mercoledì 29 luglio 2009

Paolo Borioni: Elogio della socialdemocrazia

Elogio
della socialdemocrazia
>>>> Paolo Borioni
Il fine del socialismo europeo non è
mai stato allargare l’economia pubblica,
strumento anche fascista, democristiano,
conservatore e perfino liberale.
La socialdemocrazia consiste nel
dimostrare che migliorando (secondo le
possibilità date: da cui il riformismo) le
condizioni di vendita della manodopera
salariata si eleva la resa dell’intera economia.
Da cui il suo socialismo, e perfino
il suo marxismo. Ma anche il fatto
che le socialdemocrazie non sono partito
di classe.
La difficoltà a realizzare questa funzione
sul piano europeo è all’origine della
crisi attuale del socialismo nella Ue.
Esso è rimasto coinvolto in un dibattito
europeo tutto incentrato su costituzione,
confini (Turchia sì, Turchia no),
gestione della moneta. Perciò si è confuso
in una situazione ansiogena, in cui
tutto migra (la sovranità, la norma
costituzionale, i confini, il lavoro) ma
non si capisce ancora per approdare
dove.
Tale situazione ansiogena premia di più
destra, astensione e populisti, che
pescano nei ceti popolari già socialdemocratici.
E ciò accade appunto perché
i socialisti europei non riescono a porre
la questione sociale (del salario, dell’occupazione
e della crescita) al centro
della Ue. Per questo stesso motivo essi
non sono ancora riusciti a porre la propria
impronta sul governo della recessione
mondiale. Ma verranno altre
occasioni. Per ora si è nella fase in cui
è acclarata e accettata la fine della globalizzazione
sregolata basata sugli Usa
ritenuti “mercato perfetto”. A questa
fase la destra si è ben adattata con tendenze
“rinazionalizzanti” (più che altro
dichiarate) che per la verità, come
mostra bene Tremonti, sono perfettamente
nelle sue corde “storiche”.
Esaurita l’epoca dei primi provvedimenti
si va profilando la seconda fase:
quella delle “regole” alla finanza.
Anche su questo terreno la socialdemocrazia
non riesce del tutto a recuperare
i propri consensi, né ad apparire davvero
diversamente indispensabile rispetto
alle altre forze politiche. Ma da queste
due fasi pare emergere un clima politico
diverso, anche perché fuori d’Europa
la sinistra domina nelleAmeriche, in
Australia, in India, in Sudafrica. La
vera chance socialdemocratica (proprio
come avvenne dopo la crisi del ‘29)
potrà quindi profilarsi nella terza e successiva
fase: quando si verificherà che
non bastano nuove regole, ma occorre
costruire un nuovo modello di lavoro,
di crescita e d’investimento.
Certo, la situazione per ora è critica.
Crisi però non significa sfacelo. E sulla
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distinzione analitica fra crisi e sfacelo
(poiché crisi è tipicamente anche
opportunità) si basa questo scritto. Berta,
nel suo Eclisse della socialdemocrazia
compie invece un’analisi funerea.
Essa ha un merito: comprendere come
la semplice teoria della “employability”
blairiana (che rinuncia a riformare il
capitalismo, e si limita a creargli intorno
le politiche per fargli trovare manodopera
“impiegabile”) sia stato un grave
limite del riformismo europeo dell’ultimo
ventennio. Ma anche Berta ha
un limite: si concentra troppo su come
il modello Blair-Giddens abbia colonizzato
la pubblicistica europea. Blair pensava
che ad un mercato perfetto occorresse
solo un welfare inteso come
“aggiunta morale”. Invece è proprio il
modello economico ad essere scoppiato.
Ed è di qui che occorre partire.
Nell’ultimo trentennio, sia per via di
forze oggettive dell’economia (la sempre
maggiore mobilità del capitale), sia
per scelte ideologiche espressamente
compiute (l’abolizione dei controlli su
banche e finanza) si è predicata e praticata
la fine del “capitalismo paziente”.
È una definizione usata dallo specialista
tedesco di sindacato Jürgen Hoffmann,
e significa in sostanza che da
parte capitalistica è intervenuta una crescente
indisponibilità a maturare competitività
e profitti costruendo rapporti
sociali, domanda, welfare, investimenti
selettivi assieme alle forze organizzate
della democrazia e del lavoro. Una
indisponibilità che è stata evidente, ma
solo parziale e graduale nell’Europa
continentale, perché il capitalismo
paziente rimane qui legato ad un’identità
industriale ancora viva. Che viceversa
va scomparendo nel mondo
anglosassone, dove si è sempre più preferito
l’investimento finanziario, se non
apertamente predatorio. Per questo si è
sempre di più accettato di investire in
produzioni e servizi solo con “impazienza”,
ovvero in modo sempre più
simile alla totale libertà del capitale vissuta,
o percepita, nella finanza del turbo-
capitalismo. L’effetto che riguarda
da vicino la socialdemocrazia è stato il
seguente: salari ridotti (come in Germania
e più drammaticamente in Italia),
maggiore flessibilità del lavoro e nessuna
gestione della domanda.
Del resto quest’ultima sarebbe stata
possibile, come bene intuito da Delors,
solo sul piano europeo e solo selettivamente:
investendo in infrastrutture
innovative continentali. La risposta
socialdemocratica, poiché non è stata a
suo tempo accettata la ricetta di Delors,
non ha più potuto programmare la crescita.
Perciò, negli anni ‘90, le socialdemocrazie
hanno aggiornato quella
che era sempre stata e sempre sarà la
loro principale caratteristica socialista,
ponendola sempre più sul lato dell’offerta:
impedire per quanto possibile,
tramite relazioni industriali e welfare,
che la competitività venisse realizzata a
danno del lavoro dipendente. E dimostrare
che invece “decommodificando”
(vedi Gøsta Esping Andersen), ovvero
migliorando le condizioni della vendita
di lavoro, si poteva competere anche
meglio. Tutto il welfare aiuta a non
doversi svendere a qualunque costo.
Ma chi, come l’Olanda e i paesi nordici,
ha investito da sempre in politiche
attive del lavoro è riuscito a implementare
ancora meglio questo principio. E
dunque in questi paesi si è dimostrato
che il welfare è importante anche in
epoche di mero supply side e di globalizzazione,
per cercare verso l’alto le
nicchie della propria competitività. Il
che è un bene per tutti, specie perché
aumenta la percentuale di “buoni lavori”.
Altrove, come nel Regno Unito, si
investe pochissimo in queste politiche,
e si usano invece i redditi di disoccupazione
solo come sopravvivenza, se non
come oggetto di sanzione per ottenere
“il ritorno più veloce al lavoro”. Cioè,
si prescinde dalla progettazione di uno
sviluppo che possa garantire un
“migliore lavoro”. Per questo Berta ha
le sue ragioni nel dire che Blair si è
abbandonato alle logiche del mercato
(almeno in questo campo cruciale). Ma
per questo ha torto se crede che Blair
sia un socialdemocratico. I socialdemocratici
hanno pressoché sempre agito
diversamente. Berta ha ragione anche
quando dice che Schröder ha subito il
fascino di Blair, ma per la verità egli ha
soprattutto dato continuità alla linea
tedesca, che ha accoppiato alta competitività
industriale e contenimento salariale.
L’Italia, da parte sua, vive una
realtà diversa: benchè il suo welfare
rimanga ingente e per lo più efficace, i
suoi caratteri (Nord-Sud, emerso-sommerso,
dimensione aziendale media
minuscola) e il suo debito pubblico
hanno impedito di programmare politiche
attive del lavoro per l’innovazione
(che costano!).
Ecco allora il punto che indebolisce
l’Europa e con essa la socialdemocrazia:
i suoi due più grandi paesi industriali,
Italia e Germania, sono validissimi
come esportatori industriali, ma
hanno una domanda interna fiacchissima.
E non c’è ragione di supporre che,
senza veri rimedi che pongano mano
alla domanda interna dei due paesi (e
quindi di Euroland) essa sarà migliore
dopo la crisi. Questo è il punto, in effetti:
nonostante sia caduto il dogma di
una globalizzazione senza programmi
mossa da un unico motore, perfetto perché
sregolato (gli Usa), la socialdemocrazia
non ha ancora compiuto il passo
dovuto per recuperare quella parte della
domanda che potrebbe essere europea,
e quindi programmabile.
La necessità di rimpiazzare gli Usa
come unico motore mondiale dovrebbe
però logicamente portare e rimediare
alle negligenze del passato. Infatti,
quando 13 paesi Ue su 15 erano di sinistra
non si è riusciti ad ottenere un vero
mutamento giovevole per l’economia
Ue (e la socialdemocrazia) poiché non
si è intrapresa una vera politica europea
che intrecciasse welfare, innovazione e
domanda “alla Delors”. Si credeva forse
ancora al motore spontaneo che ha
dominato ideologicamente l’ultimo
trentennio. Ma oggi? Ci sarebbero tutti
i presupposti per cambiare. Servirebbe
una strategia socialdemocratica intrecciata:
l’aumento della domanda euro/
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continentale e le politiche attive di welfare-
innovazione devono cioè per forza
agire insieme. Queste ultime impediscono
che si percorra la via della competizione
tramite ribasso salariale, che
deprime la domanda continentale
secondo una modalità che Stefan Collignon
chiama beggar your neighbour.
La fiducia in una domanda europea prevedibile,
a sua volta (e specialmente
considerando quanto siano integrate le
economie Ue), preverrebbe l’ansia diffusa,
che porta i populisti e le destre a
vincere ovunque, anche in Olanda e in
Scandinavia.
Già, perché anche lì le politiche attive
del lavoro innovative sono indispensabili
ma non sufficienti. Esistono
comunque dei ceti, specialmente popolari,
che reclamano anche la parte più
protettiva del welfare (pensioni, settori
della sanità, servizi pubblici più agibili,
edilizia popolare, trasporti a basso prezzo
ecc.). I populisti danesi per esempio
vincono anche perché denunciano le
troppo lunghe attese ospedaliere, e perché
le condizioni di crescita non programmabile
(e quindi di prudenza
eccessiva nei bilanci pubblici) permettono
loro di dare la colpa alle risorse di
welfare assorbite dagli immigrati. Non
solo. Il governo svedese di centrodestra
sostiene che ridimensionando le protezioni
a loro dedicate i senza lavoro torneranno
in produzione, nonostante
varie indagini nordiche provino che le
penalizzazioni allo studio non hanno
effetti incentivanti. Viceversa, con più
crescita e con una domanda europea
attesa più elevata si risolverebbero i
problemi sia a Copenaghen, sia a Stoccolma,
sia altrove: ci sarebbero più
risorse anche per il welfare “anti-ansia”
dei ceti popolari, e i disoccupati residui
verrebbero assorbiti, finanziando a loro
volta essi stessi il bilancio pubblico con
le proprie tasse.
In conclusione, la socialdemocrazia
europea oggi è colpita dalla situazione
ansiogena di alcuni ceti popolari. Questa
sorge spesso per il poco salario e la
crescente flessibilità, o perché i tagli
rischiano sia di escludere alcuni ceti più
deboli, sia, alla lunga, di eliminare l’effetto
“demercificante” delle politiche
attive per il lavoro. Ecco allora che
alcuni ceti popolari sono attratti dall’astensione
(alle elezioni europee particolarmente
punitiva per i partiti del PSE),
dal populismo di sinistra (la Linke, Di
Pietro), o da quello nazional-xenofobo
(Lega, Dansk Folkeparti, Pim Fortuyn,
Sverigedemokraterna). Per reazione al
populismo xenofobo, poi, alcuni “ceti
medi riflessivi” (spesso ben protetti)
preferiscono messaggi più idealisticoradicali
(Verdi, Socialistisk Folkeparti,
Vensterpartiet, Liberal-democrats) a
quello socialdemocratico. Da qui le
sconfitte delle ultime europee. Tuttavia,
la soluzione non può essere reclamare
semplicemente, come fa Berta, di trasformare,
come riteneva Keynes, il
socialismo europeo in “un ibrido disinteressato
a distinguere fra liberalismo e
socialismo“. Gli ibridi hanno ragion
d’essere solo in Italia. Quanto al keynesismo,
senza la decommodification in
favore del lavoro salariato non funzionerebbe.
Solo come parte di azioni
socialiste tese a favorire gli interessi dei
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salariati (e basate sulla parità dei sindacati
nel negoziare l’economia e il mercato
del lavoro) il keynesismo esce dal
puro afflato illuminista e diventa vera e
incisiva creatura politica. Del resto,
come noi storici scandinavisti ben sappiamo,
le socialdemocrazie nordiche
fecero politiche della domanda già prima
di conoscere le ricette di Keynes.
Favorire e rappresentare il lavoro nel
momento della sua vendita è inoltre
oggi ancora più cruciale: sia per far
ripartire una domanda grazie a più elevate
retribuzioni, sia per una competitività
“alta”.Ma anche perché le politiche
attive del lavoro socialdemocratiche
degli anni ’90 (importantissimo nuovo
strumento) producono più sistematicamente
innovazione, e possono così prevenire
i limiti del keynesismo, ovvero
l’inflazione da piena occupazione e da
conseguente surriscaldamento dei salari.
Lo dice la storia e lo dice anche il
presente: i social-liberali da sempre
sono buoni alleati. Ma senza la socialdemocrazia
e il suo sistema di rappresentanze,
e senza la riforma del capitalismo
che ne deriva sono semplicemente
pura etica. Ovvero pura irrilevanza.

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