mercoledì 4 maggio 2011

Turci-Cesaratto: Crisi europea del debito

Crisi europea del debito. Paga l’Italia.



di Sergio Cesaratto[1] e Lanfranco Turci





A tutti è chiaro che Grecia, Irlanda e forse il Portogallo (i PIG) dovranno fare default sul loro debito estero. La questione aperta non è se, ma quando, come e, soprattutto, chi paga. Com’è anche a tutti noto, il debito estero greco consiste sin dall’origine sopratutto di debito pubblico; quello irlandese è di origine privata, dovuto ai crediti esteri che hanno finanziato un boom edilizio, ma è divenuto pubblico dopo che lo stato ha garantito i debiti esteri contratti dalle banche locali; quello lusitano è una via di mezzo. La scommessa apparentemente fatta sinora dai paesi europei che contano è che le rigide misure fiscali imposte a quei paesi in cambio del sostegno finanziario generino un surplus del bilancio pubblico, mentre al contempo la deflazione salariale determini una ripresa delle esportazioni che, con la caduta delle importazioni in seguito alla caduta dei livelli di attività interni, generi un parallelo avanzo commerciale e con esso la capacità di redimere il debito estero. La ripresa delle esportazioni modererebbe la caduta dei livelli di attività e, conseguentemente, delle entrate fiscali. La scommessa è chiaramente persa poiché attuazione ed effetti di una selvaggia deflazione salariale sulla competitività, in particolare di Grecia e Portogallo, sono incerti e differiti nel tempo. Così i livelli del debito pubblico rispetto al Pil in questi paesi sono destinati nei prossimi anni a crescere inesorabilmente (di circa un terzo in pochi anni). Ciò in seguito alla caduta del loro Pil e delle relative entrate fiscali, dovuta alle selvagge misure di rigore loro imposte, alla abnorme spesa per interessi (inclusi quelli usurai pagati sui prestiti europei), alla “necessità” che il settore pubblico assorba parte dei debiti del sistema bancario.

E chi sono i creditori dei PIG? Fondamentalmente Francia, Inghilterra e, soprattutto, Germania (i FIG). Viene attribuita a Keynes la battuta che se tu devi 1 milione alla banca il problema è tuo, ma se ne devi 100 milioni il problema è loro. Apparentemente questi paesi sono stretti fra la Scilla del lasciar fallire i PIG e salvare direttamente i propri istituti bancari dal conseguente fallimento, e la Cariddi di continuare a foraggiare quei paesi sostenendo così, indirettamente, le proprie banche. Il ministro tedesco dell’economia, la “colomba” Schaulbe, ha nei mesi scorsi flirtato con la prima scelta con l’idea che comunque il contribuente tedesco avrebbe dovuto pagare per l’imprudenza delle proprie banche, e che avrebbe allora meglio digerito un aiuto diretto alle proprie banche. Il flirt è durato poco in quanto risulta per la Germania più conveniente continuare ancora per un po’ con la seconda strada e questo perché a sovvenzionare i PIG (ovvero le banche dei FIG) attraverso i fondi europei creati nel maggio 2010 (e rafforzati quest’anno oltre il 2013 sotto nuova veste) non sono chiamati solo i contribuenti tedeschi, ma anche quelli di paesi che, come l’Italia, di crediti verso il PIG ne vantano pochi. La BCE di default non vorrebbe sentir parlare né ora ne mai in quanto di titoli dei PIG ne ha un bel po’ nel portafoglio (sotto forma di collaterale accettato in cambio di liquidità alle banche). Non le sono costati nulla (la BCE crea liquidità con un “tratto di penna”), ma essa ritiene che una perdita, ancorché virtuale, possa diminuire la sua reputazione anti-inflazionistica di guardiana rigorosa della liquidità.

L’operazione in corso può essere dunque così riassunta. Se i PIG fallissero ora, buona parte del loro debito sarebbe ancora in mano alle banche dei FIG. Ma se si aspetta un po’, il 2013-14, questo debito si sarà col tempo in gran parte europeizzato. Questo perché man mano che i titoli dei PIG scadono, non potendo essere ricollocati nel mercato, sono acquistati dai fondi europei. A quel punto i FIG avranno convenienza a far fallire quei paesi tanto le perdite (fra un terzo e metà dei crediti) cadranno per lo più sui fondi europei. Le banche dei FIG si saranno intanto rafforzate (anche per i lauti interessi che guadagnano indebitandosi a bassi tassi con la BCE e reinvestendo, per esempio, in titoli italiani e spagnoli). Il nostro paese partecipa ai fondi europei di salvataggio con una quota di circa il un quinto (poco meno della Francia mentre la Germania mette poco più di un quarto); secondo alcuni calcoli l’Italia è addirittura il maggior contribuente. Così l’Italia sarà a chiamata a pagare per responsabilità che non ha! Invitiamo i lettori a guardarsi una tabella pubblicata da The Economist che è a tal riguardo impressionante. Pone infatti a confronto i crediti di ciascun paese europeo verso i PIG con la sua partecipazione ai fondi europei di salvataggio. Essa si commenta da sola.


Questa operazione di prolungamento dei tempi del default ha costi enormi per i PIG a cui sarebbe conveniente ristrutturare ora il proprio debito senza vederlo crescere inesorabilmente in barba ai sacrifici barbari a cui le loro popolazioni sono costrette. E per quale motivo l’Italia accetta tutto questo? Il ricatto è che un fallimento prematuro dei PIG, dunque delle banche dei FIG, porterebbe a un balzo verso l’alto dei tassi di interesse per gli altri paesi fortemente indebitati, Spagna e Italia, anche se per ora meno inguaiati. L’erogazione di decine di miliardi di Euro nei fondi di salvataggio, nei fatti alle banche dei FIG, aggraverà tuttavia debito pubblico ed estero del nostro paese. Non appare dunque un caso che all’Italia l’Europa intenda imporre, col consenso di Tremonti e Draghi, misure di bilancio restrittive che, se attuate, sarebbero a dir poco devastanti ma che, si ritiene, consentirebbero l’urto del salvataggio delle banche tedesche. Come reagire? Le proposte (qui e qui)non mancano: l’impegno della BCE a ridurre i tassi di interesse e lasciare un po’ correre inflazione, salari e domanda interna in Germania, la stabilizzazione e non la riduzione dei debiti pubblici, una politica europea di rilancio degli investimenti pubblici su ambiente energia e infrastrutture, una tassa europea sulle transazioni finanziarie, la re-industrializzazione del sud europeo. Sono temi che cominciano a circolare fra i partiti socialisti in Europa e nel PSE. Molto meno in Italia. Ciò che manca alla sinistra italiana non è tanto o solo la forza politica di farli avanzare per la sua parte, ma la consapevolezza che la posta in gioco è la sopravvivenza per il nostro paese in questa Europa.







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[1] Professore ordinario di Economia presso l’Università di Siena.

2 commenti:

gim ha detto...

Quel che l’articolo, di cui condivido la parte analitica, non spiega, è come si faccia a lasciar correre salari, inflazione e domanda senza aumentare gli spread tra i titoli pubblici ed il tasso di sconto, aggravando la situazione di quei Paesi, come l’Italia, che necessitano quantomeno del continuo rifinanziamento dei titoli in scadenza. Occorre anche considerare che siamo entrati in una fase in cui in tutto il mondo (a cominciare dagli USA) i governi aumentano il debito, il che si traduce in maggiori tassi d’interesse sulle nuove emissioni e su quelle a tasso variabile.

Se posso permettermi qualche osservazione, ritengo che:

· I tassi del sostegno europeo ai Paesi in difficoltà andrebbero riconsiderati: se il costo del servizio di un debito è strutturalmente, e non transitoriamente, tale da generare ulteriore debito, l’operazione diviene controproducente, più che inutile.

· Nel ragionare su politiche espansive di spesa pubblica, occorre considerare la qualità e non solo la quantità. Una cosa è avere a che fare con una spesa pubblica nella quale abbondino gli sprechi, i favori corporativi, le spese improduttive (incluse quelle militari), ed una cosa è avere a che fare con una spesa pubblica di qualità, dove investimenti, ricerca, istruzione, infrastrutture utili, reti, energia, occupino un posto rilevante e tale da consentire la fondata attesa di un sostegno allo sviluppo e di ritorni per il futuro.

· Concordo sul fatto che gli interventi sono stati condotti nella logica che è stata descritta, e che sul fatto che la crisi, più che nel settore pubblico, si sia originata nel settore privato dell’economia, ad opera delle banche e delle grandi istituzioni finanziarie (anche Tremonti lo ha affermato). Ma ci rendiamo conto di cosa avrebbe significato il default quasi contemporaneo di tre Paesi dell’area-euro, per quanto non tra i più grandi?

E Spagna ed Italia sarebbero i successivi della lista, con effetti ancor peggiori di quelli temuti. Per questo è per noi ancora più importante che per altri il riuscire a riqualificare la nostra spesa pubblica: altro che tagli orizzontali!



Gim Cassano, 04-05-2011

lanfranco ha detto...

Gim sui punti specifici concordiamo.nell'articolo si parla di lasciar correre domanda ,salari e un pò di inflazione in germania per farle assumere un ruolo di traino in europa e ridurre la deflazione salariale.Quanto ai default noi diciamo che sono nell'ordine delle cose(vedi anche l'editoriale del Sole24ore di domenica scorsa) e che il rinvio lungi dall'attenuare la crisi la aggrava e distribuisce i costi a svantaggio di altri paesi fra cui il nostro.Che poi questi scenari facciano tremare le vene nei polsi è vero,appunto perchè siamo tutt'altro che fuori dalla crisi.