giovedì 8 dicembre 2016

Paolo Bagnoli: La Repubblica ha salvato le proprie fondamenta

la repubblica ha salvato le proprie fondamenta paolo bagnoli da critica liberale Quanto urge dentro, guardando il risultato del referendum che ha salvato la Costituzione della Repubblica, è di prendere in prestito da quel grande italiano che fu Pietro Nenni ciò che disse in occasione del referendum sul divorzio del 1974: «Si sono voluti contare e hanno perso». Oppure andare a Giulio Andreotti e al suo «Alla fine tutte le volpi finiscono in pellicceria». O se volessimo, ancora, rimanere nel gergo popolare: «Hanno fatto come i pifferi di montagna; andarono per suonare e furono suonati». Quest’ultima, forse, è l’espressione che meglio riassume il tutto :il Paese non solo ha gridato un NO netto, ma con ciò ha fatto anche sapere che di Matteo Renzi non ne vuole sapere. Come accade in un voto referendario, comunque ci si collochi, il voto racchiude tanto altro al di là dello specifico in oggetto, ma poi bisogna considerare il dato unificante su cui argomentare un giudizio politico d’insieme. Il voto del 4 dicembre è, come tutte le verità, molto semplice da interpretare: non si può imbastardire la Costituzione con le questioni del governo; quanto è a fondamento di un Paese con quanto, invece, è contingente. Su ciò il giudizio del Paese è stato praticamente omogeneo e ci dice, altresì, un qualcosa che forse era a tutti un po’ sfuggito; in fondo, il popolo italiano sente il valore della Costituzione più della classe politica che lo governa e non è disposto a vendersi per una frittura di pesce! Subito dopo l’accertamento del risultato le interpretazioni di merito sono state le più varie; è normale e comprensibile, L’unica cosa che non abbiamo né letto né sentito è stato quello che, in effetti, era il nocciolo vero della questione: vale a dire, passare da un sistema di democrazia repubblicana a uno di potere autoritativo. Se ciò fosse avvenuto i rischi per la Repubblica e la sua legittimità democratica sarebbero stati gravissimi anche perché il nuovo sistema era stato concepito su due fondamenti: annullamento della centralità parlamentare con conseguente ruolo caudillistico del presidente del consiglio e legge elettorale che avrebbe permesso ad una forza, in questo 056 05 dicembre 2016 10 caso al Pd – hoc erat in votis - di divenire il centro di legittimità e di governo dell’intero sistema. Se così fosse avvenuto le radici della Repubblica, che non ci vergogniamo di dire nata dalla Resistenza, sarebbero state cancellate e la stessa prima parte della Costituzione avrebbe figurato, rispetto al tutto, come una specie di guardie del Pantheon le quali, ci siano o non ci siano, non fanno nessuna differenza, al massimo fanno compassione. Siamo consapevoli di cantare fuori dal coro. Il richiamo alla Resistenza e, cioè, all’antifascismo, senza trattino, tuttavia, non è un sospiro struggente della nostalgia, ma un dato della storia e della politica democratica che iniziano in Italia con la nascita della Repubblica e la Costituzione. Qui il discorso si fa complesso. A ben vedere, però, fino a un certo punto. Ogni Paese è il frutto della sua storia. Un Paese dimentico del proprio passato non è detto che sia, come si suol dire, destinato a ripeterlo, ma certo si sbanda; ecco perché, a meno che non si produca un cambio di sistema, si sta molto attenti a mettere le mani nelle Carte costituzionali. La storia, coi suoi valori, che non sono storici, ma politici, risiede naturalmente nel passato, ma il presente non nasce dal nulla poiché sgorga dal proprio passato: ossia, da un complesso di idee, moralità, atti e vicende che concorrono in modo determinante a delineare il profilo del presente, il suo ancoraggio, la sua identità. Un esempio probante ci viene dalla Francia che ha cambiato più volte sistema statuale e norme costituzionali, ma, dal 1789, non c’è mai stata Costituzione francese che non abbia messo in testa il richiamo ai principi della Rivoluzione. Prescindendo da ciò, infatti, si annulla l’identità della Francia, un paese nel quale sia la destra che la sinistra si richiamano entrambe all’esprit repubblicain. Il nostro esprit sta nell’antifascismo. Esso, senza trattino, segna una visione positiva della comunità e della sua convivenza che ha nelle forme della democrazia la sua espressione politica democratica. L’antifascismo è una risposta di civiltà alla barbarie. Vogliamo dire che l’antifascismo non appartiene solo alla storia, ma alla politica; è quanto ha dato forza agli sforzi politici e sociali della Repubblica che non dipendono operativamente dai principi in Costituzione essendo compito della lotta politica attuarli e svilupparli; della lotta politica la Costituzione segna compatibilità e limiti. Grazie a tale radice l’Italia ha superato le sue grandi crisi: pensiamo solo ai ripetuti attacchi sovversivi del neofascismo rivitalizzato dal revanscismo e dalle coperture dei servizi americani e al terrorismo rosso sul quale non tutto appare ancora scoperto. Da quando la prima Repubblica è franata, portando con sé progressivamente i valori fondanti e le identità repubblicane che le forze politiche storiche rappresentavano, si è perso pure il senso delle radici. Così, più che applicarsi a ricostruire i valori e i soggetti 056 05 dicembre 2016 11 della politica democratica si è lavorato a un cambio di sistema tramite una processualità snodatasi tra il porsi e il morire di nuove sigle politiche e la ricerca di sistemi elettorali che portassero all’obbiettivo voluto della parte in quel momento preminente. Il tutto, naturalmente, è stato camuffato dal segno del rinnovamento, della modernizzazione, dell’anti-ideologico, dell’adeguarsi allo standard europeo – di quale Europa, poi, nessuno ce lo ha mai spiegato - della lotta alla casta, dei costi della politica e si potrebbe continuare. Si è finito per scaricare sulla Costituzione quanto di più di improprio e di pericoloso si potesse fare. Ma un Paese in condizioni economiche e sociali assai critiche, in cui predomina la mancanza di speranza per il futuro, oberato da un’ imposizione fiscale fuori della logica, pieno di ingiustizie, di corruzione e che non sembra avere più fiducia nel futuro, ha detto NO. La giustificazione nobile era che si faceva una nuova Costituzione per le giovani generazioni, ma queste si sono opposte. È un motivo serio di riflessione cui guardare con qualche speranza. La filosofia della rottamazione è stata rigettata dai giovani cui va data, però, una risposta; forse, rientrando nell’ambito di un sistema basato sulla comunità democratica e non della casta decisionale al governo, essa può essere trovata. Con la vittoria del NO la Repubblica ha salvato le proprie fondamenta, ma i problemi complessivi della crisi sono ben lungi dall’essere risolti. Il dibattito che si è incendiato dopo i risultati ci sembra tuttavia incanalato su binari sbagliati. Il più evidente di essi è che il 40% raggiunto dal SI costituisca il consenso elettorale del Pd, come si affannano a dire a Renzi i suoi pretoriani per tenerlo in scena, quando in quella percentuale sono confluiti voti provenienti da forze che mai voterebbero il partito renziano. E’ evidente che a fronte delle dimissioni di Matteo Renzi, della questione della legge elettorale, del collocamento delle presenze parlamentari e così via, vi sia un’ansia dominante in tutti per cercare di indirizzare il futuro secondo il proprio interesse, ma è altrettanto vero che si palesa una miseria della politica nel rinunciare al tentativo di riagguantare le ragioni della crisi che ci travolto ormai da più di due decenni orsono. Al tentativo, cioè, di reinserire il riavvio del sistema democratico in una cornice fondante di cultura storica e politica; su cosa esprime e rappresenta la democrazia nata con la Repubblica; vale a dire, con quanto ciò ha a che vedere con i soggetti della democrazia medesima, combinando la politica – che è quanto attiene la vita dello Stato – con il politico, che riguarda invece i soggetti che animano la dinamica della politica medesima. Di tutto ciò non vediamo nemmeno l’ombra. E se non avviene, come quasi sicuramente non avverrà, la porta aperta dal NO produrrà solo un rattoppo che, forse, permetterà di andare un po’ avanti, ma al buio, senza reali prospettive coerenti con l’esprit della nostra democrazia. Un’altra occasione aspetta dietro la porta. 056 05 dicembre 2016 12 Invece che dare subito il sopravvento – anche se è necessario stabilizzare il sistema se pur si tratti di un insieme illegittimo costituzionalmente, produttore di fattori a loro volta illegittimi benché giustificati dalla Corte per motivi, comprensibili, ma non per questo confacenti ad uno Stato di diritto, di continuità – ci dovrebbe essere l’esplodere di una grande presa di coscienza della questione che è quanto l’influenza determinante del voto giovanile nella vittoria del NO chiede all’Italia. Ma è mai possibile che un Paese tradizionalmente ricco di cultura politica e di alto giornalismo critico – intendiamoci, non è che esso non ci sia, se pur ovattato dalle condizioni padronali dei giornali, anche oggi – sia così muto? Così arrendevole, quasi che esista solo un Paese “ufficiale” e, poi, un altro per il quale si configura il ruolo dei “culti ammessi” di una volta. Ci vuole certo coraggio e personalità, ma senza un’impennata di orgoglio “nazionale” non ci sarà né l’uno né l’altro. Corre l’obbligo, per un’altra volta, di domandarci perché la crisi sia giunta a tale stadio. Un argomento sul quale pesa una tacita intesa al silenzio che sarebbe salutare squarciare. Già da queste prime ore di post crisi è chiaro che il problema vero di fronte al quale si trova il Presidente della Repubblica, oltre a tutto il resto, è il Pd. E’ il vero problema di fronte al quale si trova il Paese tutto; la causa che ha tracimato la crisi italiana fino a questo punto di gravità e di tentata rottura istituzionale. Mentre in tutti i Paesi, di solito, la Costituzione unisce, il Pd si è ingegnato perché dividesse gli italiani i quali, grazie a Dio, non sono cascati nel trabocchetto, ma per i veleni sparsi a larghe mani ci vorrà un bel po’ prima che vengano riassorbiti. Verrebbe da dire che una forza politica senza ragione vera di cultura che non sia il potere, la sola cultura che ha – se di cultura si può parlare – è di affermare se stesso con danni istituzionali di grande rilevanza. Gli ibridi, infatti, non producono chiarezza, ma altri più complicati e pericolosi ibridi. Ora però la vicenda si completa visto che il voto referendario l’ha in qualche modo chiusa. Quando Matteo Renzi si è trovato a guidare il governo ha concordato con Giorgio Napolitano la proposta di cambiare Costituzione e legge elettorale. L’allora Presidente ha, infatti, ritenuto essere giunta l’occasione di dare corpo al disegno che Walter Veltroni aveva messo a fondamento del Pd: costruire una forza di centrosinistra a vocazione maggioritaria nella quale, finalmente, i postcomunisti cessavano di essere ritenuti tali grazie all’avverarsi della linea togliattiana dell’incontro coi cattolici pur non correndo il rischio, con ciò, di subire trasformazioni antropologiche, bensì di presentarsi come l’unica forma possibile di essere di sinistra. Annunciando Veltroni che il socialismo era morto e la sinistra finita, avrebbero potuto esercitare nella nuova formazione l’egemonia cui si sentivano predestinati come lo sono coloro che vengono da lontano e, quindi, vanno lontano. Matteo Renzi, che l’abbia capito o no, è stato lo strumento di Napolitano che lo ha 056 05 dicembre 2016 13 condotto discettando sulla inopportunità delle due Camere, sul fatto che occorre stabilità di governo e, quindi, pure una legge elettorale forte – rispetto a quella presentata, il povero Acerbo fa l’impressione di un moderato di periferia – che l’Europa chiedeva e compagnia cantando. Il fine era di salvaguardare il gene comunista della vocazione maggioritaria sotto la veste di una grande novità favorita dalla quasi scomparsa sinistra storica. Con coerenza Napolitano si è speso anche dopo aver abbandonato il Quirinale, salvo che, negli ultimi giorni della campagna elettorale, fiutati i sondaggi, ha cautamente, muovendosi in un paniere di aggettivi, avanzato alcune eleganti critiche al modo con cui Renzi conduceva la campagna referendaria. Un grande NO li unisce entrambi, direbbe il padre Dante, ”in un sol fuoco”! Il NO è stato un voto di rigetto del governo e del modo di interpretarlo da parte di Renzi e di coloro che lo hanno seguito. L’aver bocciato la soppressione del Senato è altamente positivo poiché ad esso venivano imputate colpe che proprio non aveva; la prima delle quali la lentezza del processo legislativo che dipende, cosa che tutti sanno, solo ed esclusivamente dalla volontà politica. Certo che alla Assemblea Costituente ci fu discussione se ci dovesse essere ancora un Senato – peraltro eletto – e su cosa esso dovesse fare. Se alla fine fu decisa l’equiparazione costituzionale con la Camera dei Deputati, non dimentichiamoci che si stava costruendo l’istituzionalità della democrazia parlamentare dopo venti anni dittatura, fu perché, in un Paese alieno dall’humus del liberalismo e quindi dalla pratica dei poteri che controllano e limitano altri poteri da cui sono controllati e limitati, la formula adottata garantiva meglio il sistema nel suo insieme. Fu una scelta azzeccata una volta respinta l’opzione federal-presidenzialista che avrebbe, se attuata, potuto prevedere una sola Camera o due Camere con ruoli diversificati. A oltre mezzo secolo da allora si può tranquillamente dire che la scelta non era sbagliata; basta vedere il rischio che il Paese ha corso se invece del NO avesse prevalso il SI’. E una parola, ce lo sia permesso, va spesa pure sul CNEL. Tralasciamo le ragioni storiche della sua creazione che risalgono addirittura all’inizio del secolo scorso. Non neghiamo che negli anni esso avesse perso autorevolezza e che chi ne ha avuto, in successione, la responsabilità primaria ben poco, anzi nulla, ha fatto per dargliela. Non solo, ma anche le parti sociali che ne sono il nerbo non lo hanno vissuto come dovuto. Dell’abolizione del CNEL e delle Provincie – a proposito adesso bisognerà ripensarci – se non andiamo errati, Ugo La Malfa era uso farne un argomento che tirava fuori in occasione delle campagne elettorali salvo rimettere successivamente tutto nel cassetto. Con il tempo la sua inutilità è stata imputata al fatto che, essendo la concertazione fatta a Palazzo Chigi, del CNEL se ne poteva fare a meno. Solo che il CNEL – ente di dialogo 056 05 dicembre 2016 14 sociale con rango costituzionale – non è il luogo della concertazione bensì della preconcertazione, ossia di un’elaborazione per favorire, nel senso della comunità nazionale, gli accordi sociali e la legislazione nello specifico. Ci domandiamo se, in un Paese così socialmente disarticolato, non sia utile uno strumento come il CNEL riformulando delle norme all’altezza del ruolo che gli si assegna. In conclusione: la vittoria del NO ferma una deriva pericolosa e di ciò dobbiamo compiacersi, ma non risolve i problemi aperti, essa crea un’occasione: sta al Presidente della Repubblica capirne il senso e operare con saggezza, ma ferma determinazione nel ripristino di un percorso di ricostruzione della politica democratica; ciò, tuttavia, non è sufficiente se il Paese nel suo insieme e la sua intellettualità più responsabile non batte un colpo altrettanto saggio e deciso. Purtroppo le urne non erano state ancora chiuse che già si incendiava la campagna elettorale; un percorso che si preannuncia lungo, velenoso e temiamo aspro e lacerante. Tutto appare muoversi fuori da logiche di responsabilità e chissà quante ne vedremo. Chissà perché ci vengono a mente due versi di Torquato Tasso: «nel mondo volubile e leggero/saggezza è spesso cambiar pensiero». Ce n’è da meditare; ce n’è!

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