentativo di focus.
Tentativo perché di nient’altro si è trattato proprio perché l’obiettivo è quello di stabilire l’individuazione di un “trend” sul piano esclusivamente politico cercando di raffrontare i dati del 10 giugno con quelli espressi, nelle stesse Città, il 4 marzo in occasione delle elezioni legislative generali.
Ci troviamo di fronte, nuovamente, ad una alta volatilità elettorale (Diamanti azzarda un “elettorato liquido”) che fino a qualche anno fa non si reperiva facilmente nelle urne italiane.
In questo caso comunque non interessa il gioco dei Sindaci eletti al primo turno, dei ballottaggi, del mutamento di schieramento nella formazione delle maggioranze nei consigli comunali: si cerca di esaminare l’andamento dei singoli partiti e / o liste sul piano generale.
Inoltre la scadenza delle elezioni comunali ha indotto alla presentazione di un grande numero di liste cosiddette “civiche”, in particolare al Sud e più specificatamente in Sicilia dove sulle schede è stato difficile reperire simboli di partito oltre a quello del Movimento 5 stelle presentatosi invece “en solitaire” su tutto il territorio nazionale (questo dato favorisce il raffronto degli analisti).
Liste civiche di diversa natura: ci sono quelle presentate in appoggio a candidature a Sindaco connotate politicamente e quindi facilmente collocabili (liste civiche hanno fiancheggiato anche candidature di Casapound); altre messe in piedi da conosciuti professionisti della politica, magari in rotta con il loro schieramento d’origine come nel caso di Scajola ad Oneglia e che quindi debbono per forza essere collocate in uno schema di riferimento politico ben preciso; ancora le liste civiche non connotabili- almeno a prima vista – e che quindi debbono essere analizzate a parte.
Vedremo meglio andando avanti.
Prima di tutto però il dato della partecipazione al voto.
Come ci capita ormai da diverso tempo il nostro riferimento al proposito è quello del totale dei voti validi: in questa occasione davvero nessuno può vantarsi di essere riuscito a portare al seggio elettrici ed elettori abitualmente astensionisti.
Il 4 marzo infatti, nel 20 comuni capoluogo presi in esame, erano stati espressi 1.042.549 voti validi; cifra scesa al 10 giugno a 888.468 con un calo di 154.081 unità.
Si accennava alle liste civiche: quelle non catalogabili all’interno degli schieramenti hanno raccolto 66.593 voti pari al 7,49%, dato non raffrontabile ovviamente con altri derivanti dall’esito delle elezioni politiche di marzo.
Partiamo allora conducendo il nostro raffronto dal Movimento 5 Stelle che, nel frattempo, ha effettuato il difficilissimo esercizio del passaggio dall’opposizione al governo.
Il M5S ha ottenuto il 10 giugno 103.279 voti (da tener presente che il Movimento non aveva presentato il simbolo in alcuni comuni come Vicenza e Siena) pari all’11,62%sul totale dei voti validi. Il 4 marzo scorso M5S aveva totalizzato, nell’insieme dei 20 comuni capoluogo presi in esame in questa sede, 384.825 voti pari al 36,91% sempre sul totale dei voti validi. La flessione è quindi di 281.546 voti e del 25,29% in percentuale.
Assolutamente frastagliata la presenza di quello che è stato il centro – destra e che comunque analizziamo in blocco stante la partecipazione comune in molte situazioni locali come avvenne, il 4 marzo, nei collegi uninominali di Camera e Senato (i nostri dati di raffronto sono però sempre desunti dal voto della Camera).
Il primato all’interno del centro – destra spetta, in questo caso, alle liste civiche di appoggio ai candidati – Sindaci (in questo dato sono comprese le liste d’appoggio a Scajola, come già riferito, esclusa quella del Popolo della Famiglia che ha una sua valutazione a parte).
Le liste civiche di centro – destra hanno dunque messo assieme, sempre in riferimento ai 20 comuni capoluogo analizzati, 178.596 voti pari al 20,10%.
Tra i simboli di partito tradizionali: la Lega ha ottenuto 88.369 voti pari al 9,94%% ( 4 marzo: 133.539 pari al 12,80%); Forza Italia 63.123 , 7,10% ( 4 marzo: 152.596 pari al 14,63%), Fratelli d’Italia 35.356, 3,97% ( 45.115 il 4 Marzo pari al 4,32%), UDC 10.900, 1,22% , presente in 9 comuni( 4 marzo. Lista Noi per l’Italia – UDC 11.665 pari all’1,11%), Popolo della Famiglia,presente in 8 comuni, 2.943 voti, 0,33% ( 4marzo 7.812, 0,74%). Con il centro destra anche la presenza in un solo comune del PRI 3.618 voti , 0,40% (PRI – ALA il 4 marzo, nei 20 comuni, 1.339 voti 0,12%).
La Lega quindi mantiene il primato all’interno di quello che fu il raggruppamento di centro – destra e raccorcia notevolmente le distanze, rispetto al 4 marzo, dall’alleato di governo del M5S ma non fornisce l’impressione di un vero e proprio sfondamento elettorale, ciò nonostante il calo secco di Forza Italia che, probabilmente, molto concede (assai più della Lega) alle liste civiche.
Riassumendo, per quel che riguarda il centro – destra analizzandolo ancora come schieramento tale e quale quello presentato alle politiche: il 10 giugno i voti raccolti sono 382.905 pari al 43,09%. Il 4 marzo, sempre in riferimento ai 20 comuni in questione, il centro destra ebbe 350.727 suffragi pari al 33,64%. Siamo di fronte quindi ad un incremento notevole dovuto in gran parte alla “tenuta” del proprio elettorato tradizionale, alla presenza di liste civiche che possono aver catturato voti in altri campi e – anche – da una qualche cessione da parte di elettrici ed elettori 5 stelle.
Il PD temeva un vero e proprio tracollo,invece il risultato – pur in perdita – non è disprezzabile considerate anche le condizioni interne dell’ex-PdR. Il risultato del PD, inoltre come è già capitato al centro – destra, è corroborato dalla presenza delle liste civiche a sostegno del sindaci presentati dal Partito Democratico: in Sicilia, come è già stato fatto notare, il simbolo del PD non è stato presentato in importanti città (Catania) e sostituito da diversi simboli di varie liste civiche.
In sostanza il PD ha avuto, sul proprio simbolo, l’apposizione di 112.784 suffragi (12,69%), il 4 marzo erano stati 191.734 (18,39%). Un calo di 78.950 voti e del 5,70%.
Le liste civiche d’appoggio hanno avuto 167.479 voti pari al 18,85% (più 1.731 voti di una lista verde pari allo 0,19%).
Lo schieramento attorno al PD ha quindi ottenuto complessivamente, il 10 giugno, 280.263 voti pari al 31,54%. Il 4 Marzo lo schieramento raccolto attorno al PD, comprendente più Europa, Insieme e Civica Popolare ebbe, sempre nei 20 comuni presi in esame, 229.724 voti pari al 22,03%. Siamo quindi fronte ad un incremento di 50.539 voti pari al 9,51%. Un riconoscimento, con tutta probabilità, al buon lavoro di alcuni Sindaci come ad esempio è accaduto in un centro importante come Brescia.
A sinistra del PD la presentazione elettorale del 10 giugno è risultato complessivamente episodica ed eccessivamente frastagliata, anche nella collocazione rispetto alle candidature.
In prevalenza abbiamo avuto la presenza di liste civiche di sinistra promosse, in parte, anche da candidati sindaci propostisi in termini soprattutto di “difesa dei diritti” e dei “beni comuni”. In qualche caso queste liste civiche hanno appoggiato candidati del PD, ma si è ritenuto di conteggiarle a parte proprio per la loro evidente connotazione politica.
In conseguenza: le liste civiche di sinistra hanno avuto 28.784 voti pari al 3,29%.
A sinistra la presenza autonoma maggiormente caratterizzata è stata quella di Potere al Popolo che ha presentato propri candidati sindaci e relative liste in 6 città (la lista di PaP non era presente in alcun altro comune capoluogo in appoggio ai candidati sindaci di altro schieramento. In un solo caso si è avuto un connubio PaP – S.I). Le liste (i nostri dati, è bene ricordarlo sono riferiti alle liste e non ai candidati – Sindaci proprio per l’intenzione di analisi direttamente politica con la quale è stato eseguito questo lavoro) di PaP hanno quindi ottenuto 4.137 voti pari allo 0,46% misurato sul totale dei voti validi.
Sinistra Italiana ha presentato liste con il proprio simbolo in 4 comuni con 2.256 voti (0,25%), Il simbolo di Leu e quello di MDP sono comparsi in 4 comuni per 6.124 voti (0,68%). Presente, un solo comune alla volta, una lista del PRC con 689 voti (0,07%), del PCI (ex-Comunisti Italiani) con 359 voti (0,04%) e del PSI con 212 voti ( 0,02%).
A parte la presentazione in 3 comuni del Partito Comunista di Marco Rizzo con 845 voti complessivi (0,09%).
Ricordiamo allora i voti e le percentuali raccolte da queste forze il 4 marzo scorso: Leu (che comprendeva MDP e SI) 40.237 voti pari al 3,85%; Potere al Popolo 13.836 voti ( 1,32%), Partito Comunista (Marco Rizzo) 4.010 (0,38%).
A destra con presentazioni sporadiche abbiamo trovato, il 10 giugno: Forza Nuova, un solo comune, con 548 voti (0,06%), Casapound , in 6 comuni, 2.429 voti (0,27%), e liste civiche d’appoggio (in 5 comuni) con 3.000 voti pari allo 0,33%). Da segnalare ancora in un solo comune la presenza della lista di Grande Nord con 289 voti (0,03).
Il 4 marzo, nei 20 comuni in questione, Casapound aveva avuto 10.345 suffragi pari allo 0,99% e Grande Nord 504 voti pari allo 0,04%.
In conclusione, aspettando di poter effettuare analisi più dettagliate anche rispetto al tipo di presenza realizzato dalle liste civiche, si può affermare:
1) Si è registrato un netto calo di partecipazione (rispetto al 2013 – 6% );
2) Le liste civiche, sia di appartenenza sia apparentemente “apartitiche” hanno ottenuto buoni risultati dimostrando di incontrare il favore dell’elettorato più incline a localismi per così dire “temperati”;
3) Il centro – destra, comprendendo la Lega, ha ottenuto una netta maggioranza. Pur tuttavia il partito di Salvini, nonostante l’incensamento dei media non appare in grado di produrre un livello di crescita tale da consentirgli di snobbare il quadro di alleanze all’interno del quale si è sempre tradizionalmente inserito. Il declino di Forza Italia continua, ma andrebbe valutato meglio appunto al netto delle liste civiche d’appoggio. Il voto di Fratelli d’Italia può essere giudicato usando il vecchio motto occhettiano dello “zoccolo duro”;
4) Sul PD si possono confermare i giudizi dei principali organi di stampa: esce malconcio, perdendo molto potere, ma ancora vivo. Forse sarebbe il caso per i democratici di guardare meglio al territorio;
5) A Sinistra prosegue la frammentazione che produce marginalità. L’unica forza che appare, sia pure in dimensioni limitate, provvista di una certa identità anche elettorale sembra essere Potere al Popolo ricordiamo che questa lista, almeno alle elezioni politiche era stata promossa dagli attivisti napoletani dei centri sociali, dopo il fallimento dell’assemblea del Brancaccio, cui avevano aderito, tra le principali formazioni, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani e Rete dei Comunisti);
6) Per il Movimento 5 stelle appare davvero presto scrivere già di elezioni di Midterm ma la composizione davvero arlecchinesca del suo elettorato raccolto come voto di protesta ha come conseguenza una estrema volatilità che si è già espressa, assieme al limite di presenze territoriali che si dimostrano davvero poco incisive.
7) L’estrema destra appare, almeno sul piano elettorale, sempre più ai margini del sistema.
lunedì 11 giugno 2018
domenica 10 giugno 2018
sabato 9 giugno 2018
venerdì 8 giugno 2018
Franco Astengo: Classe, consigli, blocco storico
CLASSE, CONSIGLI, BLOCCO STORICO di Franco Astengo
La dolorosa scomparsa di Pierre Carniti ha giustamente stimolato in molti compagni protagonisti con lui di una irripetibile stagione sindacale un insieme di importanti riflessioni.
In particolare, in alcuni interventi, si è rinnovata l’analisi sulla particolare dimensione che ebbe, in quel tempo, la lotta di classe (elemento totalizzante anche dal punto di vista della vita quotidiana per quanti s’impegnarono in quel contesto) e la trasposizione di questa in una espressione anomala dal punto di vista dell’organizzazione sindacale: i consigli.
Si può allora ancora sviluppare una riflessione di merito che può risultare utile a comprendere ciò che è stato e, di conseguenza, a fornire prospettive per l’oggi in una situazione che riconosciamo senza difficoltà apparire affatto diversa da quell’epoca.
In particolare il tema principale della discussione che emerge dalla riflessioni dei compagni riguarda le ragioni del “blocco” subito dalla strategia consiliare dopo l’autunno caldo, con la torsione negativa imposta dall’arresto del processo di unità sindacale avvenuto attraverso la costituzione della Federazione CGIL – CISL –UIL formata sulla base di organismi paritari fra le tre organizzazioni.
Si formò così a livello di categoria l’FLM: si aprì un dibattito sul “quarto sindacato”, dibattito che non decollò, i consigli furono relegati in fabbrica (pur continuando per un non breve periodo a rappresentare soggetti di grande rilievo per il riferimento di classe), ripresero fiato le appartenenze partitiche e le conseguenti logiche di componente: il tutto assumendo via via l’ingiustificato moderatismo della linea dell’EUR fino al passaggio topico del decreto di San Valentino.
In realtà il punto che intendevo introdurre in questa riflessione riguarda il fatto che l’esaurimento dell’esperienza consiliare e la relativamente modesta incidenza sugli equilibri sociali e politici del Paese è stata dovuta alla mancata possibilità che i consigli contribuissero sul serio alla formazione di un nuovo blocco storico, all’interno del quale sarebbe stato possibile – in quel momento – che risultasse egemone la dimensione della classe.
Un blocco storico agibile politicamente in luogo del sistema di alleanze sociali e politiche fino ad allora consolidate, a partire dall’unità delle sinistre (già incrinata con la formazione del centro – sinistra, ma ancora attiva nelle giunte locali e nella CGIL, attraverso lo schema delle rigide suddivisioni di componente)
Abbiamo avuto in quella fase, diciamo fino all’esplodere dello choc petrolifero di fine ’73, un vero e proprio disequilibrio nel quadro politico originato da una fortissima spinta sociale.
In quella breccia, come scriverebbe Edgar Morin, non si infilò nessuno nonostante sforzi generosi compiuti attraverso lo schermo della visione operaista o delle iniziative di “dissenso” avanzate sia da parte del movimentismo cattolico, sia di derivazione comunista.
La classe che era stata protagonista insieme della trasformazione del ciclo produttivo e di se medesima (almeno dal punto di partenza delle grandi migrazioni interne e dell’acquisizione della coscienza di classe all’interno della divisione del lavoro imposta dal ciclo fordista) irruppe dopo una lunga gestione (almeno da Piazza Statuto in poi) nel grembo della società che la accolse benevolmente provvedendo a mutare alcuni dei suoi più importanti canoni di riferimento nel costume quotidiano.
La politica, invece, si richiuse quasi immediatamente nel fortilizio della sua apparentemente immodificabile liturgia.
La politica “ufficiale” fu più tenera e condiscendente con gli studenti, nella convinzione di integrarne presto le ambizioni e rompere la saldatura con la classe operaia che, pure, nell’autunno del 1969 (almeno fino a Piazza della Fontana) si era dimostrata fattore di rivoluzionamento del quadro dato.
Se ci furono segnali di rottura politica(e ci furono) apparvero come semplici increspature di un mare piatto.
La “politica” e il suo sistema dei partiti si mosse per metabolizzare ciò che stava avvenendo e raccogliere soltanto i frutti maturi dell’aggregazione del consenso che le venivano offerti.
Eppure c’erano condizioni propizie per definire una svolta, ma la forza del patrimonio solidificato negli anni trascorsi dalla Resistenza in avanti si rivelò alla fine, almeno in apparenza vincente: ma mai vittoria si rivelò come quella foriera della sconfitta, presupposto di uno squassamento epocale che avrebbe percorso il ventennio successivo fino alla caduta di tutti i miti.
Il concetto di “blocco storico” rimase sostanzialmente inoperante soprattutto al riguardo della spaccatura verticale, ideologistica, verificatasi nel dopoguerra tra schieramenti politici: da un lato quello che prevedeva l’unità cattolico – conservatrice e dall’altro quello che prevedeva il limitarsi all’egemonia sulla rappresentanza che, per i suoi legami di massa e i suoi collegamenti internazionali,disponeva il partito che incarnava la classe operaia.
I consigli si ridussero (o furono ridotti) a soggetto tra gli altri del sistema di alleanze sociali del proletariato.
Alleanze tradizionalmente costruite come convergenze di interessi lesi anziché come unità degli interessi di classe portati nel vivo di una lotta politica coerente quale elemento fondante del progetto di trasformazione.
Su questo punto la FIM che pure appariva più aspramente rivendicativa della stessa FIOM perché maggiormente rappresentativa di quei settori di classe operaia che avevano modificato profondamente il loro essere (come ci è già capitato di segnalare nel corso di questo intervento) non riuscì a fornire un contributo determinante ad operare quel “salto” che era necessario.
Quanti potevano rappresentare una “rottura” del fronte cattolico – conservatore (ben dimostrato proprio dall’egemonia raggiunta dal soggetto significante l’unità politica dei cattolici) furono confinati (e/o si lasciarono confinare) all’interno della fabbrica oppure considerati, anche da chi avrebbe avuto l’interesse di muoversi diversamente, una entità strutturalmente minoritaria da integrare oppure da mantenere ai margini.
Stessa sorte toccò a chi si mosse per incrinare l’altro fronte, quello che automaticamente si auto designava interprete della classe operaia: presto fu decretata la qualifica di “dissenso” . Un dissenso addirittura da espellere dal proprio corpo storico.
La saldatura operai/studenti si tradusse, alla fine, soltanto nella formazione di gruppi e gruppetti dai quali uscirono certo atti di grande generosità collettiva ma anche male piante che avrebbero tormentato il cammino della classe in nome della quale si proclamava, artatamente, di operare e ne avrebbero ostacolata, in una dimensione probabilmente decisiva, il cammino.
Sul versante sindacale si sviluppò qualche tentativo per contrastare quello di stato di cose come fu,ad esempio, il varo, effimero, dei Consigli di Zona unitari ma il peso della “tripartizione dall’alto” li vanificò presto: in provincia, alla prima riunione nella quale si avanzò – ad esempio – un’idea d’appoggio al movimento dell’autoriduzione delle bollette – il C.U.Z. non fu più riunito e non si svolse alcun incontro successivo.
Egualmente, dal punto di vista della società, il movimento dei Consigli di Quartiere (che pure ebbe occasione di dar prova di grande capacità di mobilitazione in momenti di particolare difficoltà come quelli legati al terrorismo) fu presto inquadrato nella logica del sistema politico e non fu mai sciolto il nodo tra l’ essere il consiglio espressione diretta dei bisogni sociali oppure di un livello ulteriormente decentrato dell’amministrazione pubblica. La legge del 1976 stabilendo la nascita delle circoscrizioni da eleggere su liste di partito suggellò la chiusura dell’esperimento dei consigli di quartiere.
Ho sviluppato una ricostruzione sicuramente schematica e abborracciata, tesa soltanto a dimostrare che in quel tempo non fu posto il tema di fondo dei “consigli” come soggetto portante della costruzione di una blocco storico nuovo, come base di una saldatura sociale tra soggettività “storiche” e soggettività emergenti (dall’operaio – massa, alla studente – proletario: dalle femministe agli intellettuali capaci di rompere il quadro accademico consolidato).
L’espressione di una coerente critica alla modernità avrebbe forse reso possibile questo processo coinvolgendo ciò che stava avvenendo in fabbrica e ciò che stava mutando nella quotidianità.
Emerse invece proprio un limite di capacità critica e si arrestò la possibilità di esercitare un’estensione concreta della lotta di classe portata fino alla modifica delle espressioni politiche tradizionali.
Dei “se” e dei “ma” però “son piene le fosse”.
Si rientrò allora molto presto nell’ambito dello schema elettoralistico, della logica delle alleanze: si registrarono momenti fondamentali di modernizzazione nella vita civile del Paese ma alla fine fu delegato al “Governo” il processo di adeguamento ai nuovi tempi della società e della politica italiana.
Una logica di “Governo diverso”, di caduta della “conventio ad excludendum”, di inclusione del blocco sociale di riferimento dentro al gioco dettato dall’autonomia del politico.
Nel prosieguo di quella stagione, dentro gli anni’70 inoltrati, si ebbero ancora sussulti e ci fu chi cercò di organizzarli, si vissero momenti di grande tensione ma logica dominante era ormai quella dell’emergenza.
Non si trovò più il bandolo della matassa del rapporto tra espressione dei bisogni e sintesi politica, furono smarrite le coordinate dell’identità di classe e delle forme più adatte per esprimerla.
La stagione del riflusso era stata inaugurata, ben oltre quelle che apparivano come ancora alte capacità di mobilitazione di massa e confortanti numeri elettorali.
Non si compresero i termini della successiva ondata di cambiamento: certo non fu tutta colpa nostra, ma lo smarrimento di una riflessione, uno smarrimento colpevole, ci fu e agevolò prima di tutto la disgregazione sociale che l’avversario ci impose egemonizzando la natura del lavoro come finalizzata esclusivamente al consumo da parte dell’individuo.
Era stata persa l’occasione del provare a formare quel “blocco storico” che avrebbe pur potuto consentire di affrontare la temperie della trasformazione del modo di lavorare e di conseguenza di vivere imposto dalla controffensiva avversaria aperta negli ultimi anni del nostro secolo: di quel ‘900 del quale, in occasioni come queste dedicate necessariamente al ricordo, non possiamo non sentirci donne e uomini.
Un altro secolo: espressione ben diversa dal sospiroso “altri tempi!” che a volte si esclama aprendo il film del revival della gioventù.
Intanto le contraddizioni si inaspriscono e si allargano, contribuendo a immiserire non soltanto la condizione materiale di vita ma le fonti stesse del pensiero e nessuno o quasi osa più proporre e lottare per una alternativa.
Il resto della storia abbiamo continuato a viverlo in primissima persona durante questi primi anni 2000 e il suo drammatico epilogo sta sotto i nostri occhi, almeno di quelli dei sopravissuti al naufragio.
Il cambiamento sembra soltanto essere il prodotto di un più feroce egoismo, di un individualismo che ci mette in competizione gli uni contro gli altri soffocando inevitabilmente, in una eterna rincorsa, i più deboli storicamente per sesso, colore dei pigmenti, condizione sociale di partenza provocando prima di tutto emarginazione, sopraffazione, rassegnazione.
giovedì 7 giugno 2018
Emanuele Macaluso: LA LEZIONE DI UN LABURISTA INGLESE PER IL CENTROSINISTRA ITALIANO
LA LEZIONE DI UN LABURISTA INGLESE PER IL CENTROSINISTRA ITALIANO
Il dibattito parlamentare aperto dal discorso del Presidente del Consiglio si concluderà con la scontata fiducia al governo. L’opposizione di centrosinistra ha fatto al sua prima prova intervenendo criticamente su ciò che era stato detto e non detto dal Professor Conte. Ieri ho detto anch’io quel che penso. E debbo dire che sui giornali ho visto che critiche e pessimismo sono diffusi e i consensi scarsi. Tuttavia, sappiamo che la battaglia politica tra la maggioranza di governo e l’opposizione è solo iniziata e occorre capire se nel Paese questa opposizione crescerà e se le forze di cento sinistra saranno in grado costruire un’alternativa credibile. Il problema non riguarda solo il Pd ma tutti coloro, comunque collocati, oggi come ieri, che vogliono innovare e rilanciare una sinistra combattiva e di governo.
Martedì il Foglio ha pubblicato un’intervista a John McTernan, “esperto di cose politiche, colonna del New Labour targato Tony Blair, di cui fu consulente ufficiale negli di governo”. L’intervistatore è Federico Sonica, il quale si stupisce che “un blairiano doc si è iscritto a Momentum, il movimento radicale che in un paio di stagioni ha conquistato il Labour da sinistra e ha fatto eleggere Jeremy Corbyn”. Com’è noto, Momentum è stato animato soprattutto da giovani laburisti e comunque di sinistra. La risposta di McTernan è di grande interesse e dovrebbe essere meditata anche da chi ha posizioni diverse nel centrosinistra e vuole rianimarlo e rilanciarlo. Ecco: “Ero stufo di essere il vecchio arnese che diceva sempre No, non si può fare così. A un certo punto mi è capitato di avere una conversazione con un giovane sostenitore di Corbyn e di chiedergli cosa gli piacesse della sua piattaforma, e quando mi diceva delle sue proposte sul social housing io ribattevo che non erano realizzabili. Mi ha fatto capire che avevo il tono di quello che non si poteva cambiare più niente. Lì ho capito, in quanto progressista, che forse avrei dovuto cercare di sfruttare il nuovo entusiasmo di Momentum per ridare vita al Labour e alle mie idee. Non potevo essere diventato proprio io quello per cui non c’era più niente da fare”. Di fronte ad altre obiezioni dell’intervistatore, McTernan replica: “I giovani di Momentum hanno voglia di credere in qualcosa. Insomma, va tolto ai populisti, anche a quelli di sinistra, l’idea che ci sia una battaglia in corso tra idealisti ed entusiasti, loro, e pragmatici e manageriali, noi. Abbiamo una grande forza dalla nostra: l’esperienza nel saper trasformare in politica i reali bisogni della classe media e di quelle meno abbienti. Però bisogna concentrarsi meno sugli ultimi trent’anni, e questo vale sia per i nostalgici della Terza Via sia per quelli ossessionati dal cancellare Blair, e più sui prossimi trent’anni”.
Sono molti in Italia, nell’area del centrosinistra, che dovrebbero riflettere su queste cose dette dal laburista inglese, e soprattutto non dovrebbero parlare solo della crisi della sinistra, ma prendere un’iniziativa, iniziare un combattimento. È questo che ha fatto l’ex blairiano McTernan.
mercoledì 6 giugno 2018
martedì 5 giugno 2018
Capitalismo globale. Più diseguali di così, si muore - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
Paolo Bagnoli: Il vuoto e la totalità
il vuoto
e la totalità
paolo bagnoli
L’Italia è un Paese cui certo non difetta
l’innovazione politica. La nascita del “governo del
cambiamento” – formula rubata a Pier Luigi
Bersani, tanto per dare a ognuno il suo – ne è una
dimostrazione. A leggere i commenti dei vari
giornali un cambiamento ci sarà e sarà verso
destra; non è una novità: se il governo fosse nato
non poteva che essere questo lo sbocco. Oggi
l’Italia con il governo Salvini – Di Maio, ospite
gradito Giuseppe Conte, guadagna un primato
europeo; infatti siamo il primo grande Paese
europeo che ha alla guida due vere forze populiste
e demagogiche. Esse sono presenti anche in altri
Paesi europei, ma non hanno conquistato il
governo come da noi e, i due Paesi che hanno
governi simili al nostro – la Polonia e l’Ungheria -
destano inquietudine, sicuramente, ma non hanno
una rilevanza simile al nostro. Questa è la
democrazia. Il popolo ha votato e, in un vuoto
generale di politica democratica, il “partito della
rabbia” ha preso il sopravvento. E’ inutile ripetere
la litania dello “staremo a vedere” perché tutto ciò
che vedremo non potrà che essere di destra al di là
di qualche narrazione che si renderà necessaria per
ragioni di immagine e di consenso, soprattutto.
Anche se qualcosa di oggettivamente giusto sarà
fatto ciò non cambierà la realtà del regresso
culturale e civile della nostra democrazia già
abbastanza malridotta dopo la crisi di sistema
dell’inizio anni Novanta.
Il cambiamento, in parte, c’è già stato,
soprattutto per quanto concerne la prassi
costituzionale. Intendiamoci: bene ha fatto il
Presidente Mattarella – avvalendosi delle sue
prerogative - a negare l’accesso al Tesoro a Paolo
Savona. Le accuse infamanti che gli sono state
rivolte rilevano solo la sostanza di chi le ha
formulate, ma ci domandiamo perché, in tanto
conclamato rispetto della Costituzione, invece di
produrre tempo, il Quirinale non abbia prima
incaricato, secondo il peso dei voti riportati, i due
laeder di formare il governo. Se nessuno dei due ce
la faceva allora poteva passare a Giuseppe Conte
oppure tentare la soluzione Carlo Cottarelli.
L’incaricato che ce la faceva aveva l’onere di
comporre una maggioranza politica e un
programma a sostegno del governo che stava
nascendo. Invece è successo tutto l’inverso e, al di
là di ogni stato di necessità, mutare le prassi
costituzionali non è mai positivo. Non lo è in
generale; tanto meno in Italia ove ogni leader
tende a spostare sulla presunta inadeguatezza della
Carta la propria intima debolezza o smoderata
ambizione di potere. Matteo Renzi, naturalmente
docet .
E’ proprio dei governi di questa tendenza di
mettere mani nella Costituzione per trarne un
vantaggio. Lo hanno fatto il governo polacco e
quello ungherese e pure quello turco che continua
a stare con una gamba dentro e una fuori
dell’Europa. Pensiamo che cercherà di farlo anche
quello italiano. Già Salvini ha detto che il
presidente della Repubblica deve essere eletto dal
popolo; Di Maio, tanto per non smentire le
proprie infantili e incolte fanfaronate, ha gridato al
suo popolo “ora lo Stato siamo noi” e un certo
Nicola Morra, senatore calabrese, citando il
Manifesto per la soppressione dei partiti, ne ha dato
questa interpretazione “I partiti fanno gli interessi
di qualcuno, mentre noi siamo la totalità”. E
lasciamo perdere il colpo a effetto di Giuseppe
Conte quale “avvocato del popolo” – pensiamo vs
lo Stato – che dà la dimensione della cognizione
istituzionale che ha del proprio ruolo il neo
presidente del consiglio.
La crisi della infinita transizione della non
politica si attorciglia con forza su se stessa. Al
sorgere del nuovo fa da contraltare l’eclissarsi di
quanto resta: il Partito democratico e Forza Italia:
il primo travolto dal renzismo, il secondo dalla
decadenza politica di Silvio Berlusconi che
continua a parlare di un centro destra che non c’è
più, non vedendo la solitudine in cui si ritrova dal
momento che Salvini gli ha portato via Fratelli
d’Italia e pure il neoministro del Tesoro. Il
panorama è veramente desolante. L’unico che
applaude è Vladimir Putin che alla nuova e
crescente ondata di autoritarismo e di
indebolimento delle liberaldemocrazie europee è
oggettivamente legato per una specie di
eterogenesi dei fini: ossia lo svuotamento
dell’Europa quale soggetto politico. Va detto che
questa non fa niente per battere un colpo vero e
nemmeno si ripara dai colpi che le vengono
assestati, compresi quelli che provengono
dall’America trumpiana.
lunedì 4 giugno 2018
domenica 3 giugno 2018
sabato 2 giugno 2018
Sánchez alla guida del governo in Spagna, verso il monocolore socialista - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
Franco Astengo: 2 giugno
2 GIUGNO: REPUBBLICA E COSTITUZIONE di Franco Astengo
Nonostante il grande pasticcio che si sta comunque presentando sulla scena politica italiana credo vadano spese ancora alcune parole per ricordare l’anniversario del 2 giugno 1946: il giorno in cui l’Italia diventò repubblica cancellando la monarchia che l’aveva condotta alla dittatura e a due guerre mondiali, più a un’altra serie di guerre coloniali il cui tragico ricordo non deve essere perduto. In quel giorno, per la prima volta votarono anche le donne, furono elette deputate/i dell’Assemblea Costituente: da quel consesso, nonostante il profilarsi di una difficile e negativa coincidenza internazionale, scaturì la Costituzione Repubblicana. Un testo per il quale vale ancora la pena impegnarsi per affermarlo e difenderlo.
Due Giugno, festa della Repubblica: in quel giorno nel 1946, nacque la Repubblica e si crearono le premesse perché fosse elaborata, nel giro di due anni, la nostra Costituzione.
Oggi celebriamo la ricorrenza del 2 Giugno in un momento di effettiva difficoltà per la democrazia parlamentare messa in crisi ben oltre i termini nei quali la questione si era posta con le deformazioni costituzionali respinte dal voto popolare il 4 dicembre 2016.
Si è ancora tentato di sperimentare, proprio in questi giorni, una sorta di “Costituzione Materiale”, allo scopo di mutare il rapporto stabilito costituzionalmente tra Stato/Governo/Parlamento (quest’ultimo ormai escluso da ogni qualsivoglia capacità decisionale, dopo averne proclamato il recupero della “centralità”) in nome di una presunta “democrazia diretta” alla quale fare riferimento in forma totalizzante.
Vedremo meglio, in seguito, questi aspetti assolutamente fondamentali.
Vale la pena, allora, entrare nel merito dell'attualità di una difesa dei principi di fondo stabiliti dalla Costituzione Repubblicana, il cui stravolgimento potrebbe significare una pericolosa involuzione del quadro democratico.
Mi soffermerò, quindi, soprattutto su di un aspetto: quello della forma di governo, esaminandolo sul piano teorico, dell'inserimento della forma di governo all'interno del più ampio quadro delineato dalla forma dello Stato.
Nell'ordinamento giuridico italiano la Costituzione si colloca al vertice delle fonti, essa si trova, cioè, in una posizione primaria rispetto a tutte le altre leggi dello Stato quanto a forza, valore e contenuti.
In essa si riassumono , infatti, i principi fondamentali, organizzativi e spesso anche teleologici della comunità statale.
Diverse sono, però, le accezioni attribuite dalla dottrina al termine “costituzione”.
Da un lato, con il termine “costituzione” si suole indicare il complesso delle norme coessenziali allo Stato, per le quali, cioè, uno Stato è quello che è in un determinato momento storico; intesa così la costituzione si pone con lo stesso porsi dello Stato.
Secondo Costantino Mortati la parola “costituzione”, nel suo significato più generico “vuole designare quel carattere, o quell'insieme di caratteri, ritenuti necessari a individuare l'intima e più propria essenza di ogni entità, differenziandola dalle altre,e pertanto destinata ad accompagnarla in tutto il suo ciclo di vita. Si parla così di costituzione della materia, di costituzione della specie o dei singoli individui che entrano a comporle, sempre per designare la qualità, elementi o parti che, esprimendone la natura sostanziale e condizionandone il modo d'essere, rimangono costanti nel tempo, suscettibili di variazioni solo quantitative, necessariamente contenute entro un margine, al di là del quale verrebbe meno la stessa identità del soggetto cui si riferiscono”.
.
La nostra Costituzione, in quanto costituzione di uno Stato democratico – sociale, si presenta come patto tra varie forze.
Essa nasce, quindi, dal lavoro di un'Assemblea Costituente che vide la presenza di tutte le forze politiche, con un'articolazione ampia e particolarmente rappresentativa.
Il carattere compromissorio delle disposizioni, frutto di un accordo tra parti politiche di diversa ispirazione ideologica, è un elemento ineliminabile e intrinseco della Costituzione Italiana (quel “margine” cui si riferiva Mortati).
Un altro carattere fondante della nostra Carta Costituzionale è quello della “rigidità”: le norme costituzionali sono sottratte, per esplicito dettato (articolo 138) all’abrogazione o deroga, da parte di leggi ordinarie; la Costituzione Italiana è quindi legge prima e suprema di tutto l'ordinamento repubblicano.
Questo carattere di rigidità è, a un tempo, estrinseco, cioè relativo alle circostanze eccezionali che ne hanno maturato e fatto adottare la nostra Carta fondamentale e , insieme, intrinseco alle disposizioni che la compongono,particolarmente, ma non solo, quella prima parte,che concerne la garanzia dei diritti fondamentali di ogni cittadino.
Rigidità , come abbiamo visto, non vuol dire immodificabilità assoluta: essa è, infatti, ottenibile solo con un procedimento tutto particolare, rafforzato rispetto a qualunque altra legge o deliberazione degli organi dello Stato.
Vediamo brevemente come si sviluppa la normativa della nostra Costituzione: la parte prima è imposta sul criterio cosiddetto della “socialità progressiva”.
Ciò deriva dal fatto che dal titolo primo al titolo quarto vi è un progressivo ampliamento della persona sociale: dalla considerazione del singolo individuo, nelle norme concernenti i rapporti civili, si passa al contesto più ampio della famiglia e della scuola che sono contemplate nel titolo dedicato ai rapporti etico – sociali ; infine, ancora secondo un criterio progressivo, si disciplinano i rapporti economici e i rapporti politici.
Ed è proprio la disciplina dei rapporti politici a costituire un efficace coordinamento tra la prima parte e la seconda, dedicata alla definizione dell'ordinamento della Repubblica.
Ed è questo, del rapporto tra la I e la II parte della Costituzione, il punto su cui si colloca l'equilibrio più delicato che fu raggiunto dai Costituenti e che è stato totalmente trascurato, sia nei tentativi di deformazione falliti nel corso degli anni passati ma anche adesso nell’idea di imporre –come si è già accennato – una “Costituzione Materiale” fondata su di un presunto imperativo da “mandato popolare”.
Un equilibrio, quello tra la prima e la II parte della Costituzione, invece da conservare e arricchire, comunque attaccato da modifiche già avvenute come quella relativa all’articolo 81 sul pareggio di bilancio e al titolo IV della II parte sulle autonomie locali: variazioni delle quali si può esprimere sicuramente un giudizio negativo.
Lo stravolgimento del rapporto tra I e II parte della Costituzione ha rappresentato e continuerà a rappresentare l'obiettivo di coloro i quali intendo trascinare l'equilibrio politico italiano mirando alla formazione di un sistema del tipo di quelli che il politologo americano Colin Crouch, ha definito da tempo come di “post – democrazia”.
Scivola verso l’autoritarismo presidenzialista l’idea dell’ammodernamento necessario della democrazia costituzionale: un’ipotesi che rimane in piedi nonostante il fallimento di diversi tentativi già effettuati e ai quali ci si è già più volte riferiti.
Conservare, quindi,la relazione stretta tra costituzionalismo e democrazia.
Il discorso su costituzionalismo e democrazia, in questa fase di trasformazioni profonde, traversa necessariamente diverse tematiche, dalla forma di governo alla partecipazione politica.
Il tema dei rapporti fra organi politici s’intreccia, peraltro, a quello dei sistemi elettorali,sicuramente non dissociabile; e , insieme, al dibattito sulla rappresentanza politica, la sua funzione, la sua natura. .
E' un percorso a prima vista poco lineare, che traversa luoghi diversi, tutti però rilevanti ai fini dell'obiettivo che pare oggi fondamentale: indagare le sorti della democrazia.
Non penso a un futuro lontano, ma all'immediato, alle forme che la democrazia verrà assumendo in conseguenza di fattori di vario genere che già premono, alle limitazioni che potrà ancora subire anche sul piano della “cessione di sovranità” in termini sovranazionali: un processo che sta subendo, sia sul piano europeo sia planetario, una battuta d’arresto della quale deve essere tenuto conto.
Raggiungeranno, queste limitazioni, livelli tanto elevati da consentire unicamente la sopravvivenza della democrazia come “puro nome”? Potrà, la nostra, continuare a definirsi una “democrazia pluralista” o assumerà decisamente la natura di una “democrazia maggioritaria”, esercitata magari “a furor di popolo”? E soprattutto, questa è la questione di fondo che vorrei sottoporre al vostro giudizio, la democrazia si accompagnerà ancora ai principi del costituzionalismo che impongono la limitazione del potere?
Questi e altri interrogativi potrebbero riassumersi in uno solo, se lo Stato democratico di diritto sia destinato a continuare.
Il “futuro prossimo” può incidere su entrambe le qualificazioni dello Stato.
Dallo stato democratico, ad esempio, si potrebbe tornare a qualcosa di simile allo Stato rappresentativo, com'era la monarchia uscita dallo Statuto Albertino; oppure lo Stato Italiano, restando in qualche modo una democrazia (trasformata, magari, in democrazia maggioritaria, che è stata reclamata nel corso di queste settimane addirittura alla presenza di una formula elettorale in larga parte di tipo proporzionale usando addirittura la formula “Terza Repubblica”) potrebbe uscire dalla forma dello Stato di diritto.
Si deve così cercare di rispondere anche alla domanda circa il grado di partecipazione e di influenza del “popolo” sulle decisioni che interessano la collettività, verificando fino a che punto tendenze recenti alla costruzione di ibridi (attraverso manipolazioni più o meno vistose) finiscano per incidere sulla stessa forma dello Stato.
Si tratta di capire quanto l'influenza delle mutazioni della forma di governo sulla forma di Stato attraverso alterazioni degli elementi tipici dei suoi modelli, sposti i delicati equilibri su cui si fonda il sistema di relazioni istituzionali in una Repubblica parlamentare come quella voluta dai nostri Costituenti.
Ad esempio, intendendo la “democrazia maggioritaria” come orientata a che “l'indirizzo premiato dal voto popolare non trovi ostacoli istituzionali alla sua più completa attuazione”, si torna, in definitiva, all'idea dell'unicità e concentrazione del potere.
Tutto questo è avvenuto, sia ben chiaro,nel corso della più recente crisi di governo dalla quale se n’è usciti indubbiamente con una torsione di tipo “presidenzialista”.
Si tende, infatti, a realizzare proprio ciò che, per convinzione condivisa, è importante evitare: che il sistema sia “utilizzabile con esclusività, e quindi in via assoluta, da una forza sola o da un complesso organizzato più forte”.
Rivedere il punto iniziale del percorso tortuoso che ha condotto l'ordinamento costituzionale italiano all'incerta situazione attuale, può servire per comprendere meglio la realtà in cui viviamo, e a illuminarci circa le direzioni del suo movimento.
Nel corso degli anni'80 riprese quota il dibattito sul Presidente della Repubblica, in particolare sulla sua elezione.
Proprio quel dibattito sul presidenzialismo che ho trovato spazio anche nella più recente attualità.
La domanda è più interessante da porsi in questo momento può partire considerando che la Presidenza della Repubblica, di per sé, non era oggetto di discussione che, anzi (fino ad allora almeno) poteva dirsi sicuramente l'istituzione meno soggetta a critiche.
In altri tempi la proposta ricorrente era l'elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica che, si diceva, non solo avrebbe così acquistato un'autorevolezza maggiore, ma sarebbe divenuto maggiormente indipendente dai partiti.
Uno degli obiettivi reali di queste proposte appare evidente: tentare, attraverso l'aggancio all'elezione del Presidente della Repubblica, di semplificare il sistema politico. Dalla necessità per i diversi partiti di aggregarsi in due raggruppamenti ai fini dell'elezione presidenziale avrebbero potuto prendere vita due formazioni contrapposte e, dunque, il bipolarismo e l'alternanza.
Questo risultato, sperato ma eventuale, ne avrebbe comportato dunque un altro che era, invece, sicuro e temibile: la trasformazione del Capo dello Stato in un leader politico contro gli schemi del sistema parlamentare, la fine del suo ruolo neutrale e l'eliminazione della Presidenza come istituzione di garanzia.
Al di là dell'alterazione della forma di governo e delle relazioni fra gli organi costituzionali, l'elezione diretta induce inoltre una trasformazione sostanzialmente più grave: caricando il vincitore di una nuova forza, anche suggestiva, alimenta il mito del “Capo” e personalizza il potere.
Ho preso le mosse dagli anni'80 perché quelle idee nel tempo, hanno prodotto frutti come ora ben si vede proprio nella più stretta attualità.
Oggi siamo di fronte ad un disegno più sottile di modificazione dell’insieme di relazioni istituzionali Presidente /Governo/Parlamento tale da realizzare una “Costituzione Materiale” fondata appunto sull’idea della “totalità” del maggioritario intesa nel senso del presunto rispetto della “volontà del popolo”, evitando il piano della mediazione politica attuata dai corpi intermedi sia politici (i partiti) sia sociali (sindacati, associazioni di categoria).
Ci troviamo così dentro ad una fase nella quale si porrà di nuovo oggettivamente il tema presidenzialista.
Un tema che va di pari passo con la diffusione e il consolidamento del processo di “personalizzazione” del potere riversandosi sulle altre istituzioni monocratiche dai Presidenti di Regione surrettiziamente definiti “Governatori” ai Sindaci.
Con le conseguenze che si sapevano, e che da molti si volevano.
Conseguenze che già incidono sul livello di democraticità del sistema: alcuni interessi sono rimasti senza voce, altri, pure significativamente rappresentati, senza più forza contrattuale.
Gli interessi forti, viceversa, sono diventati invincibili (anche, e forse soprattutto, in sede locale).
Così si scivola nella teoria di Carl Schmitt situata agli antipodi dell’ispirazione parlamentare della nostra Costituzione Repubblicana.
Proprio Schmitt appare l’ispiratore principale dei principi politici che reggono la nuova maggioranza di governo uscita dalle urne il 4 marzo 2018: Infatti, a partire dal saggio su Il concetto del politico Schmitt è convinto che l’essenza del politico – in netta polemica col positivismo giuridico, per il quale il politico è definito in base al concetto di Stato, poi a sua volta definito in base al concetto di politico – stia nella possibilità di distinguere tra chi è amico e chi è nemico. Lo Stato organizza gli amici e li attrezza in maniera adeguata per affrontare la minaccia proveniente dai nemici: ben si capisce, allora, come sovrano sia chi decide su chi è amico e chi è nemico. Tutte le decisioni politiche avvengono in questa maniera: la decisione come tipo originario fonda sempre un ordine a partire da una minaccia che ha una valenza intrinsecamente politica. La decisione del sovrano avviene sempre in uno stato di eccezione (proprio come si è cercato di far apparire proprio in questi giorni): e Schmitt rileva come il normativismo alla Kelsen funzioni soltanto là dove c’è già una normalità dei rapporti e il conflitto è stato risolto; infatti, non è la norma a creare la normalità, ma, piuttosto, è la normalità a rendere possibile l’attuarsi della norma.
Ho già sottolineato come le forma di governo normalmente considerate dagli studiosi, anche ai fini di comparazione (parlamentare, presidenziale, direttoriale, assembleare) sono le forme di governo compatibili, con la nostra forma di Stato e rientrano tutti nel quadro dello Stato democratico di diritto; i modelli conosciuti sono studiati in modo, appunto, da porre limiti al potere.
Repubblica democratica (articolo 1 della Costituzione) è una formula che impone la valutazione della rappresentanza prima ancora dei meccanismi diretti a rendere blindato l'esecutivo, meccanismi di rafforzamento ammissibili solo se e fino a che non si scontrino con il principio democratico, cardine del sistema; e sicuramente l'elezione popolare non basta a fare di un organo monocratico un rappresentante.
Democrazia e rappresentanza, insieme al rispetto delle regole dello Stato di diritto, costituiscono limiti insuperabili sui quali non è possibile cedere alcunché.
Nel nostro Paese il disprezzo delle regole e dei limiti dello Stato di diritto è di giorno, in giorno, più grave e frequente.
Democrazia e costituzionalismo, appaiono parimenti a rischio.
La limitazione del potere (ossia il senso profondo dello Stato di diritto) è già fortemente incrinata, anche per via del peso delle imposizioni sovranazionali derivanti dai Trattati Europei, al riguardo dei quali non s’intravvede spiragli di modificazione per l’assenza di un progetto di democratizzazione come sarebbe indispensabile approntare. L’unico progetto in campo (e massicciamente) è quello populisticamente distruttivo dell’estrema destra nazionalista presente in Occidente ma al potere nei paesi del gruppo di Visegrad. Il recente esito elettorale italiano potrebbe anche spostare questo livello di equilibrio.
Sta venendo meno l'equilibrio complessivo, basato sul pluralismo politico e quindi su di un sistema di differenziazione assai articolato e complesso di garanzie pensate in rapporto ad un pluralismo interno alle altre istituzioni.
Una situazione siffatta vanifica nella sostanza gli obiettivi del costituzionalismo, riproducendo la concentrazione del potere che esso voleva distruggere: concentrazione di potere politico, economico e, ovviamente, del potere d'informazione, oggi determinante.
A prescindere, infatti, da altre considerazioni, nella società delle comunicazioni di massa e delle più elevate tecnologie a disposizione del potere politico, l'esito totalitario viene comunque considerato
uno dei rischi più immanenti allo sviluppo della società contemporanea.
Proprio per questo motivo ho voluto soffermarmi ,nel quadro ampio del processo revisionistico che si è tentato di realizzare in Italia sul tema della forma di governo invitando, infine,a considerarlo anche in una prospettiva più ampia: a livello planetario. Infatti, situazioni complesse poste a livello delle superpotenze aprono interrogativi inquietanti che riguardano in primo luogo la democrazia, al punto da farci pensare che la nostra idea di resistere, qui in Italia alla periferia dell'impero, sul nesso tra democrazia e costituzionalismo non rappresenti, semplicemente, un piccolo gesto di provincialismo ma abbia un significato molto più ampio.
Un punto da rammentare proprio in occasione della ricorrenza del 2 giugno 1946: il giorno nel quale il voto popolare sancì il distacco dalla monarchia e l’avvento della Repubblica.
Franco D'Alfonso: Salvini e i 5 miliardi da tagliare
Franco D'Alfonso
7 min ·
Cominciamo subito con quello che deve essere il metodo dell'opposizione : denunciare con argomenti quello che farà il governo, spiegare cosa si è fatto in passato e l'eventuale probabile errore commesso, dare la visione alternativa.
Il ministro Salvini ha spiegato che darà "una sforbiciata ai 5 miliardi che spendiamo per l'accoglienza" per spostarli sulle pensioni degli italiani. A prescindere dal giudizio politico, si tratta come sempre di una promessa impossibile basata su falsità evidenti. La spesa per l'accoglienza di 4,7 miliardi, da un punto di vista del bilancio, è finanziata per 3,4 miliardi dalla flessibilità sul calcolo della spesa pubblica concessa dall'Unione Europea , che finanzia con propri fondi quasi tutta la differenza. Ciò significa che quei fondi, ove non fossero destinati all'accoglienza, sparirebbero dal bilancio, non influirebbero sul debito e soprattutto ridurrebbero il PIL italiano dello dello 0,2 per cento. Tralascio le altre conseguenze
Significa che va bene così ? No, perchè l'intera struttura dell'accoglienza è stata costruita con la logica dell'emergenza, perchè i flussi non sono preventivabili e ci si deve dimensionare sulle "punte" e non sulla media . Se 30/40 euro al giorno di costo per la prima accoglienza dei profughi è una cifra più che accettabile per periodi brevi di assistenza, è straordinariamente fuori standard per gli anni di permanenza con status di attesa che ci vogliono in Italia.
Si poteva fare diversamente ? Tendenzialmente sì, perchè sono anni che questo tipo di immigrazione incontrollata esiste e la massa di quelli che la Bossi Fini costringe ad essere clandestini a vita ed i loro "figli" Salvini e Meloni vogliono espellere ( per i 600 mila di cui parlano ci vorrebbero 27 anni di voli giornalieri verso non si sa dove) , avrebbe dovuto suggerire di trovare una soluzione ordinaria e stabile, senza gonfiare a dismisura l'azione ( ed i bilanci) delle organizzazioni nate per gestire l'emergenza per migliaia di persone e non il vitto ed alloggio per centinaia di migliaia che non possono per legge nemmeno lavorare.
Si può fare una proposta diversa ? Certamente, magari partendo da quella che Milena Gabanelli fece l'anno scorso, utilizzare 4 dei 5 miliardi destinati all'emergenza per creare un servizio pubblico di accoglienza, sullo schema di quello tedesco, austriaco o svedese , con formazione "civica" e professionale fatta da insegnanti della scuola pubblica, permessi temporanei di lavoro nelle amministrazioni pubbliche locali e nazionali . A regime, con la stessa spesa, si incrementerebbe l'occupazione in Italia di 30 mila addetti a tempo indeterminato ( cittadini italiani, per la felicità dello stesso Salvini, dal momento che nella PA sono i soli a poter essere assunti ), si incrementerebbe la qualità e la quantità di servizi per i cittadini non più sostenibili con i bilanci propri delle singole amministrazioni senza costi aggiuntivi ( il salario ai richiedenti asilo per il periodo temporaneo rientra nel globale di 4 miliardi ) e, fatto non disprezzabile, si incrementerebbe il PIL dello 0,2/ 0,3 per cento all'anno.
L'opposizione di centrosinistra dovrebbe smettere di inseguire le parole d'ordine di Salvini perchè "la pancia" etc, ricordandosi che compito della politica è dare indirizzi e fare proposte, non dire al popolo ciò che il popolo vuol sentirsi dire; non dovrebbe aver paura di affrontare con il Terzo Settore, essenziale nella gestione dell'emergenza, una ridefinizione del modo di operare e non lavorare sempre su richieste ( e finanziamenti) incrementali ; strutturare una proposta completa e meditata e chiedere il consenso (anche) su quella.
Semplice, no ? Si chiama politica radicalmente riformista...
venerdì 1 giugno 2018
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