andrearomano
Oggi 1 novembre 2009, 1 ora fa
I limiti di Bersani e i conservatori di centro
Oggi 1 novembre 2009, 2 ore fa
Tra le virtù di Pierluigi Bersani la più apprezzabile è forse il senso della misura. A differenza di alcuni dei suoi predecessori, il nuovo leader del partito democratico non annuncia alcuna roboante trasformazione nel DNA della politica (in stile veltroniano) né si presenta come un sopraffino stratega di geometrie cartesiane (in stile dalemiano). Più semplicemente, ma con effetti assai più rassicuranti su tutti coloro che hanno a cuore la buona salute della democrazia italiana, Bersani promette di essere l’onesto amministratore di un capitale politico che appare fortemente ridimensionato rispetto a quelle che furono le ambizioni di partenza del Partito democratico ma che rimane comunque indispensabile al buon funzionamento dell’alternanza elettorale.
Al contempo, questa sua virtuosa assenza di velleitarismi deriva dalla presa d’atto di cos’è davvero rimasto in quel risicato patrimonio politico: il senso di realismo, un pragmatico mestiere di contrattazione politica e la capacità di rappresentare gli interessi di alcuni minoritari insediamenti geografici, anagrafici e sociali. Tutto questo insieme alla consapevolezza, primo di tutto dello stesso Bersani, di non poter essere lui il prossimo candidato alla guida del governo. Si tratta, in sintesi, di ciò che resta delle migliori spoglie del postcomunismo italiano. Non poco, ma nemmeno molto.
In questo senso l’uscita di Francesco Rutelli dal PD non può essere spiegata esclusivamente con ragioni di carattere soggettivo, e dunque come l’esito della sconfitta di un ex leader che ritiene di non trovare più alcuno spazio di manovra nel partito. C’è anche la presa d’atto che con la vittoria di Bersani si è compiuto un ciclo breve ma intenso, che aveva fatto immaginare a molti che il PD potesse essere la casa comune ad una pluralità di culture politiche. E insieme la constatazione che la strada che percorrerà il PD di Bersani non potrà che essere quella, già ampiamente battuta con esiti mai decisivi negli equilibri politici della nostra storia recente, della declinazione più tradizionalista possibile del più classico welfarismo post-comunista.
Tuttavia la scelta di Rutelli è gravata da un tradizionalismo speculare e altrettanto pernicioso. Quello che rappresenta il fantomatico “centro” come un luogo da sempre e per sempre immobile, da presidiare con una forza che sia insieme centrista e moderata. Un partito che realizzi alleanze parlamentari di volta in volta diverse e che per questo sia decisivo nella formazione di qualsiasi maggioranza di governo. Si tratta di fatto dell’accezione di centro che prevale nei paesi ancora prigionieri di forte fratture ideologiche. Quelli nei quali, secondo la nota distinzione di Maurice Duverger, il parlamento è governato “par le centre” attraverso un piccolo o grande partito di centro capace di stabilizzare l’intero sistema politico. Laddove nei sistemi maturi, che al contrario sono governati “au centre”, si vince sì con il consenso degli elettori di centro ma conquistandoli ogni volta con offerte politiche diverse.
È quanto accaduto negli anni Novanta alle socialdemocrazie avanzate di Germania e Gran Bretagna, con il “Neue Mitte” di Gerhard Schroeder e il “Left of Centre” di Tony Blair. Ed è anche quanto accaduto più di recente a Nicholas Sarkozy e Angela Merkel, che hanno rifondato i rispettivi conservatorismi passando per linee molto lontane da quelle di un centrismo inteso secondo i canoni italiani. In entrambi questi scenari storici il risultato è stato l’avvio di stagioni di riforme profonde, dove il centro dell’elettorato è stato sedotto da partiti capaci di definire proposte politiche dai tratti culturali espansivi e innovatori.
Anche in Italia il centro reale e mobile dell’elettorato è stato conquistato da soggetti in apparenza lontani dal moderatismo centrista. C’è già riuscito Berlusconi e ci sta riuscendo la Lega, che ha ormai dismesso l’aspetto più rumoroso della sua propaganda per diventare un più classico soggetto di mediazione di interessi e visioni. Eppure nella nostra discussione pubblica domina ancora l’accezione tradizionalista di “centro”, che ipoteca negativamente l’apertura di un autentico ciclo riformatore.
Perché il ritorno ad un sistema classicamente proporzionale, qual è quello che il nuovo centrismo italiano richiede come suo corollario, condannerebbe il paese a governi ogni volta ricontrattati in parlamento. E dunque privi della forza di realizzare alcuna vera innovazione delle politiche pubbliche perché prigionieri dei reciproci poteri di ricatto. Con il risultato paradossale di cercare Blair tornando invece a Gava.
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