venerdì 12 febbraio 2016

Paolo Zinna: Le primarie e l'equivoco arancione

Fino al voto, non ho voluto inserirmi nel dibattito sulle Primarie e sui candidati: non volevo che le mie osservazioni venissero lette come sollecitazioni a votare o non votare questo o quello, cosa che, credetemi, non era proprio nelle mie intenzioni. Per correttezza verso di voi, premetto di aver votato per il candidato Sala – ho deciso così semplicemente perché mi pare quello che può essere il migliore come sindaco di Milano, fra i candidati che sono stati in campo a febbraio. Ancor di più mi aveva convinto la candidatura di Emanuele Fiano che, alle qualità di concretezza e fattività di Sala, avrebbe potuto aggiungere un’ampia visione politica generale, che per adesso, lo ammetto, non può ancora essere data per certa nel candidato vincente. Entrambi questi nomi hanno posizioni politiche generali abbastanza lontane dalle mie? Verissimo, ma di questo non ho visto conseguenze di questo in ciò che si proponevano nell’azione amministrativa in Comune. Di fatto, né a Fiano né, mi pare, a Sala manca la sensibilità sociale, la tensione verso l’equità, l’attenzione verso il disagio. Non nego che anche i loro competitors si sarebbero proposti obbiettivi simili, o magari anche traguardi più avanzati – io mi sono sentito sento più garantito da loro nell’attendermi che alle buone intenzioni segua anche la capacità di realizzare. Meno parole di sinistra, forse, ma più fatti di sinistra. Ma si è detto: queste primarie sono anche un congresso politico, pro o contro Renzi e il partito della Nazione. Lo sarebbero state, se da un lato avessimo avuto un politico supinamente allineato al premier, e dall’altro uno schieramento capace di far discendere dalla sue tesi generali una visione alternativa della città. Mi pare che nessuna di queste due condizioni si sia verificata, per ora. Sala, semplicemente, si preoccupa di problemi diversi da quelli che in Parlamento contrappongono Renzi alla sinistra. Quanto alla visione alternativa di città, non mi pare che la giunta Pisapia abbia prodotto granché in merito (parlo di visione alternativa, non di buona amministrazione). Del resto, riconoscerete che in queste settimane, nelle prese di posizione dei candidati e negli abbozzi di programma, emergevano da tutti gli stessi nodi: casa – quartieri periferici – efficienza della macchina comunale – rapporto positivo coi nuovi cittadini – attrattività della città e supporto all’innovazione. Milano sa benissimo quali sono i problemi da risolvere, la differenza, a mio parere, la può fare la capacità di risolverli davvero. Se il candidato alternativo fosse stato soltanto Pier Majorino, potrei fermarmi qui, con una serena valutazione delle differenze e … che vinca il migliore! [E merita rispetto il suo lineare comportamento, da uomo seriamente convinto del proprio progetto, al di là di ogni tatticismo di breve periodo - Concetto questo da spiegare anche a quei sostenitori di Sala che incitavano strumentalmente Majorino a restare in campo, cosa che non mi sono mai permesso di fare]. Ma da più di vent’anni a Milano alligna anche una “sinistra” diversa. Una “sinistra” molto poco popolare, molto sensibile ai diritti civili, molto meno ai temi sociali. Molto giustamente attenta al rispetto delle regole di legalità e anche di eleganza nei comportamenti politici, molto meno preoccupata delle condizioni strutturali sottostanti ai fenomeni anomali. Molto attiva sui social, meno presente nei quartieri, specie se sono quartieri disagiati. Per tradurla in battute: si scandalizzano se un giorno i cinesi vanno a votare organizzati dai notabili della comunità, il giorno dopo si dimenticano di chiedersi se, guarda caso, durante tutto l’anno la vita delle comunità etniche non sia governata da quei notabili. Una “sinistra” che, per esempio, ha del sindacato la stessa considerazione che ne ha Matteo Renzi. In effetti, chi ha questa sensibilità, non ama i corpi intermedi, aborre in particolare i partiti e soprattutto il PD, non concepisce di poter rinunciare in qualche aspetto al proprio specifico punto di vista se questo non è condiviso dalla propria comunità politica; anzi, non si riconosce in alcuna collettività politica. Si potrebbe definirla “la sinistra di quelli che sanno di essere bravi e carini”. Al vertice, sostenuti da questa sensibilità diffusa, ci sono gli ottimati progressisti, quelli onestamente convinti che le opinioni di 51 fra di loro su chi debba essere il prossimo sindaco abbiano più diritto di essere ascoltate di quelle di 51 anziani pensionati di un quartiere periferico. (Senza malevolenza, devo dire che non riesco a spiegarmi come questo atteggiamento possa in qualche modo venire ricollegato alle esperienze del socialismo riformista, municipale o no, quello della CGdL e delle cooperative. Sinceramente, non arrivo a capirlo). Nel movimento che ha portato alla vittoria di Pisapia nel 2011 c’era tutto questo, ma non c’era soltanto questo. C’era una genuina ansia di liberazione da un’atmosfera cittadina grigia, da un ceto politico interessato e ormai con poche idee, da un provincialismo talvolta imbarazzante. C’erano anche energie economiche e imprenditoriali pronte a mettersi in gioco, c’era speranza e voglia di politica come non si vedeva da tempo. Dopo le primarie, c’era persino il PD. Tutto queste cose insieme hanno fatto il movimento arancione, che ha creduto di identificarsi in un Pisapia mitico, indipendente da quello reale; caratteristico il fatto che, negli anni, la popolarità degli assessori sia risultata bassina, ma quella del sindaco sempre molto alta. E caratteristica anche la delusione che oggi molti provano per “Giuliano”, senza volersi render conto di essersi aspettati troppo da un sindaco, da un buon sindaco: si può essere un buon sindaco e condurre una consiliatura complessivamente positiva anche se non si è perfetti e si fanno anche scelte sbagliate o insufficienti, anche se si sbagliano tempi e modi del phase out. Su questa mitologia confusa sono stati insieme i Comitati per Pisapia e gli ottimati, Limonta e Repubblica e Marco Vitale. Questo pasticcio, tra l’altro, è perfettamente espresso da SEL Milano, che, alla prova di un passaggio politico difficile, ha fatto contemporaneamente tutte le scelte possibili. Le vicende di quest’anno invece sono state sì un “congresso”, ma non un congresso politico (Sala non è più “renziano” di quanto lo sia De Luca o Emiliano o Crocetta, o lo stesso Fassino). Direi che c’è stato un “congresso sociologico”: la Milano della concretezza e dei fatti e la sinistra popolare (Sala e Majorino) contro gli ottimati e la sinistra dei carini. Trovo la migliore spiegazione in un articolo di Jacopo Tondelli: “da una parte noi, riformisti, pronti al compromesso politico, coscienti che senza una dialettica vera coi poteri economici non fai nulla e non fai progredire niente e nessuno. Dall’altra parte, loro: alto-borghesi nati ricchi, progressisti per lascito testamentario di padre in figlio, schifati dalle plebi prima democristiane e poi berlusconiane. Chi vince governa, chi perde il congresso, in forma di primarie, se ne va a casa, per sempre.” A me sembra chiarissimo: questa vicenda ha separato l’acqua e l’olio nell’emulsione arancione. Ma non sono sicuro che l’ultima frase citata sarà vera. Sento parlare di liste Balzani in appoggio a Sala, di SEL che forse resta, forse va, ecc, ecc. Preferirei di molto che la coalizione di Sala comprendesse invece Basilio Rizzo e Rifondazione: non la penso come loro ma, almeno, essi si ricollegano alla tradizione della sinistra seria e severa.

1 commento:

claudio ha detto...

finalmente un milanese di buon senso che sulla scelta del sindaco non scarica le sue velleità escatologiche....