giovedì 17 agosto 2017

Lorenzo Borla: Alcune osservazioni sull'Iri

ALCUNE OSSERVAZIONI SULL’IRI Nel 1980 l'Iri era un gruppo di circa 1.000 società con più di 500.000 dipendenti. Nei precedenti anni Sessanta e Settanta, mentre l'economia italiana cresceva a ritmi elevati, l'Iri fu tra i protagonisti del "miracolo" italiano. Altri Paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla "formula Iri" come ad un esempio positivo di intervento dello Stato dell'economia, migliore della semplice "nazionalizzazione", perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e privato. Le obbligazioni emesse dall'Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori. Giuseppe Petrilli, presidente dell'Istituto per quasi vent'anni (dal 1960 al 1979) nei suoi scritti elaborò una teoria che sottolineava gli effetti positivi della "formula Iri". Attraverso l'Iri le imprese controllate dallo Stato erano utilizzabili per finalità sociali, nel senso che lo Stato doveva farsi carico dei costi e delle diseconomie generati dagli investimenti. Non solo, ma uno degli scopi di una industria di Stato come l’Iri era quello di contribuire alla massima occupazione. Insomma, l’Iri non doveva necessariamente seguire criteri imprenditoriali nella sua attività, ma investire secondo quelli che erano gli interessi della collettività anche quando ciò avesse generato "oneri impropri", cioè perdite economiche, che andavano a carico dello Stato. All'Iri vennero richiesti ingenti investimenti anche in periodi di crisi, quando i privati riducevano i loro. Lo Stato erogava i cosiddetti "fondi di dotazione" all'Iri, che poi li allocava alle sue società caposettore sotto forma di capitale; ma tali fondi non erano mai sufficienti per finanziare gli investimenti richiesti e spesso venivano erogati con ritardo. Di conseguenza l’Istituto e le sue aziende dovevano finanziarsi con l'indebitamento bancario, che negli anni settanta crebbe a livelli vertiginosi: gli investimenti del gruppo Iri erano coperti da mezzi propri solo per il 14%; il caso più estremo fu la Finsider dove nel 1981 questo rapporto scendeva al 5%. Gli oneri finanziari, oltre ad altri fattori, portavano in rosso i conti dell'Iri e delle sue controllate. In particolare, la siderurgia e la cantieristica riportarono perdite fino agli anni ottanta, così come costantemente pessimi eranoi risultati economici dell'Alfa Romeo. Nel luglio 1992 l'Istituto fu convertito in Società per azioni. Tra il 1992 ed il 2000 furono privatizzate tutte le partecipazioni che avessero un valore di mercato. Le poche aziende (Finmeccanica, Fincantieri, Alitalia e Rai) rimaste in mano all'Iri furono trasferite sotto il diretto controllo del Tesoro. Nonostante alcune proposte di mantenere in vita la Iri Spa, trasformandola in una non meglio precisata "agenzia per lo sviluppo", il 27 giugno 2000 la società Iri Spa fu messa in liquidazione e nel 2002 fu incorporata in Fintecna, scomparendo definitivamente. E’ opportuno ricordare il contesto del 1992: il governo Amato, nella notte tra il 9 ed il 10 luglio operò un prelievo forzoso del 6 per mille su tutti depositi bancari. La preoccupazione era il default dello Stato: ovvero che mancassero i soldi in cassa per pagare gli stipendi dei dipendenti e gli interessi sul debito. Il debito pubblico, che nel 1970 era al 37,11% del Pil, e nel 1980 al 56,08 %, era arrivato, nel 1992, al 105,09%. La preoccupazione del default spiega l’ansia di dismissioni della proprietà pubblica al fine di mettere al sicuro le casse dello Stato. Tra il 1992 ed il 2000 l'Iri vendette partecipazioni e rami d'azienda, che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, di 56.000 miliardi di lire, cui vanno aggiunti i debiti trasferiti. Non c’è dubbio che da un punto di vista politico, per chi crede nello Stato socialista, la privatizzazione dell’Iri è stato un errore gravissimo. Lo è stato certamente per quanto riguarda le attività sane, cioè profittevoli, che pure c’erano: per esempio la Stet/Telecom, finita in balia della gestione scellerata dei “capitani coraggiosi”. Oppure, sempre per esempio, la società Autostrade (un monopolio naturale) finita ai Benetton per un pugno di dollari. Non solo: molte società della galassia Iri, se gestite con criteri manageriali, avrebbero potuto, coi propri utili, dare un contributo non marginale alle casse dello Stato. Insomma, fu preferita la disponibilità dei “pochi, maledetti e subito” a quello della profittabilità a lungo termine. Resta da decidere però se aziende competitive sul mercato, senza aiuti statali, gestite con lo scopo di fare profitti, avrebbero assolto ai criteri della “formula Iri” di Giuseppe Petrilli. In conclusione (una conclusione sintetica aperta a infiniti approfondimenti e valutazioni): io non sono al corrente se un conto economico dei costi e dei benefici del gruppo Iri, dal dopoguerra fino al 2002 (anno in cui cessò di esistere) sia mai stato fatto. O se sia possibile farlo. Ci sono da registrare, in negativo, le perdite cumulate dalle società del gruppo in una cinquantina d’anni; a cui bisogna aggiungere le esenzioni, le sovvenzioni, le iniezioni di capitale. Questi oneri per lo Stato non furono mai sostenuti dalle varie “finanziarie” su base annua: bensì semplicemente messi in conto al debito pubblico. In positivo (e qui una valutazione economica è molto difficile) bisogna mettere il grandissimo contributo dato dall’Iri allo sviluppo dell’Italia del dopoguerra, incluso l’aspetto occupazionale. Che cosa ha significato per l’economia del Paese, nei cinquant’anni considerati, un numero ingentissimo di occupati, ovvero di famiglie con una ragionevole capacità di spesa?

1 commento:

luigi ha detto...

Belin ... compagno Borla cosa sento.
Il debito pubblico è schizzato su dal divorzio banca d'Italia Tesoro
fatto nel 1981 da Andreatta e il pio Ciampi. Cercò di mettersi di
traverso Formica ... inutilmente ... la separazione restò ... e gli
interessi da pagare sui BOT salì in verticale ... poi la mannaia a
completare il disastro è stata la legge sulla privatizzazione delle
nostre banche circa il 74% in mano pubblica passata a non si sa chi
ma di privati penso istituti finanziari multinazionali ... il debito
pubblico schizzò ancora nonostante le svendite di imprese servizi e
banche.
Lo Stato senza imprese, senza banche e servizi ha dovuto fare ricorso
a indebitamento con banche non potendo calmierare gli interessi dei
BTO e effetto perverso dell'obbligo di pareggio di bilancio in
Costituzione nonchè accettazione parametri rapporto debito PIL sotto
il 3% ... senza poter più manovrare economia servizi pubblici banche
pubbliche, pagamento di euro come se fosse un qualunque debitore
privato ... ebbene così lo sfracello è garantito.
Il debito pubblico aumenta per gli interessi che si devono pagare con
il tasso a interesse composto - anatocismo - dovuto a banche private.
Unica possibilità tagliare drasticamente gli interessi acquisiti
impropriamente. Meglio nazionalizzare un bel tot di banche e
riprendersi il governo della moneta da parte del potere publico ...
la scelta aurea sarebbe che la BCE passasse sotto il controllo
pubblico degli Stati dell'Euro ... ma se non sarà così qualcuno a
destra provvederà al ritorno della lira e sarà fuori uscita
dell'euro se non anche dall'Ue.
Tempi duri compagne e compagni.