Dal sito Radicalsocialismo
Socialismo (di sinistra) o barbarie
Scritto da Giuseppe Giudice
giovedì 05 novembre 2009
In altri interventi ho messo in evidenza come, negli ultimi venti anni, vi siano stati due punti di frattura storica non ricomponibili. Il primo, nel 1989, il crollo del comunismo che ha segnato per la sinistra la impossibilità di riproporre quello specifico progetto politico. Il secondo, recentissimo, nel 2008, lo scoppio della crisi strutturale e sistemica del capitalismo liberista, modello economico dominante negli ultimi 25 anni che ha dimostrato, sempre a sinistra, il fallimento politico di quelle derive moderate e liberiste di un pezzo della socialdemocrazia (Blair, Schroeder). Non voglio tornare (l’ho affrontato altrove) sul fallimento del comunismo. Mi interessa piuttosto analizzare quello che è stato l’elemento strutturale portante della politica socialdemocratica nella seconda metà del 900. Gran parte della socialdemocrazia europea, a partire dai primi anni 50 del secolo scorso, abbandona l’idea, fino ad allora dominante entro di essa, di un superamento graduale del capitalismo, tramite un progressivo processo di socializzazione dell’economia nel pieno rispetto e sviluppo della democrazia politica, per puntare invece su un compromesso di lunga durata con il capitalismo stesso. Schematizzando, tale compromesso dava al capitalismo ed al mercato la gestione dei processi di accumulazione e di sviluppo ed alla politica ed allo stato la funzione di redistribuire la ricchezza forti della presenza di un robusto movimento socialista e sindacale, che garantiva il welfare (sanità, istruzione, previdenza pubbliche) a livelli qualitativi e quantitativi mai raggiunti prima, una forte crescita dei salari quale fonte di una domanda sostenuta e stabile, elementi di democrazia economica quale la co-determinazione dei lavoratori nelle grandi imprese.
Il modello qui schematizzato è quello dei paesi del centro-nord Europa, dove l’influenza politica della ocialdemocrazia è stata più forte e stabile. Tale compromesso sociale è il frutto della necessità di uscire dalla profonda crisi (che termina con la II Guerra Mondiale) del primo modello del capitalismo liberista, avviata nel 1929. Il capitalismo per sopravvivere ha bisogno di riformarsi profondamente. La crisi del ’29 non è il crollo del capitalismo immaginato dai comunisti, ma è la crisi del capitalismo finanziario dell’epoca dell’imperialismo che aveva provocato la prima Guerra Mondiale.
Le politiche keynesiane di stimolo della domanda e di rilancio della spesa pubblica trovano nel “compromesso socialdemocratico” il miglior quadro in cui si possono sviluppare ed impedire una crisi catastrofica del sistema. Tale compromesso produce in Europa il modello sociale più avanzato e va avanti sostanzialmente stabile per 30 anni, con tassi di crescita economica elevati che garantiscono, al tempo stesso, buoni margini di profitto e distribuzione del reddito equilibrata socialmente. Una fase storica progressiva che consolida la civiltà democratica.
Ma, negli anni 70 intervengono diversi fattori, che interrompono quel meccanismo virtuoso di crescita stabile e sostenuta. In primo luogo gli shock petroliferi ed i meccanismi inflazionistici che essi innescano, seguiti da un aumento generalizzato dei prezzi delle materie prime. La crescita economica del capitalismo del dopoguerra si era fondata sul basso prezzo delle materie prime, derivanti dal meccanismo dello “scambio ineguale” tra paesi industrializzati e Terzo Mondo. Ma c’è un altro elemento più profondo che investe il cuore stesso del meccanismo di accumulazione capitalistica. Dagli anni 60 si avvera, con grande ritardo, una vecchia profezia marxiana: la tendenza alla caduta del saggio di profitto.
Per Marx, nel processo di accumulazione capitalistico vi è una tendenza del saggio del profitto a ridursi progressivamente fino a provocare una crisi fatale per il sistema. Il saggio del profitto è il rapporto tra profitto e costi di produzione (impianti produttivi, materie prime, salari). Per Marx l’aumento del valore del capitale fisso, dovuto a costosi investimenti per nuovi macchinari e nuove tecniche produttive, porta tendenzialmente a far scendere il saggio. Ma egli stesso la interpreta come legge “tendenziale”. In realtà è vero che con nuovi investimenti aumenta il valore del capitale immobilizzato, ma è anche vero che gli investimenti in nuove macchine ed in nuove tecnologie aumentano di molto la produttività del lavoro, che compensa ampiamente l’accresciuto costo del capitale fisso e neutralizza la caduta del saggio del profitto, ed anzi, per un lungo periodo ne provoca una crescita. Ma questo fino a che il tasso di crescita della produttività del lavoro non sopravanza il tasso di crescita della domanda di merci.
Le grandi innovazioni tecnologiche del dopoguerra producono in realtà una crescita fortissima e costantemente progressiva della produttività a cui la domanda dei beni prodotti non riesce a stare dietro. Secondo studiosi come Gallino, è negli anni 60 che interviene tale inversione di rotta e si riaffaccia la caduta tendenziale del saggio di profitto. Per cui la grande impresa capitalista cerca sempre di più di sganciare il profitto dalla produzione e lo scambio dei beni ed a farlo derivare da operazioni di natura finanziaria (nonché cercare settori nuovi da sottoporre alla valorizzazione del capitale), preannunciando quello che sarà il nuovo capitalismo degli ultimi 25 anni fondato sulla dominanza del capitalismo finanziario quale dato strutturale del nuovo modello economico.
Infine, le innovazioni tecnologiche tendono sempre di più a modificare gli assetti della fabbrica tradizionale in cui in un solo stabilimento lavoravano anche più di centomila lavoratori. Il lavoro operaio non scompare ma si frantumano i luoghi della produzione. In tal modo il compromesso socialdemocratico entra in crisi e tale crisi si ripercuote anche su quei partiti comunisti occidentali che avevano fatto propria la prassi socialdemocratica (senza mai ammetterlo).
Riccardo Lombardi è in Italia ed in Europa (insieme ad alcuni esponenti della sinistra francese che si ispirano a lui – Martinet e Gorz) il primo ad avvertire la crisi della socialdemocrazia tradizionale e la necessità per il socialismo democratico di esplorare nuovi orizzonti. Egli vede bene come la crisi del meccanismo di crescita economica, l’avvio del processo di finanziarizzazione, le conseguenze dell’innovazione tecnologica nel campo cibernetico ed informatico che modificano la fabbrica radizionale, il capitalismo che per sfuggire alla caduta del saggio del profitto tende a mercificare beni esistenziali (tempo libero, intrattenimento, sport fino alla stessa sessualità umana), ed infine i limiti naturali e fisici alla stessa crescita economica (emergere della centralità del problema ecologico): tutto ciò per lui evidenzia l’impossibilità di portare avanti il vecchio programma socialdemocratico.
In un intervento del 1981 a Piacenza, Riccardo Lombardi afferma: «L’offensiva della destra esiste perché a sinistra sta mancando la base economica per proseguire questa politica, e questo spiega la crisi verso sinistra che in questo momento pervade tutti i partiti socialdemocratici in Europa, cioè se questa politica di assistenza , questa politica di welfare state alimentata dalla politica Keynesista va avanti, essa non riesce più ad alimentarsi (...) E’ chiaro che una società non può vivere di sola assistenza; è chiaro che ci sono problemi che si aggravano; quella che gli economisti britannici chiamano la crisi fiscale, esiste; l’insufficienza delle risorse una volta che siano concomitanti tre fenomeni: uno, una crisi produttiva e di produzione che non è affatto provvisoria e che continuerà; due, il fatto che i metodi tecnologici e di informatica che si estendono nell’industria tendono ad espellere dalla produzione una buona parte di uomini e donne e quindi riducono la forza lavoratrice; terzo, che la sanità, l’assistenza aumentano il numero dei vecchi, rispetto a quello dei giovani, e la stessa crisi della natalità fa sì che la popolazione invecchia, quindi ci troviamo già in questi anni in una situazione in cui gran parte della popolazione che tende ad essere maggioranza (oggi i più che sessantenni sono quasi la maggioranza nel nostro paese, e lo diverranno fra poco) dovrà essere mantenuta da una massa di giovani in gran parte tenuti lontani dalla produzione, o perché mantenuti nell’ambiente scolastico o perché non trovano lavoro, e questo in un periodo di mancata crescita della produzione. E’ chiaro che una società non può reggere, deve ad un certo punto abbandonare l’assistenza o mutare sistema. Compagni, ecco la crisi della società socialdemocratica. Nella sua eccezione classica (al capitalismo il compito di produrre e al governo il compito di distribuire il reddito) essa non regge più; le basi economiche mancano, e allora bisogna cambiare sistema e intervenire nella produzione, stabilire che cosa, come e per chi si produce, con quali intendimenti, con quali rapporti, e allora si muta il processo accumulativo in modo da rendere possibile il proseguimento dell’opera assistenziale con una società più sobria, con una società che consumi meno beni necessitanti energie e consumi più servizi e beni culturali, tempo libero, music, scolasticità, attività artistiche ed estetiche. Oggi il paradosso qual è? E’ che le risorse produttive di beni necessari per i bisogni non soltanto minimi ma anche per i bisogni superflui degli uomini e delle donne sono più che perfettamente acquisibili con l’attuale apparato produttivo. Eppure non riusciamo appunto perché non interveniamo nell’apparato produttivo, per regolarlo in modo che esso produca quello che è necessario, e lasci le risorse necessarie per migliorare quello che si dice “modo di vita”. Lo stile di vita della popolazione, è qui la grande svolta; è qui che la politica socialdemocratica finisce e finisce nobilmente anche, finisce per l’esaurirsi delle
condizioni che l’hanno resa possibile. E’ qui che la grande ipotesi socialista nasce. Interveniamo nella produzione non con forme statizzate ma con forme in parte statizzate e in parte autogestionali. (...) La politica che proponiamo è una politica realista, difficile, dura, piena di rischi anche. Ma forse che la politica che facciamo oggi non ha rischi compagni? Ma c’è qualcuno che può supporre sul serio che anche se si ricominciasse (molti si augurano che la crisi finisca), si ricominci a produrre a gettito frenetico? Compagni questo è impossibile. Guardate: nei primi trent’anni del dopoguerra, il reddito e la produzione di beni dei paesi sviluppati hanno avuto nel complesso un ritmo tale che ogni 15 anni la produzione veniva raddoppiata. Ora pensate se si riprendesse (una cosa inaudita nella storia dell’umanità) una politica in cui in 50 anni poi il reddito sarebbe moltiplicato mi pare 150 volte o qualche cosa del genere, una moltiplicazione senza fine delle risorse energetiche, delle risorse di materie prime, nelle risorse di territorio, nelle risorse di acqua, nelle risorse di aria, ma voi pensate sul serio che questo sia possibile, disseccare completamente le risorse del mondo per una produzione di beni superflui o eccedentari, e che lasciano lo stesso nella fame il terzo mondo?».
Chiedo scusa per la lunga citazione, ma Lombardi con molta lungimiranza, nel 1981, aveva delineato l’impossibilità di poter continuare con un compromesso sociale in cui al capitalismo è affidato l’intero meccanismo di accumulazione e sviluppo ed alla politica socialdemocratica la redistribuzione ed il welfare. Del resto il problema inizia a porselo il partito socialdemocratico che aveva realizzato la forma più avanzata di modello sociale, il socialismo svedese di Olof Palme, che con il piano Meidner immagina di allargare di molto il compromesso sociale, attraverso un intervento diretto delle forze sociali e dei lavoratori nel processo di accumulazione, per una diversa della qualità dello sviluppo.
Lo stesso programma di Bad Godesberg della SPD, che di solito viene interpretato come il manifesto della socialdemocrazia classica del dopoguerra (e per certi aspetti lo è), non limita certo l’azione socialista a quella redistributiva. Il programma, ad una lettura più attenta ed approfondita, dice cose interessanti. Ne cito alcune: «La concorrenza condotta mediante imprese pubbliche è un mezzo decisivo per prevenire un predominio privato sul mercato. Attraverso tali imprese debbono prevalere gli interessi della collettività. Esse si rendono necessarie là dove, per motivi naturali o tecnici, talune prestazioni indispensabili alla collettività possono essere fornite economicamente e razionalmente solo se la concorrenza viene eliminata. Le imprese della libera economia comunitaria, che si ispirano ai bisogni e non al lucro privato, esercitano una funzione calmieratrice dei prezzi ed aiutano i consumatori. Esse assolvono una funzione preziosa nella società democratica e meritano di essere incoraggiate. Mediante un'ampia pubblicità l'opinione pubblica deve poter conoscere la struttura della potenza economica e la gestione delle grandi imprese, affinchè possa essere mobilitata contro gli abusi. Efficaci controlli pubblici devono impedire gli abusi del potere economico. I mezzi più efficaci sono il controllo degli investimenti e il controllo delle forze che dominano il mercato. La proprietà collettiva è una forma legittima di pubblico controllo a cui nessuno Stato moderno rinuncia. Essa serve a preservare la libertà dallo strapotere delle grandi concentrazioni economiche».
Il programma è del 1959, e va inquadrato in quel contesto. Esso non si pone il tema centrale (odierno) della qualità dello sviluppo. Ma con i suoi limiti il programma di Bad Godesberg si interroga comunque su come intervenire sul processo di accumulazione (il tema del controllo degli investimenti). Su questi punti Oskar Lafontaine ha intrapreso un’opera interessante di lettura “da sinistra” del programma di Bad Godesberg.
Sulla rottura del vecchio compromesso sociale non mi dilungo. Sappiamo cosa ha prodotto in termini di regressione sociale e civile. Dietro quella che asetticamente (anche a sinistra) è stata definita “modernizzazione” c’è il nuovo modello sociale ed economico del capitalismo liberista che ha operato una redistribuzione del reddito alla rovescia (dal basso verso l’alto), ha fatto del lavoro l’anello debole della catena sociale, ha creato precarietà, insicurezze, alimentato modelli competitivi ed aggressivi di comportamento individuale. Ha fatto del capitalismo e del mercato degli idoli da adorare; accresciuto il divario nella ripartizione della ricchezza tra le varie aree del mondo e all’interno delle singole aree. Lo sviluppo dei paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Messico) ha comunque portato un pezzo minoritario di quelle società a standard di vita europei, ed un pezzo maggioritario a standard africani. Il problema ambientale è stato fortemente aggravato da un meccanismo di sviluppo che ha favorito la crescita irrazionale del consumo e dello spreco privato.
La crisi di questo modello, esplosa drammaticamente lo scorso anno, è la conseguenza della centralità dell’elemento finanziario dell’economia, che è divenuto elemento regolatore dell’economia reale. La finanza non è stata più considerata come un elemento accessorio ma come dato strutturale che alimenta non solo e non tanto gli investimenti ma gli stessi consumi. Nel momento in cui il lavoro in tante parti perde diritti e tutele, e di conseguenza si riduce il potere di acquisto dei redditi da lavoro; nel momento in cui si tende a ridurre il welfare o privatizzarlo, la domanda per i consumi, prima garantita dalla pressione salariale e dalle spese sociali, nel nuovo modello è fornita dalle bolle speculative e dall’indebitamento privato. Questo accade soprattutto nei paesi anglosassoni, dove la finanziarizzazione ha raggiunto il suo apice. Gli investitori istituzionali considerano il lavoro una merce usa e getta (di qui la flessibilità) – spesso si è licenziato personale solo per far schizzare in alto gli indici azionari. I processi di privatizzazione della previdenza sociale, dell’istruzione e della salute sono campi aperti per la speculazione. Come rileva Gallino, nel capitalismo azionario di oggi è il valore dei profitti che dipende dal valore delle azioni e non viceversa.
Questo sistema ha recato dentro di sé i germi di una profonda instabilità. A differenza del capitalismo regolato degli anni 50 e 60, che garantiva una crescita stabile e forte, la finanziarizzazione ha portato (come dice Giorgio Ruffolo) l’economia sulle montagne russe di una continua altalena tra crescita drogata e stagnazione. I processi cumulativi della speculazione sui titoli derivati hanno portato alle continue crisi finanziarie di cui sono stati costellati gli ultimi 16 anni. Messico, Brasile, la gravissima crisi finanziaria del sud-est asiatico del 98, Argentina, Stati Uniti (nel 2001 con lo scoppio della bolla speculativa sui titoli tecnologici). Fino ad arrivare al capolinea nel 2008.
Come dice l’appello di Volpedo, oggi si ripresenta l’alternativa tra socialismo e barbarie. Nel senso che da questa crisi o se ne esce con un modello più avanzato di civiltà sociale e democratica o con un regredire verso modelli autoritari, socialmente e culturalmente regressivi.
Il socialismo diventa dunque una alternativa praticabile. A patto che impari dai suoi errori. Una netta soluzione di continuità va cercata verso quelle forme di post-socialismo neoliberale che hanno inquinato la socialdemocrazia negli ultimi 15 anni (Blair, Schroeder, D’Alema) confondendo modernità e liberismo.
Il comunismo è stato un fallimento epocale, un punto di non ritorno. E’ ormai solo un tratto identitario inutile politicamente. La vecchia socialdemocrazia appartiene, come abbiamo visto, al 900, anche se ha realizzato il modello sociale più avanzato mai visto. Non prendo seriamente in considerazione come socialismo le forme folcloristiche del neo-peronismo alla Chavez.
Recuperare ed attualizzare il filone del socialismo di sinistra di Riccardo Lombardi, di Gorz, Martinet, le suggestioni della socialdemocrazia più avanzata come quella di Olof Palme, nonché considerare prezioso ciò che sta facendo Oskar Lafontaine per costruire il socialismo democratico del futuro: queste mi paiono le direttrici per ricostruire e rifondare il socialismo democratico e la sinistra in Italia ed in Europa. Una sinistra socialista che si propone come forza di governo senza rinunciare alla radicalità dei propri fini e valori. Né recinto minoritario, né circo subalterno.
Capace di proporre un socialismo che vede l’uscita dalla crisi con un meccanismo alternativo di sviluppo che ponga come centrali la sua compatibilità sociale ed ambientale combinando politiche redistributive e nuovo modo di produrre e consumare. Che vede nella competizione economica un vincolo di efficienza e non un valore assoluto. Che propone forme nuove di intervento pubblico in economia e forme nuove di democrazia economica fino ad immaginare delle modifiche allo stesso diritto di proprietà nelle grandi imprese, affinchè possano essere sperimentate nuove forme di codeterminazione che ridiano valore sociale al lavoro. Non si tratta certo di abolire il mercato e il capitale, ma di non dar loro più quel ruolo centrale, e a tratti totalizzante, che finora hanno avuto nella società. La regolazione sociale del mercato (che è comunque uno strumento di garanzia della libertà) ha questo senso. Così come ha senso immaginare (come fa Giorgio Ruffolo) uno spazio non riducibile né allo stato, né al mercato. Una economia sociale che possa trattare con pratiche partecipative ed autogestite un’importante quantità di beni sociali ed esistenziali che non possono essere né mercatizzati, né sottoposti a gestione amministrativa-burocratica.
Il nuovo socialismo richiede certo immaginazione, ma sono le nuove tecnologie che richiedono un surplus di immaginazione progettuale da parte degli uomini. Per un socialismo interamente umano.
Giuseppe Giudice
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