venerdì 30 ottobre 2009

Paolo Flores d'Arcais: Il DNA della socialdemocrazia

Il Dna della socialdemocrazia


di Paolo Flores d'Arcais, da "Il manifesto", 28 ottobre 2009

Credo di aver scritto il primo articolo su «la crisi della socialdemocrazia» circa un quarto di secolo fa, e molti mi avevano preceduto. Questo per dire che il tema non è nuovo, che la socialdemocrazia in un certo senso è stata sempre in crisi (tranne quelle scandinave, che non hanno mai fatto scuola). La radice della sua crisi sta infatti nello scarto (spesso un abisso) tra dire e fare. La socialdemocrazia doveva costituire un'alternativa al comunismo nella difesa dell'eguaglianza contro il sistema del privilegio. L'alternativa al comunismo è restata (giustamente) ma la battaglia per l'eguaglianza (dunque la lotta contro il privilegio) è regredita a flatus vocis. Anche nella forma minimalista delle «eguali chance di partenza», che pure fu teorizzata da tanti liberali come corollario della meritocrazia individuale.

È perciò più facile ricordare i rari momenti in cui la socialdemocrazia ha davvero alimentato speranze: il laburismo dell'immediato dopoguerra, che realizza con Attlee il welfare teorizzato da Beveridge; gli anni di Brandt, che il 7 dicembre 1970 si inginocchia nel ghetto di Varsavia; la stagione di Mitterrand, che interrompe la lunghissima egemonia gollista che pesava sulla Francia ormai come destino (o dannazione). Realizzazioni riformiste, cui quelle stesse socialdemocrazie non hanno dato seguito.

Il carattere di casta

La politica di welfare si è fermata poco oltre il servizio sanitario nazionale (che si è oltretutto rapidamente burocratizzato). La de-nazificazione radicale della Germania, che i governi democristiani avevano trascurato, non viene radicata in altrettanti mutamenti dei rapporti di forza sociali. E l'unità delle sinistra di Mitterrand, dopo la stagione promettente e brevissima dei «club», si risolve in compromessi fra apparati di partito, non in accrescimento del potere effettivo dei cittadini.

Perché questo è il punto - niente affatto secondario - che le analisi della «crisi della socialdemocrazia» non affrontano mai. Il carattere di apparato, di burocrazia, di nomenklatura, di casta, che sempre più hanno assunto anche a sinistra coloro che, per dirla con Weber, «vivono di politica» e della politica hanno fatto un mestiere. La trasformazione della democrazia parlamentare in partitocrazia, cioè in partiti-macchine autoreferenziali e sempre più simili fra loro, ha vanificato ogni giorno di più il rapporto di rappresentanza tra deputati e cittadini. La politica è diventata sempre più una attività privata, come qualsiasi altra attività imprenditoriale. Ma se la politica, cioè la sfera pubblica, diventa privata, diviene tale in un duplice senso: perché per il politico il proprio interesse (di ceto, di casta) prescinde ormai dagli interessi e valori dei cittadini che dovrebbe rappresentare, e perché il cittadino è ormai privato della sua quota di sovranità, anche nella forma delegata.

Il politico di destra e di sinistra finiscono per avere interessi di ceto fondamentalmente comuni - mediamente: il ragionamento trova sempre eccezioni sul piano delle singole persone - poiché fanno entrambi parte dell'establishment, del sistema del privilegio. Contro cui avrebbe invece dovuto combattere la socialdemocrazia, in nome dell'eguaglianza. Perché, si badi, era la «eguaglianza» il valore in base al quale si giustificava l'anticomunismo: il dispotismo politico è infatti la prima negazione dell'eguaglianza sociale, e il totalitarismo comunista la calpesta dunque a dismisura.

Senza la bussola dell'eguaglianza

La partitocrazia (di cui la socialdemocrazia è parte), poiché costituisce la pratica e crescente vanificazione del cittadino sovrano, la negazione dello spazio pubblico agli elettori, costituisce l'alambicco per ulteriori degenerazioni della democrazia parlamentare, cioè per più radicali sottrazioni di potere al cittadino: nella politica-spettacolo e nelle derive populiste che oggi sempre più attecchiscono in Europa. Ma è vero che la vicenda attuale delle socialdemocrazie sembra manifestare qualcosa di più: interi gruppi dirigenti non solo in crisi ma allo sbando, avvitati (nel senso degli aerei quando precipitano) in un vero e proprio cupio dissolvi. Il fatto è che la colpa originaria, aver dimenticato la bussola del valore «eguaglianza», senza il quale una sinistra diventa priva di senso, presenta ora il conto. Ragioniamo con ordine.

È paradossale che la socialdemocrazia conosca l'acme della crisi proprio quando più favorevoli sono le condizioni per la critica dell'establishment e per proposte di riforme radicali sul piano finanziario ed economico, poiché è sotto gli occhi di tutti, e anzi patito e sofferto da grandi masse, il disastro sociale prodotto dalla deriva del privilegio senza freni e dal dominio senza controlli e contrappesi del liberismo selvaggio, degli «spiriti animali» del profitto.

Ma la crisi produce incertezza per il futuro e la paura spinge le masse a destra, si dice. Solo perché la socialdemocrazia non ha saputo dare risposte in termini di riformismo, cioè di crescente giustizia sociale, al bisogno di sicurezza e di «futuro» di questi milioni di cittadini. Facciamo qualche esempio concreto. La paura rispetto al futuro prende facilmente le sembianze dell' «altro», l'immigrato che ci «ruba» il lavoro. Ma l'immigrato può «rubare» il lavoro solo perché accetta salari più bassi. La socialdemocrazia ha mai provato a fare una politica di sistematica punizione degli imprenditori, grandi e piccoli, che hanno impiegato gli immigrati a salari più bassi, e senza le altre costose garanzie normative ottenute da decenni di lotte sindacali? Analogamente per la de-localizzazione delle imprese, il fenomeno più vistoso della globalizzazione. L'imprenditore tedesco, o francese, o italiano, o spagnolo, spostando le attività produttive verso il terzo mondo, lucrava super-profitti sfruttando manodopera a salari infimi e senza tutela sindacale (per non parlare della libertà di inquinare in modo devastante). Ma i governi hanno strumenti potenti, se vogliono, per «sconsigliare» ai propri imprenditorie la corsa alla de-localizzazione, strumenti che la politica della Comunità europea può rendere ancora più convincenti e rafforzare a dismisura.

La socialdemocrazia si è invece piegata alla mondializzazione, quando non l'ha osannata, ma se l'imprenditore può pagare meno il lavoro, de-localizzando la fabbrica o pagando in nero il clandestino, si creano le condizioni di un «esercito salariale di riserva» potenzialmente infinito, che porterà i salari sempre più in basso, restituendo attualità a categoria marxiste che il welfare - e lotte di generazioni (non la spontaneità del mercato) - aveva rese obsolete. Eppure la socialdemocrazia è organizzata addirittura in una «Internazionale», e nelle istituzioni europee ha avuto a lungo un peso preponderante. Non è dunque che non potesse fare una politica diversa. È che non ha voluto. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Anche la socialdemocrazia ha accettato le più «tossiche» invenzioni finanziarie, e nulla di concreto ha fatto per distruggere i «paradisi fiscali» e il segreto bancario, strumenti dell'intreccio affaristico-mafioso a livello internazionale, col risultato che il potere delle mafie in Europa dilaga, da Mosca a Madrid, dalla Sicilia al Baltico, e neppure se ne parla. E lasciamo stare il problema dei media, assolutamente cruciale, visto che «un'opinione pubblica bene informata» dovrebbe costituire per i cittadini «la corte suprema», a cui potersi «sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l'indifferenza popolare o gli errori del governo», come scriveva Joseph Pulitzer (oltre un secolo fa!), mentre nulla le socialdemocrazie hanno fatto per approssimare questo irrinunciabile ideale.

Un progetto riformista
La socialdemocrazia doveva distinguersi dal comunismo nel metodo, per la rinuncia alla violenza rivoluzionaria, e nell'obiettivo, per la rinuncia alla distruzione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Non era certo nel suo Dna, però, l'abdicazione a condizionare riformisticamente (cioè pesantemente) la logica del mercato, rendendola socialmente «virtuosa», piegandola agli imperativi di una costante redistribuzione del surplus in direzione dell'eguaglianza. Tradendo sistematicamente la sua unica ragion d'essere, la socialdemocrazia è stata in crisi anche quando ha vinto le elezioni e ha governato. Di quanto si sono ridotte le diseguaglianze sociali sotto i governi Blair? Di nulla, semmai il contrario. E con Schroeder? A che può servire una sinistra che fa una politica di destra, se non a preparare il ritorno dell'originale?
Non è difficile perciò delineare un progetto riformista, basta avere come stella polare l'accrescimento congiunto di libertà e giustizia (libertà civili e giustizia sociale). È impossibile però realizzarlo con gli attuali strumenti, i partiti-macchina. Perché appartengono strutturalmente al «partito del privilegio». Non possono essere la soluzione perché sono parte integrante del problema.

(28 ottobre 2009)

7 commenti:

Davide Vanicelli ha detto...

Bella analisi. È anche condivisibile.



Ma manca l’indicazione dello strumento con cui realizzare il progetto riformista, visto che è “impossibile però realizzarlo con gli attuali strumenti, i partiti-macchina”.



Una mancanza da niente…





Un caro saluto



Davide Vanicelli

piero ferrari ha detto...

Buonasera io mi trovo totalmente daccordo con Paolo Flores D'Arcais
al quale non gli si risponde nel merito ma con giudizi personali
tipico di chi non ha argomenti , d' altra parte se in tutta Europa i
partiti socialdemocratici hanno preso botte da orbi i motivi ci
devono pur stare non puo' essere mero frutto del caso o di
rincretinimento genrale di 300 milioni di elettori. Con stima Piero
Ferrari

felice besostri ha detto...

Se i risultati elettorali sono l'unico metro di giudizio, perché i
detrattori della socialdermocrazia non si sono iscritti in massa ai
partiti socialdemocraticiquando nel 1999 12 primi ministri della UE
a 15 erano espressione di quei partiti. Non si può ragionare
seriamente di socialdemocrazia dicendo che non si parla di quella
scandinava, perché non ha fatto scuola, quando è l'unica esperienza
continuativa di governo socialdemocratico e quindi di egemonia di
quelle idee e ragionare invecedi partiti che al governo ci sono
stati soltanto per 2/3 legislature di seguito, nel migliore dei casi.
La socialdemocrazia ci ha regalato le protezioni sociali più estese
conosciute dai lavoratori e dove è stata a lungo al potere la più
ridotta forbice nelle retribuzioni
tra quelle più alte e quelle più basse, da far invidia a quelle
sovietiche, dove l'apparato politico era molto più eguale degli
altri. E' vero non ha rovesciato il capitalismo, non hastatizzato
tutti mezzi di produzione, ma ha sempre salvaguardato le libertà e la
democrazia, scusate se è poco. Poichè Flores, che non ha mai chiesto
scusa di essere stato a capo di una rivista finanziata con le
tangenti, scrive su un giornale come il Manifesto, quotidiano
comunista,dovrebbe chiedersi per quale ragione i delusi dalla
socialdemocrazia sono recuperati in piccola parte da formazioni alla
loro sinistra, anche nei casi di maggior successo, come la LINKE in
Germania. Sono sempre più d'accordo con Alain Touraine quando
scriveva che se usiamo i termini "socialdemocratico" e stalinista
comunista" come un insulto allora preferisce il primo perché non
gronda di sangue. Il futuro della sinistra sui temi indicati da
Flores significherebbe rinuncia definitiva edi principio a pensare
ad una societàdiversa, ritenere che il socialismo, qualsiasi forma di
socialismo, sia stata sepolta nel XX° sotto le macerie del Muro

luigi fasce ha detto...

compagne e compagni,
a volte mi domando se leggiamo gli stessi testi che poi discutiamo
... oppure come è possibile leggerli con chiave interpretativa tanto
diversa. Solitamente faccio palesi elogi a Besostri ... ma questa sua
su D'Arcais ... cosa mi interessa cosa ha fatto ... come si è
comportato ... l'articolo di cui trattasi è veritiero o menzognero ?
Riporto il finale per non essere frinteso.
Mi pare un elogio al vero significato di socialdemocrazia !
Come si può interpretare diversamente ?
Bah ... anche se sono psicologo-analista ... mi stupisco sempre di
come ognuno l'intenda. Certo Pirandello ...
Un perplesso saluto liberalsocialista.
Luigi Fasce

peppe giudice ha detto...

E' vero quello che dice Besostri: come si fa a sostenere che la
socialdemocrazia scandinava non ha fatto scuola? Se è stato certo
l'esperimento più avanzato. C'è anche da dire che Olof Palme e la
socialdemocrazia svedese si avvidero per primi dell'incrinatura del
compromesso socialdemocratico tradizionale e proposero con il Piano Meidner
una strategia di superamento graduale del capitalismo in forme pienamente
democratiche ed alternative al collettivismo burocratico sovietico. E
scusate se è poco. Ma da uno che presume di essere intellettuale ed è poi
andato a fare il portaborse ad un cilatrone ignorante come Di Pietro non ci
si può aspettare di più. Sarete forse impressionati dalla mia ferocia di
giudizio. Ma è una reazione contro il moralismo da strapazzo di certi
pseudofilosofi. Flores ci ha rotto i coglioni per anni sulla questione
morale. è stato il tribuno di un reazionario come Davigo ha difeso una
concezione forcaiola ed autoritaria dello stato. Mi sembra giusto che
Besostri gli chieda di fare ammenda di essere stato a capo di una rivista
Mondoperaio che il suo stesso furore giustizialista implicitamente accusa di
essere stato finanziato con le tangenti. O la rivista MicroMega non è
finanziata dell'ing. de Benedetti che non è proprio uno stinco di santo? A
questi Torquemada e Farisei della malora occore rispondere con la frase di
Gesù: "le prostitute ed i peccatori vi precederanno nel regno dei cieli".
Chi mi conosce sa che sono un critico severo del craxismo, e quindi non è
certo la nostalgia che mi spinge a scrivere certe cose. E' piuttosto il
rifiuto del fetido ciarpame ipocrita di mezzi intellettuali che prima hanno
leccato il c... a Craxi e poi lo hanno dipinto come Gengis Khan.

Circolo Rosselli Milano ha detto...

Il tono immotivatamente saccente e supponente dell'articolo di Flores non
agevola certo una risposta argomentata e puntuale . E tuttavia i limiti
maggiori, a mio parere, stanno in una semplicistica ricostruzione di una
vicenda mondiale - quella del socialismo democratico e della duplice sfida
al comunismo e al capitalismo che, comunque la si voglia giudicare, percorre
gli ultimi duecento anni della storia della civiltà occidentale. Duecento
anni durante i quali sono successe varie rivoluzioni, quante probabilmente
non si sono verificate nei precedenti due millenni. Chiudere questa storia
con qualche invettiva e qualche battuta, alcune delle quali francamente a
dir poco infelice - è stata già citata quella delle "socialdemocrazie
scandinave che non hanno mai fatto scuola - è un esercizio molto a rischio
che non tutti si possono permettere. Detto questo mi sembra che impiegare
tempo nel consentire o dissentire con l'articolo di Flores sia il primo
interrogativo da porsi e da risolvere rapidamente, essendo possibili sullo
stesso tema altri riferimenti e di maggior interesse.. Penso a Salvadori o
a quanto emerso nell'ultima riunione di Volpedo. Sono state dette sullo
stesso tema affrontato da Flores cose di un certo rilievo e su alcune
vorrei richiamare l'intervento dei compagni. Come tutti noi ricordiamo, il
crollo del muro di Berlino venne accolta da parte comunista con la battuta
"il comunismo è morto ma la socialdemocrazia sta molto male". che era un
modo come un'altro per fare il salto della quaglia. Tuttavia non era che
mancassero i segni della crisi in casa socialista. Superati i decenni post
bellici, il compromesso socialdemocratico e il welfare incominciavano ad
avere difficoltà a svilupparsi ma anche solo a conservarsi, trovandosi in
difficoltà anche nei confronti del liberismo trionfante Il conseguente
ripiegamento moderato non solo confermava quella crisi ma apriva le porte
alla controffensiva liberista. Attualmente sembra prevalere l'interpretazione
secondo la quale la crisi della sinistra è consistita e consiste nella
modestia dell'orizzonte politico socialdemocratico, nella sua assoluta
insufficienza nell'affrontare le questioni economiche e sociali del nostro
tempo, essendo chiaramente fallita l'opzione dell'andare verso un liberismo
più o meno temperato, tra l'altro proprio quando da quella parte si aprivano
le porte ad una crisi economica e sociale drammatica. Quello che è in crisi,
dunque, è quella interpretazione di socialdemocrazia che, come è noto, non è
l'unica possibile. Siamo d'accordo?.

Poiché poi Besostri su Aprileonline di questi giorni ha presentato un elenco
di interrogativi altrettanto importanti e urgenti, recuperando ed esprimendo
implicitamente anche una specie di Carta dei Valori, perché non assumiamo
quell'articolo per esprimere la nostra riflessione?.

Sergio Ferrari

claudio bellavita ha detto...

che dopo la caduta del muro i comunisti, avendo in odio la stessa parola di
"socialismo" come segno che avevano sbagliato tutto, si siano messi a fare
gli alfieri della concorrenza e gli amministratori condominiali del
liberismo, rientra nello zelo del neofita. Ma che la stessa cosa abbiano
fatto i socialisti quando erano maggioranza in Europa, non tentando neanche
di avviare l'Europa del welfare, è qualcosa di simile al tradimento (oltre a
tutto, dettato dalla paura delle immigrazioni comunitarie)